giovedì 14 aprile 2016

La trappola della scimmia


Di Jacopo Simonetta.

Questo articolo è già stato pubblicato sul n. 8 della rivista online "Overshoot".   Il numero è scaricabile gratuitamente a questo link:  http://www.rientrodolce.org/

La trappola della scimmia è un recipiente che contiene qualcosa di molto buono da mangiare; la scimmia vi infila la mano per prenderlo, ma il pugno chiuso non può uscire dalla bocca del vaso.   In realtà niente impedisce all'animale di lasciare l’esca e andarsene, ma non vuole rinunciare alla sua leccornia e così continua a stringere.   Ma più si agita, più monta il panico e più si stringono le dita, finché arriva il cacciatore che uccide la scimmia e se la mangia.

Oggetto reale o metafora dell’avidità umana poco importa. Qui vorrei utilizzarla come spunto per una riflessione su qualcosa che a noi umani è molto caro.   Qualcosa da cui siamo abituati ad attenderci ogni bene e che può diventare una trappola mortale.

Per arrivarci vorrei partire da un modello economico proposto da Herman Daly per spiegare come l’incremento della produzione di beni e servizi non necessariamente giova all'economia; anzi può diventare la macchina che la distrugge.  Sembra un paradosso, ma non lo è, come molti dei fenomeni che stanno condizionando il nostro presente ed il nostro futuro.

Partiamo da una semplice considerazione: ad ogni incremento della produzione corrisponde un aumento del vantaggio per il produttore.  Se vendere 100 pizze al giorno porta un determinato vantaggio, poniamo 100 euro di guadagno netto, produrre 200 pizze dovrebbe dare un vantaggio maggiore.   Di solito è così, ma di quanto?   Non di altri 100 €.   Perché?   Perché incrementando la disponibilità di un bene diminuisce il desiderio per il medesimo, mentre aumentano le spese per produrlo e commercializzarlo.

Ad ogni attività commerciale, come ai processi biologici, si applica l’implacabile legge dei ritorni decrescenti.   Qualunque cosa cresca, da un certo momento in poi, comincia ad incontrare una resistenza sempre maggiore al suo sviluppo finché questo necessariamente si arresta.
In termini termodinamici la faccenda si spiega col fatto che, man mano che qualcosa cresce, aumentano le sue necessità e, dunque, le sue difficoltà a reperire abbastanza energia per continuare a crescere.

Contemporaneamente, ogni accrescimento comporta anche un aumento dei costi, siano questi energetici, monetari o d’altro genere.   Per fare più pizze è necessario non solo comprare più farina e mozzarella, ma anche ingrandire il forno ed assumere personale.   Per reperire più cibo è necessario camminare di più.   Per catturare più luce occorre mantenere tronchi e rami sempre più grandi e pesanti.   Per pompare più petrolio è necessario perforare pozzi sempre più profondi eccetera.   Finché le uscite equivalgono alle entrate e la crescita si ferma.    Una legge che gli economisti conosco bene e che chiamano “legge del quando fermarsi”.

Quello che di solito non si dice è che, col tempo, le strutture realizzate per catturare energia si usurano ed aumenta quindi il bisogno di energia per la loro manutenzione.   Man mano che il tempo passa, il fabbisogno di energia aumenta, aumentano le difficoltà a reperirne abbastanza ed i sistemi cominciano a diventare fatiscenti, finché collassano.

Tutte le strutture dissipative, di qualunque natura e dimensione, invecchiano e muoiono; dalle cellule alle galassie.   Ed è un bene, perché è proprio questo che consente l’evoluzione.   “La Morte è l’artificio mediante cui si mantiene la Vita” diceva Goethe.

Tornando alle nostre preoccupazioni economiche, se è assodato che i vantaggi marginali non possono che diminuire ed i costi marginali non possono che aumentare, come è possibile pensare che la crescita economica possa proseguire all'infinito?

Sostanzialmente per due motivi:

Il primo è che, comunemente, si ritiene che i ritorni decrescenti si applichino alle singole attività, ma non alle economie complessive.   Si presume infatti che ci sia sempre la possibilità di inventare nuovi prodotti o servizi, man mano che quelli già disponibili raggiungono il fatidico livello d’arresto.   Un’idea che era perfettamente ragionevole quando fu concepita un paio di secoli or sono.

All'epoca, sulla Terra c’era meno di un miliardo di persone, abbondanza di risorse e spazi apparentemente illimitati in cui disperdere i nostri rifiuti.   Pensare la stessa cosa oggi, in un mondo in cui ogni giorno ci sono 300.000 persone in più a grattare il fondo del barile di risorse come l’acqua, il suolo, la biodiversità e l’aria; un mondo in cui le caratteristiche chimiche e fisiche dell’atmosfera e degli oceani sono state gravemente alterate dall'accumulo di rifiuti è semplicemente una stupidaggine.

Il secondo motivo è più interessante perché è vero che disponiamo di potenti mezzi in grado di spostare il famoso punto di equilibrio del “quando fermarsi” sia a livello di singole attività che di intere economie: la crescita demografica, la pubblicità (e tutti gli altri trucchi del consumismo), il progresso tecnologico.

Per capirne il ruolo dobbiamo osservare con più attenzione il modello di Daly.

a) 1 = Limite economico; 2 = Limite di saturazione; 3 = Catastrofe.  
Da H. Daly modificato.
 All'aumentare dei consumi, il vantaggio marginale diminuisce ed i costi salgono, fino a che si equivalgono.   Oltrepassare questo punto di equilibrio significa investire per distruggere ricchezza, anziché costruirne.  Chi potrebbe fare una cosa simile?   Eppure succede.

Vediamo meglio i tre punti di possibile crisi.

1 - Il “ Limite economico” si raggiunge quando la curva dei benefici calanti incrocia quella dei costi montanti.   E’ questo il famoso punto “quando fermarsi”.   Qui è fondamentale tener presente che, parlando di intere economie e non di singole attività, la curva dei costi include necessariamente anche tutte le esternalità che, invece, non figurano nei bilanci delle imprese.   Questo è uno dei motivi per cui spesso le imprese trovano vantaggioso spingere l’economia generale in territorio collettivamente negativo.

2 – Il “limite di saturazione” può trovarsi in qualunque punto della curva e corrisponde a quando la gente ne ha fin troppo di qualcosa.   Smette di comprare, la curva dei vantaggi precipita e finisce il gioco.   L’economia neoclassica nega formalmente l’esistenza di questo limite con il postulato di “non sazietà” la cui validità è però smentita dai fatti, oltre che dallo sviluppo iperbolico dell’industria pubblicitaria e, più in generale, tutto l’armamentario del consumismo.  



Ma anche altre forzanti, in particolare la crescita demografica, possono facilmente spostare il limite economico ben addentro al territorio della crescita anti-economica.    Cioè in posizioni in cui la somma dei costi, comprese le esternalità, supera i ricavi.   Parlando di economie, il fatto di aver raggiunto od anche superato il punto di equilibrio non significa infatti che tutte le attività siano negative.   Anzi, di solito alcune vanno meglio di prima ed altre nuove nascono, anche se si sviluppano a spese di altre che chiudono.
In pratica, l’economia diventa un gioco a somma negativa, ma ciò non impedisce che vi siano dei vincitori e poiché sono proprio questi che assurgono al potere vi sono ben poche possibilità che fermino la macchina.
Ma quel che è più importante, è che in questo modo ci avvicina al terzo limite.

3 – Il “Limite della catastrofe ecologica”.   Sappiamo, o dovremmo sapere, che qualunque attività umana modifica l’ecosistema da cui preleva le risorse necessarie e scarica i rifiuti risultanti.   Entro certi limiti, l’ecosistema si adatta, mantenendo comunque una sua funzionalità.

Oltre questo limite, l’ecosistema collassa in un sistema quasi privo di vita, completamente incapace di sostenere qualsivoglia attività umana.   L’esempio classico è quello della messa a coltura di territori vergini che può portare allo sviluppo di agro-ecosistemi molto complessi e vitali, così come a lande desolate a seconda dell’intensità con cui si sfruttano i suoli, l’acqua e la biodiversità.

Anche l’esistenza di questo limite viene esplicitamente negata, o perlomeno ridotta ad una possibilità del tutto teorica, dalla scuola economica corrente in base al presupposto che lo sviluppo economico sia in grado di produrre anche i mezzi per riparare i danni che produce.  Il fatto che un’infinità di attività e di economie siano già collassate assieme agli ecosistemi di cui vivevano non sembra interessare i grandi guru del denaro.

Ma ciò che qui ci interessa è il ruolo chiave rivestito dalla tecnologia.   L’effetto principale del progresso tecnico è infatti quello di rendere più efficienti i processi produttivi.

L’intera élite mondiale ed anche buona parte della risicata nicchia ambientalista conta proprio sull'aumento dell’efficienza produttiva per togliere dal fuoco le castagne dell’umanità senza che nessuno si faccia troppo male.

Ma se i processi produttivi diventano più efficienti, i costi di produzione diminuiscono, la curva dei costi marginali si sposta verso il basso ed il punto di equilibrio verso destra.   Eventualmente fino a coincidere con il punto di rottura che scatena la catastrofe.   Oltre, ovviamente, non ci sono più attività economiche di sorta.

Parlando di economia globale, non sappiamo esattamente dove questo “punto” si trovi, anzi potremmo addirittura averlo già superato.   Non possiamo saperlo, ma possiamo essere certi che c’è.


In altre parole, l’aumento di efficienza produttiva e commerciale portano benefici a chi se ne serve, ma a costo di avvicinare progressivamente il sistema alla soglia di collasso.   Finché vi sono ampi margini di manovra, rappresentati da risorse e possibilità di smaltimento prive di forti controindicazioni, i vantaggi superano certamente gli svantaggi.

Non per nulla in ogni società che è collassata i successi del passato hanno indotto la gente a tenersi stretto il suo progresso.   Esattamente come fa la scimmia con la sua pagnotta.

D'altronde, per la scimmia fare diversamente significherebbe rimanere a pancia vuota.   Per una società umana mollare la presa significherebbe avviare volontariamente il proprio declino politico ed economico.   Cioè restare a pancia vuota, essere invasi o, perlomeno, rischiare parecchio.   Ma continuare ad alzare la posta ha sempre avuto il risultato di rimandare la resa dei conti finché non sopraggiunge il cacciatore, nelle vesti di una raffica di catastrofi tanto più devastanti, quanto più a lungo è stato possibile rimandare.

Sono pochissimi e parziali gli esempi storici di società che sono state capaci di fermarsi ad un livello a cui era ancora possibile stabilizzare il sistema per periodi relativamente lunghi.

Dunque il rilancio economico ed ancor più il progresso tecnologico da cui ci attendiamo salvezza sono esattamente quelle cose che hanno già condannato a morte molti di noi e forse l’umanità intera, se non la Biosfera.

Dovremmo allora considerare “cattiva” la tecnologia?    Sarebbe come se un gatto considerasse cattivi i propri artigli perché gli hanno permesso di catturare tutti i topi del quartiere.   Non ha senso.   Tra l’altro, avremo bisogno di tutto quel che abbiamo per scendere la parte destra del “Picco di Seneca”.

Il fatto è semplicemente che abbiamo elaborato una forma di evoluzione troppo efficiente e questo ci ha permesso di distruggere una buona fetta del Pianeta.  Per chi ne ha assaporato i frutti, è stato bello non sentire più la fame, poter guarire da tante malattie, andare in vacanza ed in pensione, viaggiare in automobile o in aereo, eccetera.   Niente di strano che più sentiamo sfuggirci tutto ciò, più forte stringiamo le dita.   E chi è vissuto sperando di realizzare lo stesso sogno, ucciderà e morirà prima di rinunciarvi. La tecnologia ci ha spacciati non già perché sia cattiva, bensì perché funziona troppo bene!

Ci sarebbero, o ci sarebbero stati, a mio avviso almeno due modi per sfuggire alla trappola.   Man mano che la tecnologia riduceva i costi di produzione, si sarebbero dovuti imporre limiti crescenti alla disponibilità delle risorse e/o al diritto di acquistare determinati beni o servizi.   Gli strumenti per ottenere questo erano molti: dalla tassazione al razionamento, ma in ogni caso una cosa simile avrebbe significato semplicemente la fine dell’economia di mercato.

Una mostruosità che solo a dirla scatena derisione e scandalo, ma che accadrà comunque in un futuro non lontano e senza bisogno di riesumare ideologie che hanno già ampiamente fallito.   Basterà che una risorsa insostituibile raggiunga costi di estrazione, raffinazione e trasporto eccessivi per il mercato. Per fare un esempio fra i tanti possibili, che faremo quando il petrolio avrà dei costi di “produzione” di 150 $ al barile?   A quel prezzo non potrà essere venduto, ma neppure se ne potrà fare a meno.   Dunque, semplicemente, l’industria petrolifera sarà in qualche modo nazionalizzata o militarizzata e continuerà a lavorare come potrà, consegnando i suoi prodotti ai servizi essenziali (oltre che ad una ristretta cerchia di oligarchi).

In conclusione, è possibile che nel nostro futuro si verifichi un repentino collasso delle attività economiche.   Molti lo temono, ma personalmente credo più probabile che ad una serie di crisi parziali si risponderà con una progressiva militarizzazione dell’economia e della società.   Perlomeno in quei paesi che al momento avranno i mezzi e la capacità per poterlo fare.   Non sarà piacevole, ma potrebbe andare anche peggio.