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mercoledì 4 aprile 2012

Rabbia

Guest post di Antonio Turiel apparso su The Oil Crash il 13 Febbraio 2012. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Atene in fiamme, 12 Febbraio 2012. http://t.co/gN46b9JX

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Nel suo documentato ed altamente istruttivo libro “Collasso: come le società scelgono di vivere o di morire” (per chi non abbia il libro e sappia l'inglese, può vedere "il film"), Jared Diamond ripete una domanda che è passata per la testa a dozzine di antropologi quando studiano l'isola di Pasqua ed il suo collasso per eccesso di sfruttamento delle esigue risorse di cui disponeva: che cosa sarà passato per la testa all'uomo che ha tagliato l'ultimo albero? Anche assumendo che una comunità disperata sia incapace di vedere il deterioramento progressivo ed inesorabile dei suoi boschi, quell'ultimo albero significava un punto di non ritorno ovvio anche per coloro che hanno poca capacità di anticipare il futuro. Come è potuto accadere che quell'uomo non vedesse che era l'ultimo albero, che dopo di quello non ci sarebbe più stata legna? Che per un così misero guadagno si condannava?

Mi immagino quell'uomo e medito su quello che gli possa essere passato per la testa. E' salito su per la collinetta a cercare legna per il fuoco, per una canoa o per fare un palo per spostare un Moai. Da bambino aveva visto quella collina ancora coperta da un bosco rado, molto diverso da quello tanto fitto che gli raccontava suo nonno – anche se sicuramente suo nonno coloriva le sue memorie giovanili. Ma era vero che lì rimaneva solo il suo albero. Si è fermato un secondo prima di cominciare ad abbatterlo: quando avesse finito non ci sarebbero più stati alberi in tutta l'isola. Sentiva un peso freddo nello stomaco. "Be'", pensava per tranquillizzarsi, "chi lo dice che non ci sono alberi in tutta l'isola?" Era da molto tempo che non vedeva i territori delle tribù rivali e sicuramente loro stavano preservando i loro alberi per assicurarsi la vittoria, innalzando i Moai più grandi. "Maledetti"; dovrà andare a cercare legna lì. L'ultima guerra non è andata molto bene, ma stavolta potrebbe essere diverso. Sarà diverso. "In realtà stiamo tanto male per colpa loro. Se non ci daranno la loro legna con le buone gliela dovremo strappare. Dobbiamo buttarli a mare questi malnati". Ha esitato ancora un po', ma poi ha pensato: "se non taglio io l'albero, verrà il mio vicino e lo taglierà lui. Che non sia mai". E senza pensarci oltre ha cominciato a tagliarlo.

Noi siamo così diversi? In una conferenza tenuta da un mio collega dell'Istituto delle Scienze del Mare, parlando di eccesso di pesca, l'oratore ha mostrato un lucido con le specie di pesci documentate all'inizio del ventesimo secolo come proprie del Mediterraneo Occidentale che non abbiamo fatto in tempo a conoscere. Erano una trentina solo quelle documentate, che non sono che una frazione infima. I più anziani del mio istituto hanno visto pesci che i giovani non vedranno mai. E anche così continuiamo a spingere sull'acceleratore, a vedere quanto possiamo spremere la popolazione di tonno rosso del Mediterraneo, a vedere se il piccolo aumento registrato l'anno scorso permette di aumentare le quote di pesca. Lo abbiamo già fatto con l'acciuga del Cantabrico perché di fatto l'abbiamo sterminata. E, in realtà, se guardate bene, succede la stessa cosa con tantissime risorse. Siamo realmente diversi da quell'abitante dell'Isola di Pasqua che ha tagliato l'ultimo albero?

Nel suo libro, a partire dagli indizi a disposizione, Diamond medita su come dovessero essere gli ultimi 100 o 200 anni prima dell'arrivo degli esploratori europei, quando la popolazione declinava irreversibilmente e non a causa di estranei. I resti di ossa umane con ferite da arma, alcuni rosicchiati... i Moai deliberatamente demoliti o sfregiati... alcuni retaggi della tradizione orale dei pochi discendenti che popolavano l'isola quando sono arrivati gli europei...

Diamond tesse una trama forse non del tutto realistica, ma in ogni caso molto evocativa. Secondo lui, sembra probabile che nel bel mezzo del cataclisma ambientale e delle risorse, con la gente disperata che moriva di fame, c'è stata una rivolta. La gente si è sollevata contro i suoi vecchi leaders politici e religiosi e l'antica religione (che li portava ad erigere, con gran dispendio di risorse, i pesanti Moai) è caduta nel discredito totale. La gente provava rabbia, entrava nelle case dei ricchi e vedeva come vivessero molto meglio di loro. Le hanno rase al suolo. Hanno distrutto alcuni Moai, gli stessi che poco prima veneravano ed erano motivo di orgoglio per ogni tribù. La pura rabbia, l'impotenza per non sapere come uscire dal buco nel quale si erano infilati da soli, li ha portati ad una voragine di morte e distruzione che li ha lasciati più indeboliti e impotenti di prima.

Siamo tanto diversi? Ieri, il parlamento greco, in una sessione da agonia, ha approvato l'ennesimo pacchetto di misure di aggiustamento, più repressivo e minaccioso dei precedenti, ai quali si va a sommare. Molta gente non lo ha più sopportato ed è scesa in strada, a migliaia, dando vita a gravi scontri. La polizia è rimasta senza lacrimogeni, la folla ha saccheggiato e bruciato decine di edifici del centro di Atene, principalmente banche. I grandi simboli del trionfo di un decennio fa, i banchieri, vengono ora additati, alla stessa stregua dei politici (l'analogia con i leaders religiosi e politici dell'isola di Pasqua è inevitabile, soprattutto tenendo conto della massima per cui l'unico vero Dio è il denaro, che in modo tacito si accettava anche fino a solo 10 anni fa). E tutto questo per ottenere il secondo pacchetto di aiuti economici dalla UE, che permetterà al paese ellenico di venire a capo delle proprie obbligazioni di pagamento del mese di marzo, ma forse non a lungo. Che senso ha prolungare questa agonia quando sappiamo che questa crisi non finirà mai? Che la recessione che sta cominciando ora renderà ancora più complicato non il rientro del debito greco, ma quello della maggior parte dei paesi europei? Che negare di accettarlo ci può portare solo al collasso? Non sarebbe più logico accettare che il modello che tentiamo di conservare non funziona più e che si deve ridefinire? Fare questo non ha forse più senso che, spinti dall'impegno di pagare un debito impagabile, finire per svendere quel poco che ci resta o finire col tagliare l'ultimo albero dell'isola?


Il futuro non è scritto, ma il passato sì. La più grande superbia sta nel crederci migliori dei nostri antenati; lo saremo solo se siamo capaci di apprendere dai loro insegnamenti. Ci serve un piano, e ci serve ora.


Saluti,
Antonio Turiel

lunedì 12 dicembre 2011

Diciamocelo Forte e Chiaro: questa crisi non finirà mai!

Guest post di Antonio Turiel apparso su "The Oil Crash" il 19 giugno 2010
Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti.


Questo post di Antonio Turiel è stato scritto circa sei mesi fa e si riferisce alla situazione in Spagna. Tuttavia, sembra estremamente rilevante per la situazione italiana odierna e pertanto ci sembra il caso di presentarlo qui tradotto. Secondo Turiel, infatti, la crisi economica che ha colpito molti paesi europei non è un fatto congiunturale ma un fatto strutturale dovuto alla stasi della produzione petrolifera e al suo imminente declino. Per questa ragione, la crisi non finirà mai.



Cari lettori,
 
abbiamo parlato di questo argomento in modo frammentario in alcuni post e nei commenti che ne sono seguiti, ma credo che sia importante mettere insieme alcuni pezzi del puzzle e mostrare in modo attendibile quello che è un fatto: questa crisi economica in cui ci troviamo immersi non finirà mai, o perlomeno non all'interno dell'attuale paradigma economico, conosciuto come capitalismo.

Il grafico sulla sinistra (elaborato con dati dell'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA), del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti (EIA) ed estratta dal rapporto mensile Oil Watch di The Oil Drum) mostra la produzione mensile di petrolio greggio degli ultimi otto anni (espressa come la media di milioni di barili giornalieri). Come potete vedere, a parte alcune oscillazioni, la quantità di petrolio greggio estratto dalle profondità della Terra permane più o meno costante dal 2005. Gli anni precedenti (che non appaiono nel grafico), dallo
shock petrolifero dell'inizio degli anni 80, avevano visto una crescita inarrestabile della produzione, ad un ritmo di quasi il 2% all'anno. 

Ma dal 2005 qualcosa si è complicato. La produzione dei nuovi giacimenti che entravano in produzione a malapena erano sufficienti a coprire la perdita di produzione dei giacimenti già in attività. Questo è un fatto: ci troviamo sull'altipiano o plateau estrattivo di petrolio greggio e la discesa potrebbe iniziare in qualsiasi momento, poiché già dagli anni 80 si scopre meno petrolio di quanto se ne consumi e questo significca che prima o poi la produzione comincerà a diminuire. Quando? Secondo ITPOES (think-tank dell'industria britannica di cui abbiamo già parlato qui) la discesa comincerà circa nel 2015. Si deve specificare che il petrolio greggio non è tutto il petrolio che si produce nel mondo, ma la maggior parte sì (circa 75 milioni di barili al giorno – Mb/d). Ci sono altri 10 Mb/d che provengono dalle sabbie bituminose, dai liquidi del gas naturale e dai biocombustibili, ma non bisogna lasciarsi ingannare. In primo luogo perché stiamo parlando di petrolio sintetizzato usando altre fonti energetiche (normalmente gas naturale) con la conseguente perdita di energia durante la conversione. E non abbiamo abbondanza nemmeno di gas naturale, anche se mancano 15 anni al picco. Queste fonti alternative di petrolio sono semplicemente una stupida fuga in avanti, un modo di occultare un realtà nuda e cruda, cioè che sono anch'esse quasi al limite della loro capacità di produzione e non potranno ritardare di molto il declino petrolifero. In secondo luogo, la capacità calorica di questi “petroli” è solo il 70% dell'originale, cosicché, in un certo senso, stiamo chiudendo la stalla quando i buoi sono già scappati. Non avete notato che ultimamente la vostra auto tira di meno? E' normale, per via di una normativa europea i carburanti commercializzati nella UE devono contenere un minimo del 5% di biocombustibile. In qualche modo dobbiamo usare questo “petrolio” scadente che sintetizziamo, ma non è buono come l'originale...
 
Il fatto che la produzione di petrolio non cresca non significa che si fermino i nostri consumi, che di per sé sarebbe già un male. In realtà stiamo decrescendo. Guardate nel grafico a destra. L'ha elaborato Stuart Staniford partendo dai dati della IEA e dell'EIA e li ha pubblicati nel suo blog Early Warning (cercate l'articolo "US economic recovery in the era of inelastic oil"). La linea azzurra in alto rappresenta il consumo dell' area OCSE, quella scura che sale a tutta velocità dal basso rappresenta sostanzialmente la Cina e l'India. Fino alla linea verticale sono dati del passato, verificati; a partire da lì è la proiezione di Stuart Staniford partendo dalla tendenza attuale. La realtà è che la Cina, l'India ed altri paesi con economie più dinamiche e maggior potenziale di crescita stanno aumentando il loro consumo più di noi, poiché, con la loro crescita, costa loro di meno pagare fatture petrolifere più alte. E siccome dal 2005 questo è un gioco a somma zero, dove loro aumentano, noi dobbiamo diminuire. In concreto, a ritmo del 3% annuo. Gli ultimi dati di Oil Watch confermano che i paesi dell'OCSE (anche la Spagna – e l'Italia, ndT) hanno perso più del 15% dei consumi petroliferi rispetto al 2005.
 

Ovvero, siamo fondamentalmente in una situazione di diminuzione rapida del consumo di energia, nè cercata né pilotata, ma forzata e repentina. Secondo i dati dell'EIA, il petrolio rappresenta il 33% dell'energia primaria consumata nel mondo, anche se questa percentuale varia di paese in paese; in Spagna è del 48%, quasi la metà. Pertanto, con la caduta di oltre il 15% negli ultimi 5 anni del nostro consumo di petrolio in Spagna abbiamo ridotto il nostro consumo di energia primaria approssimativamente dell'8%, più dell'1,5% su base annua. Stimare l'impatto sul nostro consumo di energia si fa più complicato nella misura in cui la percentuale di petrolio che perdiamo si fa più grande ed il suo prezzo aumenta, poiché per produrre e mantenere le altre fonti di energia manca il petrolio (per i compressori dei martelli pneumatici che si usano in remote miniere, per il meccanismo che mantiene le dighe e le turbine eoliche, ecc ecc). Di fatto, il petrolio ha influenza su tutto, per la sua grande varietà di usi (plastica, fibre sintetiche, reagenti chimici per farmaci, industria alimentare, ecc) e come fonte di energia fondamentale nel funzionamento di macchine di ogni tipo (auto, camion, gru, aerei, escavatrici, barche, trattori, ruspe, ecc.). La realtà è che tutta l'attività economica dipende dal petrolio in particolare e dall'energia in generale. Per definizione, energia è la capacità di compiere un lavoro. Lavoro utile che serve a trasformare materiali e creare prodotti, spostare merci e persone, produrre luce, calore e fresco, ecc. Anche le economie tecnocratiche basate sui servizi devono alla fine servire a qualcosa di tangibile ed i maggiori costi del petrolio e dell'energia si ripercuotono su di esse in egual misura che sugli altri settori economici. La correlazione fra il consumo di energia e il PIL è così ben conosciuta che la IEA è solita pubblicare un grafico della modalità che seguono queste linee in ogni World Energy Outlook che pubblica (quello di questo grafico è del WEO del 2004). Sull'asse delle ordinate (verticale) si vede il consumo totale di energia nel mondo, espresso in milioni di tonnellate di petrolio equivalente, Sull'asse delle ascisse (orizzontale) si vede il PIL del mondo, espresso in parità di potere d'acquisto. Il bello è che la forte connessione fra le due variabili mostrata da questa curva viene mantenuta anche nei periodi di crisi economica.

Pertanto dobbiamo:
  • Per crescere economicamente abbiamo bisogno di aumentare il nostro consumo di energia. Al contrario, se il nostro consumo di energia diminuisce, il nostro PIL si contrae in egual maniera.
  • A causa della produzione di petrolio stagnante, ad un effetto di sincronizzazione con le altre fonti energetiche conosciuto come La Grande Scarsità e alla crescita di altre economie emergenti siamo condannati in modo inesorabile a ridurre il nostro consumo di energia e anche ad un ritmo piuttosto veloce (nel caso della Spagna, l'1,5% annuo come minimo).
Qual è, pertanto, la conclusione? Che la nostra economia è condannata a decrescere e a ritmo serrato. E' importante comprendere questo punto: è un fenomeno noto, compreso ed inevitabile. Di fatto, è un concetto gestito in ambito governativo, come abbiamo già commentato in numerosi post. Tuttavia, i poteri governativi non possono riconoscere apertamente questo fatto per via delle conseguenze politiche che comporta e per questo la tendenza è quella di provare a cercare soluzioni che non esistono al posto di ripensare il problema.

La domanda non è, pertanto, se continueremo a decrescere economicamente, ma fino a quando. La risposta è che decrescere economicamente, inteso come una diminuzione del PIL, è irrilevante. Abbiamo confuso il fine con i mezzi; il PIL è un'astrazione della ricchezza collettiva di un paese che si suppone essere in qualche modo connessa al benessere della sua gente. Ciò che si dovrebbe cercare è la massimizzazione del benessere, non un indice complesso e spesso assurdo. Pertanto, più rapidamente abbandoniamo l'orientamento economicista e ci focalizziamo su ciò che è veramente rilevante, prima cominceremo a stare meglio. La cosa peggiore che potremmo fare è quella di focalizzarci sul mantenimento di un sistema economico che sarà sempre più disfunzionale, a causa della mancanza di energia e di materie prime, per dare impulso ad un consumo sfrenato che ci immoli sull'altare della crescita economica, sognando una ripresa economica che non arriverà mai e che creerà un'occupazione che non esisterà mai. Non comprendere questo, ostinarsi a seguire questo sentiero, ci porta soltanto in un posto ben noto: il collasso.

Saluti


Antonio Turiel