lunedì 7 luglio 2014

La transizione energetica sostenibile: quanto costerà?

DaResource crisis”. Traduzione di MR


In un precedente post, ho usato il concetto di “strategia del seminatore” per proporre che il modo di risolvere il nostro dilemma dell'esaurimento e della distruzione climatica è quello di usare i combustibili fossili per sbarazzarci dei combustibili fossili. In altre parole, dobbiamo usare energia fossile – finché ce l'abbiamo – per sviluppare sostituti all'energia fossile. Ciò equivale alla vecchia strategia dei contadini di “tenere da parte le proprie sementi”. Ma quante sementi dobbiamo mettere da parte esattamente? In questo post, Sgouris Sgouridis fornisce una risposta. Risulta che per avere una transizione dolce e graduale all'energia rinnovabile prima che l'energia fossile diventi troppo costosa, dobbiamo intensificare gli investimenti in rinnovabili di un fattore 4-10 che dovrebbe essere raggiunto per mezzo di un aumento annuale dell'attuale investimento fra il 6% e il 9%. Alla fine, il tasso di investimento dovrebbe raggiungere delle quantità nell'ordine degli 1,5-2,5 trilioni di dollari per il 2045. E' un risultato stuzzicante, perché un 9% di aumento annuale è possibile: abbiamo fatto crescere le rinnovabili a tassi più rapidi fino ad ora. Ed anche una quantità totale di un paio di trilioni di dollari non è impossibile, considerando che l'attuale PIL mondiale è di circa 72 trilioni di dollari (in confronto anche agli 1,7 trilioni di dollari all'anno spesi per il sistema militare mondiale). Sfortunatamente, è del tutto possibile che l'azione della lobby dei combustibili fossili sarà capace di rallentare la crescita delle rinnovabili o persino di fermarla completamente. In questo caso, non saremo in grado di evitare un crollo significativo (e probabilmente disastroso) della quantità di energia disponibile in tutto il mondo, quando il declino inevitabile dell'energia fossile farà il suo corso. Ciononostante, ogni investimento in energia rinnovabile che possiamo fare ora, nel prossimo futuro aiuterà a rendere la transizione meno dura per tutti noi. 

Guidare la transizione energetica (parte 1): principi ed implicazioni

Di Sgouris Sgouridis (*)

Abstract: Seguendo la metafora del seminatore, vi presento una visione quantificata di quanta energia esattamente abbiamo bisogno di investire del nostro attuale paniere per essere in grado di navigare in sicurezza in una transizione energetica sostenibile. Ciò è nel contesto di una definizione formale di cinque principi per la transizione energetica. Attualmente investiamo circa lo 0,25% del nostro surplus di energia disponibile netta in capacità di generazione di energia rinnovabile (questo è il rapporto di investimento in energia rinnovabile - “epsilon”). Deve essere aumentato fino a circa il 3% (un ordine di grandezza) perché i nostri sistemi energetici siano in grado di fornire una società da 2000W pro capite su scala globale senza superare il bilancio del carbonio del IPCC (notate che la moderna vita occidentale consuma circa 8000W pro capite). Se permettiamo emissioni sfrenate, allora dobbiamo aumentare questo tasso ancora del 1,5%. 

L'energia è una condizione sine qua non per qualsiasi sistema auto-organizzato, eppure è rappresentata solo marginalmente in ciò che passa per essere una pianificazione a lungo termine delle nostre società. Siamo diventati dipendenti da carbonio fossile a buon mercato e energeticamente denso in modo critico, ma il suo prezzo e le esternalità climatiche sono andati aumentando mentre ci avviciniamo al picco di produzione. Ciò necessita una transizione a fonti energetiche rinnovabili. Questo post affronta i requisiti fisici e finanziari impliciti se questa Transizione Energetica Sostenibile (TES) deve avvenire come risultato di una trasformazione pianificata e senza soluzione di continuità, non forzata sulle nostre società. Più specificamente, nella prima parte presento cinque principi (i primi tre sono limitanti e gli ultimi due normativi) che possono essere usati come una guida per la transizione. Sulla base del quarto principio, dimostro la necessità di aumentare la quantità di investimento in risorse di energia rinnovabile globalmente di un ordine di grandezza per raggiungere una Transizione Energetica Sostenibile all'interno del bilancio del carbonio del IPCC. I dettagli degli assunti e la metodologia si possono trovare in Sgouridis & Csala 2014. Nella seconda parte, a partire dal quinto principio, presento un concetto di una valuta energetica che possa mobilitare risorse per raggiungere questo obbiettivo, allineando meglio il sistema monetario ai limiti della biosfera.

In genere è buono cominciare con una definizione per creare le basi comuni necessarie a comprendere e giudicare un'idea. In questo caso, definirò la TES come:

un processo controllato che porta ad una società tecnica ed avanzata per sostituire tutti i grandi input di energia primaria dei combustibili fossili con risorse rinnovabili sostenibili, mantenendo un livello di servizio energetico finale pro capite sufficiente. 

Come sono solite fare le definizioni, questa cerca di catturare molti concetti in modo sintetico. Ma le parole chiave sonocontrollata”, “tecnica”, “tutti” e “sufficiente”. Le idee espresse indicano che la transizione debba essere dolce e non associata a un drammatico sconvolgimento sociale (controllata). Dovrebbe permettere alla società perlomeno di mantenere le proprie capacità tecnologiche (tecnica) e a livello individuale di soddisfare una certa soglia di disponibilità di energia finale (sufficiente).

Sapendo che la transizione sarà completa quando praticamente tutti i combustibili fossili saranno sostituiti, possiamo tracciare l'evoluzione della transizione fino all'attuale situazione energetica. In questo esercizio, è istruttivo usare una prospettiva di metabolismo energetico concentrandoci sulla disponibilità netta di energia. In questo modo emerge un quadro trasparente e non ambiguo che toglie il velo che le economie hanno posto sulla pianificazione a lungo termine.

Perché questa transizione si di fatto “sostenibile”, dovremmo preoccuparci dei tre pilastri della sostenibilità (ambientale, sociale, economica). Estendendo le idee di Daly, proponiamo cinque principi che devono essere soddisfatti - de minimis – perché una TES abbia successo:

I. Che il tasso di emissioni inquinanti sia inferiore alla capacità di assimilazione dell'ecosistema.

II. Che la generazione di energia rinnovabile non superi la capacità di carico a lungo termine dell'ecosistema, né che lo comprometta irreparabilmente. 

III. Che la disponibilità energetica pro capite rimanga al di sopra del livello minimo richiesto per soddisfare i bisogni sociali in qualsiasi momento durante la TES e senza discontinuità distruttiva nel suo ritmo di cambiamento.  

IV. Che il tasso di investimento per l'installazione di generazione rinnovabile e il consumo di capitale sia sufficiente a creare una fornitura di energia rinnovabile a lungo termine  prima che le risorse non rinnovabili recuperabili in sicurezza siano esaurite. 

V. Che l'impegno per il consumo futuro (per esempio l'emissione di debito) venga accoppiato alla, e limitato dalla, futura disponibilità di energia.

Il primi due principi affrontano l'aspetto ambientale (né i fossili né le rinnovabili devono avere un impatto irreparabile sull'ambiente entro una generazione umana). Il terzo affronta l'aspetto sociale assicurando che (i) sia disponibile un livello minimo di energia e (ii) che il ritmo di cambiamento nella disponibilità di energia non sia troppo drastico da creare collassi dei sistemi di supporto sociali. Un corollario direttodi questo è che una società più equa affronta una TES più facile di una iniqua. Infine, gli ultimi due principi affrontano la sostenibilità economica (fisica e finanziaria). Il principio IV, una variante della regola di Hartwick in letteratura economica, garantisce che il tasso di investimento in energia rinnovabile sia sufficiente a compensare la riduzione della fornitura di combustibili fossili, mentre il principio V fa la connessione fra emissione di debito e disponibilità di energia per servire il debito in futuro (che è il tema della seconda parte).

Visti da una prospettiva normativa, i primi tre principi fungono da vincoli della funzione di transizione – il primo da un limite superiore nella quantità di energia fossile disponibile, il secondo mette un limite alla quantità di rinnovabili che possono essere istallate, il terzo fornisce un confine inferiore nella disponibilità di energia pro capite (e della sua prima derivata durante la transizione). Gli ultimi due però sono prescrittivi e perseguibili – offrono un approccio quantificabile per stimare il minimo di investimento energetico in energia rinnovabile e il debito massimo che può essere esteso per quel livello di investimento.

Concentrandosi sul lato fisico, possiamo essenzialmente creare un'equazione che colleghi il rapporto di investimento in energia rinnovabile (epsilon) alla disponibilità netta di energia per la società che può essere vista sotto (derivazione nel saggio e nel supplemento):


Questa equazione ricorsiva può essere risolta numericamente o analiticamente per stabilire la potenza netta disponibile secondo differenti ipotesi del valore di epsilon. Sotto fornisco, come punto di partenza della discussione, un confronto dell'evoluzione della disponibilità futura di energia secondo lo scenario che segue. Tipico delle transizioni energetiche (e per compensare i vincoli di discontinuità del principio III), ipotizziamo nel saggio che ci vogliano 30 anni per cambiare epsilon dal suo valore attuale di circa 0,25% (in realtà ipotizziamo lo 0,375% in questo modello) per “individuare” il valore e confrontare semplicemente la disponibilità di energia con la domanda di energia, assumendo che (a) la popolazione segua le previsioni a medio termine dell'ONU e si stabilizzi a 9 miliardi di persone per il 2050, (b) che la domanda pro capite di energia converga verso i 200oW e (c) che l'efficienza con cui convertiamo l'energia primaria in energia finale migliori del 25% (i dettagli sulle ipotesi che riguardano la popolazione sono descritti nel saggio di Sgouridis e Csala).


Friggere il pianeta
Energia disponibile senza nessuna limitazione di carbonio: ε = 0.375 %, minima ε = 1.5 %.
Sinistra: crollo per fonte. Destra: la linea rossa indica l'energia netta disponibile. La linea blu indica un minimo in cui dobbiamo trovarci 



Il 50% di possibilità di cuocere lentamente il pianeta
Energia disponibile con la limitazione massima di carbonio del IPCC: ε = 0.375 %, minima ε = 3.0 %.
Sinistra: crollo per fonte. Destra. La linea rossa indica l'energia netta disponibile. La linea blu  indica un minimo in cui dobbiamo trovarci

I risultati sono molto chiari: se permettiamo ai combustibili fossili di fare il loro corso friggendo il pianeta nel processo, dobbiamo comunque aumentare il nostro tasso di investimento in rinnovabili di quattro volte. Se decidiamo di salvare il clima e di aderire alle raccomandazioni del IPCC di non più di 3010 Gigatonnellate di CO2 antropogenico nell'atmosfera per il 2100 per avere il 50% di possibilità di rimanere al di sotto dei +2°C per la fine del secolo (che, apropos, é ancora l'equivalente morale di caricare un revolver con tre pallottole e giocare alla roulette russa coi nostri nipoti), ci serve un aumento di otto volte tanto il tasso di investimento in rinnovabili. Naturalmente, ci sono assunzioni chiave sensibili come l'EROEI delle rinnovabili (in questi scenari parte da 20 ed aumenta con le installazioni) – i lettori sono invitati a inserire i propri assunti nel nostro modello – tuttavia crediamo che le nostre scelte non siano ne prudenti né aggressive e intendiamo migliorare la risoluzione della simulazione disaggregando le tecnologie rinnovabili specifiche come abbiamo fatto coi combustibili fossili.



(*) Sgouris Sgouridis è professore associato all'Istituto Masdar di Scienza e Tecnologia (Emirati Arabi Uniti). I suoi interessi di ricerca sono concentrati nella comprensione delle transizioni all'energia sostenibile usando la modellazione di sistemi tecnico-sociali. Ha lavorato sul concetto di valuta energetica, su quello dell'adozione di veicoli elettrici, sull'aviazione sostenibile e sulle transizioni energetiche sostenibili locali e globali. Ha dato inizio allo sviluppo del Consorzio per la Ricerca della Bioenergia Sostenibile all'Istituto Masdar ed è stato un membro del comitato di revisione del Premio Energia Futura Zayed negli ultimi quattro anni. Ha un dottorato in Sistemi Ingegneristici (MIT-2007), un Master in Tecnologia e Politica e un Master in Trasporti (MIT-2005) ed una Laurea in Scienze (ad honorem) in Ingegneria Civile ed Ambientale (199-Università di Aristotle).  


domenica 6 luglio 2014

Clima, dollari e buon senso – prevenire il riscaldamento globale è l'opzione più economica.

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Le argomentazioni secondo le quali l'adattamento climatico sia più economico sono come la macedonia – limoni, banane e confrontare mele e arance. 



Prevenire il riscaldamento globale è l'opzione più economica. Foto: Christopher Furlong/Getty Images

L'IPCC ha appena pubblicato tutti e tre i rapporti inclusi nella sua Quinta Valutazione della scienza del clima. Il primo rapporto ha affrontato i cambiamenti fisici nel clima globale, il secondo ha affrontato gli impatti climatici e l'adattamento e il terzo ha riguardato la mitigazione del cambiamento climatico. Ironicamente, dopo che è stato pubblicato il secondo rapporto, molti mezzi di comunicazione hanno sostenuto che l'IPCC stava spostando la sua attenzione, apparentemente inconsapevoli che il suo rapporto sulla mitigazione era programmato per la pubblicazione solo poche settimane dopo. Altri mezzi di comunicazione hanno scorrettamente sostenuto che i rapporti del IPCC concludono che sia più economico adattarsi che evitare il cambiamento climatico. Questo errore scaturisce dal fatto che il secondo rapporto dice, circa i costi dei danni climatici,

“le stime incomplete delle perdite annuali globali per una temperatura aggiuntiva di ~2°C si collocano fra lo 0,2 e il 2% del reddito... E' molto più probabile che le perdite siano maggiori, piuttosto che minori di questa forbice... Le perdite accelerano con un maggior riscaldamento, ma sono state completate poche stime quantitative per un riscaldamento aggiuntivo di 3°C o oltre”.

Il terzo rapporto poi ha detto riguardo ai costi per evitare il riscaldamento globale,

“gli scenari di mitigazione che raggiungono concentrazioni atmosferiche di circa 450 ppm di CO2eq per il 2100 comportano perdite del consumo globale – non includendo i benefici del cambiamento climatico ridotto così come i benefici associati e gli effetti collaterali avversi della mitigazione... [che] corrispondono ad una riduzione annua di crescita del consumo da 0,04 a 0,14 (in media: 0,06) di punti percentuali sul secolo relativo alla crescita del consumo annua sul riferimento che si trova fra 1,6 e 3% all'anno”.

La sfida è che questi due numeri non sono direttamente confrontabili. Uno ha a che fare con le perdite economiche annuali globali, mentre l'altra è espressa come una crescita del consumo globale leggermente rallentata.

Riordinare i numeri con Chris Hope

Per riordinare questi numeri, ho parlato con l'economista climatico di Cambridge Chris Hope, che mi ha detto che se l'obbiettivo è immaginare la quantità economicamente ottimale di mitigazione del riscaldamento globale, l'IPCC riporta “non ci porterà lontano su questa strada”. Per fare questo confronto in modo appropriato, i benefici della riduzione dei danni del cambiamento climatico e i costi della riduzione delle emissioni di gas serra devono essere confrontati in termini di “valore attuale netto”. E' questo il tipo di stima che i Modelli di Valutazione Integrata come il PAGE di Hope erano stati approntati a fare. Secondo il modello di Hope, il picco economicamente ottimale di concentrazione di biossido di carbonio è intorno alle 500 ppm, con un picco globale di riscaldamento della superficie di circa 3°C al di sopra delle temperature preindustriali (circa 2°C più caldo di adesso).

Nel suo libro Il Casinò del Clima, l'economista di Yale William Nordhaus osserva di essere arrivato ad una conclusione simile nel suo modello di ricerca. Per limitare il riscaldamento globale a quel livello servirebbero grandi sforzi per ridurre le emissioni di gas serra, ma come ha osservato il rapporto del IPCC, ciò rallenterebbe soltanto il tasso di crescita economica globale da circa il 2,3% all'anno al 2,24% all'anno. Secondo questi modelli economici, questo tasso di crescita economica rallentato sarebbe più che compensato dai risparmi derivati dall'evitare i danni climatici al di sopra dei 3°C di riscaldamento. Anche se l'IPCC non ha fatto questo confronto, questi modelli economici risultano essere coerenti coi suoi rapporti. Come mostrato nella citazione sopra, il secondo rapporto è stato solo in grado di stimare i costi dei danni climatici per un riscaldamento globale di 2°C ed ha osservato che oltre quel punto i costi accelerano fino al punto in cui diventano molto difficili da stimare. Nordhaus ha osservato in modo analogo,

“In realtà, le stime delle funzioni di danno sono virtualmente inesistenti per aumenti di temperatore al di sopra dei 3°C”.

Insalata di frutta australiana e turca

L'autore ed analista Bjorn Lomborg del Copenhagen Consensus Center è stato la voce più importante nel dichiarare in modo non corretto che l'IPCC ha concluso che l'adattamento climatico sarebbe più economico della mitigazione. Per esempio, è stato intervistato sull'Australian di Rupert Murdoch ed è stato autore di un pezzo sul turco Today's Zaman. Entrambi i pezzi sono erronei per le stesse ragioni. Lomborg ha sostenuto,

“Se non facciamo niente, i danni causati dal cambiamento climatico costeranno meno del 2% del PIL del 2070 circa. Eppure il costo di fare qualcosa sarà probabilmente maggiore del 6% del PIL, secondo il rapporto del IPCC”. 

Ciò è paragonabile alle cifre delle perdite economiche globali annuali del secondo rapporto con le cifre del rallentamento della crescita del consumo globale nel terzo – mele e arance. Senza gli strumenti di modellazione usati da economisti come Hope e Nordhaus, queste cifre non possono essere messe in un confronto 'mela a mela' in modo appropriato. Ho discusso questo punto con Lomborg e lui era d'accordo,

“Sono d'accordo sul fatto che il modo giusto per guardare il problema climatico sia quello di operare modelli integrati e trovare dove i costi e i benefici sono uguali (così non investiamo in difetto sul clima ma neanche ci investiamo in eccesso)... Tuttavia, il Gruppo sul Clima del IPCC ha deciso attivamente nel 1998 di non fare il rapporto costi benefici del clima”.

Quindi Lomborg e Hope sono d'accordo sul fatto che l'IPCC non permette un semplice confronto fra i costi della prevenzione del riscaldamento globale  e l'adattamento. Lomborg ha usato le immagini discusse sopra per fare l'unico confronto, incoerente coi risultati provenienti dai modelli economici. Lomborg ha anche preso arbitrariamente il 2070 per fare il suo confronto economico fa i costi dell'adattamento e quelli della mitigazione. Perché il 2070? A quel punto, in uno scenario business-as-usual il pianeta non si sarà probabilmente scaldato di più di 2°C rispetto alle temperature attuali. Il problema con questo scelta arbitraria è che il mondo non finirà nel 2070, infatti, gran parte dei bambini di oggi saranno ancora vivi nel 2070. Se continuiamo su questa strada come di consueto, il riscaldamento globale continuerà ad accelerare dopo il 2070, oltre il punto in cui gli economisti non possono nemmeno stimare accuratamente i sui costi in aumento. Queste sono banane.



Cambiamenti della temperatura della superficie previsti dal AR5 del IPCC in uno scenario BAU (RCP8.5; rosso) e dallo scenario a basse emissioni (RCP2.6; blu).

Un altro problema in questa disputa è che come mostrato nella seconda citazione sopra, le stime del costo della riduzione delle emissioni di gas serra del IPCC “non includono i benefici della riduzione del cambiamento climatico così come i benefici aggiuntivi ed i diversi effetti collaterali della mitigazione”. Per esempio, l'aria e l'acqua più pulite e benefici alla salute associati che provengono dall'allontanarsi da fonti di energia ad alta intensità di carbonio e sporche risparmia dei soldi che l'IPCC non mette nel conto. Quindi i costi per evitare il riscaldamento globale è probabile che siano in realtà anche inferiori dello 0,06% stimato all'anno di rallentamento nel tasso al quale l'economia globale continua a crescere. Nel frattempo, l'IPCC ha osservato che i costi dei danni climatici per soli altri 2°C di riscaldamento “è più probabile che siano maggiori, piuttosto che minori”, delle sue stesse stime. E se non intraprendiamo passi importanti per ridurre le emissioni di gas serra, supereremo i 2°C di riscaldamento entrando in un territorio inesplorato di danno economico.

Evitare il riscaldamento globale è più economico di adattarvisi

La linea di fondo è che gli economisti non riescono nemmeno a stimare con precisione quanti danni climatici ci costerà se non riusciamo a intraprendere passi importanti per rallentare il riscaldamento globale. Dall'altra parte, intraprendere quei passi può avere un impatto trascurabile sulla crescita economica globale. Il rapporto del IPCC sostiene anche che più aspettiamo per ridurre le nostre emissioni, più diventerà costoso. Nel determinare che mitigare il riscaldamento globale è conveniente, l'IPCC ha usato gli scenari seguenti.

“Scenari in cui tutti i paesi del mondo cominciano la mitigazione immediatamente, c'è un unico prezzo globale del carbonio e tutte le tecnologie chiave sono disponibili, sono state usate come riferimento di costo-efficacia per stimare i costi macroeconomici della mitigazione”

E' importante capire che le nostre scelte non sono o di ridurre le emissioni di carbonio o di non fare niente. Le nostre opzioni sono o di ridurre le emissioni di carbonio o di continuare con le emissioni solite che causeranno un'accelerazione del cambiamento climatico e dei costi del danno oltre alla nostra possibilità di stimarli con precisioni. Da un punto di vista economico e da una prospettiva di gestione del rischio, questo dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Come lo espone l'economista Paul Krugman,

“La minaccia climatica è quindi risolta? Be', dovrebbe. La scienza è solida; la tecnologia c'è; l'economia sembra di gran lunga più favorevole di quanto ci si aspettasse. Tutto ciò che sta in mezzo al salvataggio del pianeta è una combinazione di ignoranza, pregiudizio e interessi personali. Cosa potrebbe andare storto?”

sabato 5 luglio 2014

IEA: la festa è finita

DaPost Carbon Institute”. Traduzione di MR 

Di Richard Heinberg 


Palloncini scoppiati via danielmohr/flickr. Licenza Creative Commons 2.0

L'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA) ha appena pubblicato un nuovo rapporto speciale chiamato “Panoramica sull'Investimento Energetico Mondiale” che dovrebbe far correre i responsabili politici verso le uscite urlando – se sono disposti a leggere fra le righe e vedere il rapporto nel contesto delle attuali tendenze finanziarie e geopolitiche. Ecco come l'agenzia di stampa UPI comincia il suo sommario:

Serviranno 48 trilioni di dollari di investimento fino al 2035 per compensare i bisogni crescenti di energia mondiale, ha detto giovedì la IEA da Parigi. Il Direttrice Esecutiva della IEA Maria van der Hoeven ha detto in una dichiarazione che l'affidabilità e la sostenibilità delle future forniture energetiche dipendono da un alto livello di investimento. “Ma questo non si materializzerà a meno che non ci siano quadri politici credibili in atto così come un accesso stabile a fonti finanziarie a longo termine”, ha detto. “Nessuna di queste condizioni dovrebbe essere data per scontata”.

Ecco una parte del contesto che manca nel rapporto della IEA: l'industria petrolifera sta di fatto tagliando gli investimenti a monte. Perché? I prezzi globali del petrolio – che nell'attuale forbice da 90 a 110 dollari al barile sono a livelli storicamente alti – sono ciononostante troppo bassi per giustificare di affrontare una geologia sempre più impegnativa. L'industria ha bisogno di un prezzo del petrolio di almeno 120 dollari al barile per finanziare l'esplorazione nell'Artico ed in alcuni giacimenti in acque ultra profonde. E non dimentichiamo: gli attuali tassi di interesse sono ultra bassi (grazie all'alleggerimento quantitativo - Quantitative Easing - della Federal Reserve), quindi smistare capitale di investimento dovrebbe essere più facile adesso di quanto è probabile che diventi mai in futuro. Se il QE finisce e i tassi di interesse aumentano, la capacità dell'industria e dei governi di aumentare drammaticamente l'investimento in produzione futura di energia svanirà.

Altri elementi dal rapporto che dovrebbero ugualmente essere in grado di indurre i responsabili politici a dare di matto:

La bolla dello scisto sta per scoppiare. Nel 2012, la previsione della IEA secondo la quale i tassi di estrazione petrolifera dalle formazioni di petrolio di scisto statunitensi (principalmente Bakken in Nord Dakota ed Eagle Ford in Texas) avrebbero continuato a crescere per molti anni, con l'America che avrebbe superato l'Arabia Saudita nel tasso di produzione petrolifera per il 2020, per poi diventare esportatrice netta di petrolio nel 2030. In questo nuovo rapporto, la IEA dice che la produzione di tight oil statunitense comincerà a declinare circa nel 2020. Si potrebbe quasi pensare che la gente della IEA abbia letto l'analisi del Post Carbon Intitute delle prospettive del tight oil e del gas di scisto!www.shalebubble.org Questa è una dose di realismo benvenuta, anche se la IEA sta probabilmente ancora sbagliando in senso ottimistico: la nostra lettura dei dati suggerisce che il declino comincerà prima e sarà probabilmente erto.

Aiutateci, OPEC – siete la nostra sola speranza! E' così che il Wall Street Journal inquadra la sua storia sul rapporto: “Un cane da guardia di punta dell'energia ha detto che il mondo avrà bisogno di più petrolio mediorientale nel prossimo decennio, in quanto l'attuale boom statunitense svanisce. Ma la IEA ha avvertito che i produttori del Golfo Persico potrebbero ancora non riuscire a colmare il divario, rischiando così prezzi del petrolio più alti”. Vediamo, come se la passa l'OPEC in questo periodo? Iraq, Siria e Libia sono in agitazione, l'Iran sta languendo sotto le sanzioni economiche statunitensi. Le riserve petrolifere dell'OPEC sono ancora ridicolmente esagerate. E mentre i sauditi hanno compensato i declini nei vecchi giacimenti petroliferi mettendone in produzione dei nuovi, hanno finito i nuovi giacimenti da sviluppare. Quindi sembra come se questo rischio di più alti prezzi del petrolio sia un rischio piuttosto forte.

Una previsione del prezzo “cosa mi preoccupa”? Nonostante tutte questi sviluppi terribili, la IEA non offre alcun cambiamento della sua previsione del prezzo del petrolio del 2013 (cioè, un graduale aumento dei prezzi mondiali del petrolio fino a 128 dollari al barile per il 2035). Il nuovo rapporto dice che l'industria petrolifera avrà bisogno di aumentare il suo investimento a monte sul periodo di previsione di 2 trilioni di dollari al di sopra della precedente previsione di investimento della IEA. Da dove dovrebbe prendere questi 2 trilioni di dollari l'industria petrolifera se non da prezzi significativamente più alti – più alti nel breve periodo, forse, rispetto alla previsione a lungo termine del prezzo della IEA di 128 dollari al barile – e che crescono ancora di più? La previsione del prezzo è ovviamente inaffidabile, ma non è una cosa nuova. La IEA ha pubblicato previsioni sul prezzo molto imprecise nel decennio scorso. Infatti, se l'enorme aumento dell'investimento energetico consigliato dalla IEA dovesse verificarsi, sia l'elettricità che il petrolio stanno per diventare significativamente meno accessibili. Per un'economia globale strettamente legata al comportamento dei consumatori e dei mercati, ed un'economia che si sta già contraendo, i vincoli energetici significano una cosa e solo una cosa: tempi duri.

E le rinnovabili? Le previsioni della IEA sono che solo il 15% dei 48 trilioni di dollari necessari andranno alle energie rinnovabili. Tutto il resto serve solo per tamponare il nostro attuale sistema energetico petrolio-carbone-gas di modo che non finisca nel burrone a causa della mancanza di combustibile. Ma quanto investimento servirebbe se si volesse seriamente affrontare il cambiamento climatico? Gran parte delle stime si occupano solo dell'elettricità (cioè, sorvolano il problema cardine del settore dei trasporti) e ignorano la questione del EROEI. Anche se semplifichiamo artificialmente il problema in questo modo, 7,2 trilioni di dollari spalmati su oltre venti anni, semplicemente non lo tagliano. Un ricercatore stima che gli investimenti dovranno salire a 1,5-2,5 trilioni di dollari all'anno. In effetti, la IEA ci sta dicendo che non abbiamo ciò che serve per sostenere il nostro attuale regime energetico ed è improbabile che investiremo a sufficienza per passare ad un altro.

Se si guardano le tendenze citate e si ignorano le esplicite e fuorvianti previsioni dei prezzi, il messaggio implicito della IEA è chiaro: la continua stabilità del prezzo del petrolio sembra problematica. E coi prezzi dei combustibili fossili alti e volatili, i governi troveranno probabilmente ancora più difficile dedicare un sempre più scarso capitale di investimento verso lo sviluppo di capacità di produzione di energia rinnovabile.

Quando leggete questo rapporto, mettetevi nei panni di un responsabile politico di alto livello. Non pensereste di andare in pensione in anticipo?

venerdì 4 luglio 2014

Il governo Renzi continua a sbagliare tutto: Le rinnovabili ci fanno risparmiare!

Da"Qualenergia.it". Il governo Renzi cerca di abbassare i costi dell'energia, ma se la prende con il bersaglio sbagliato: le rinnovabili ci fanno risparmiare!


Il mistero del risparmio generato dalle rinnovabili che non arriva in bolletta

Eolico e fotovoltaico sono sul banco degli imputati per il peso che hanno sugli oneri di sistema. Ma stanno anche facendo scendere consistentemente il prezzo dell'elettricità in Borsa. Questo calo però non si riflette in bolletta: la componente energia (PE) è superiore al PUN di circa 20 €/MWh. Abbiamo cercato di capire dove si perde questo risparmio, perché e chi ne beneficia.




Secondo un calcolo della società di consulenza eLeMeNS, per ogni punto percentuale aggiuntivo di eolico e fotovoltaico nel mix elettrico, dato che questi producono a costi marginali nulli, il prezzo dell'energia in Borsa si abbassa di 1 €/MWh.  Senza sole e vento nel 2013 avremmo avuto un PUN (prezzo unico nazionale) di 7,2 €/MWh più alto. Le rinnovabili, assieme ad altri fattori come il calo della domanda, come ben documentato da vari studi (qui l'ultimo, del CNR), stanno facendo calare il prezzo dell'elettricità sul mercato del giorno prima. Peccato che, nonostante il sostanzioso decremento del prezzo sul mercato spot sia in corso da tempo, le nostre bollette restino invariate. Dove si perde questo risparmio potenziale?

La colpa non è solo degli oneri di sistema, da tempo sul banco degli imputati, né degli altri costi necessari a mantenere il sistema elettrico. La componente A3, infatti, con la fine degli incentivi al FV ha praticamente arrestato la sua crescita e i costi di dispacciamento, nonostante siano cresciuti nell'ultimo trimestre, hanno subito un calo netto rispetto all'estate scorsa. E' proprio la componente energia, la PE, che non sta riflettendo il calo dei prezzi di Borsa.

Il grafico sotto (cortesia di Dario di Santo di Fire, che su queste pagine aveva già denunciato il fenomeno) spiega meglio di mille parole: la fascia gialla è la differenza tra PUN e PE e come si vede si allarga dal 2009 in poi. L'ultimo aggiornamento delle tariffe registra una PE in vigore dal 1° luglio a oltre 69 €/MWh, circa 22 euro in più rispetto al PUN medio dell'ultimo mese, sui 47 €/MWh. Dove finiscono quei circa 20 € a MWh che potremmo risparmiare, godendo così di uno dei benefici prodotti da eolico e fotovoltaico?


Una parte di questo scollamento può essere spiegata dal fatto che PUN e PE sono sostanzialmente diversi: a differenza del PUN, la PE è maggiorata delle perdite di rete, circa il 10%; incorpora il profilo di consumo del cliente domestico, concentrato nella fascia diurna quando i prezzi sono più alti, e, ancora, la PE contiene un meccanismo di recupero degli scostamenti del trimestre precedente, spalmati sui due trimestri successivi. Queste differenze, però, ovviamente, ci sono sempre state, mentre, come vediamo dal grafico, la forbice tra i due valori ha cominciato a manifestarsi in maniera così consistente solo negli ultimi anni e precisamente dal 2009 in poi. Dunque la domanda resta: dove finiscono quei soldi?

La risposta viene da un'altra differenza tra PUN e PE: il primo è una media dei prezzi sul mercato spot del giorno prima (MGP), la PE invece riflette il mix di acquisto dell'Acquirente Unico (AU), il “grossista pubblico” che compra l'energia per conto dei clienti del mercato tutelato. L'AU compra circa il 40% dell'energia sul mercato spot e il resto sul mercato a termine: e proprio qui sta il motivo della 'voragine' che ultimamente si è aperta tra PUN e PE.

Una spiegazione confermata anche dall'ultimo comunicato AEEGSI sull'aggiornamento tariffe in cui si legge che "il sensibile calo (-7,1%) della materia prima all’ingrosso – che rappresenta circa il 50% della bolletta - è stato in parte compensato dalle coperture assicurative contro il rischio di rialzo dei prezzi dei contratti di approvvigionamento dell’Acquirente Unico."

Come confermano a QualEnergia.it gli stessi rappresentanti dell'AU, infatti, negli ultimi tempi i contratti conclusi dall'Acquirente sui mercati a termine si stanno regolarmente rivelando 'lunghi'. Ciò vuol dire che comprando l'energia in grande anticipo questa viene a costare di più. Ad esempio, nel 2013 si è acquistata energia per il 2014 a 10 (per usare numeri a caso), mentre il valore del mercato spot nel 2014 è poi sceso a 7. “Nel 2009 (anno in cui è aumentato il divario, ndr) i contratti sembravano buoni, ma evidentemente si sono verificate dinamiche non previste”, ci spiegano dall'AU.

Ovviamente in tutto ciò c'è qualcuno che ci guadagna; cioè chi vende a termine, che intasca la differenza, mentre ci rimettono i consumatori

Danneggiati non sono solo gli utenti del mercato tutelato, riforniti dall'AU, ma anche quelli del mercato libero. Le offerte del mercato libero, infatti, si adagiano in genere sul benchmark dei prezzi fatti dall'AU, rimanendo solitamente più alte. 

Da dati dell'Autorità (riferiti al 2011) in media sul mercato libero i consumatori pagano l'energia il 12,8% più cara che nel regime di maggior tutela.

Insomma, come minimo c'è un'inefficienza del mercato a lungo termine e/o del modo in cui l'AU fa gli acquisti. “Il mercato a termine sta mostrando di non essere in grado di prevedere l'evoluzione del PUN. O a pensar male, fa finta di non essere in grado di prevederla tale evoluzione. Ma questo lo dovrebbe eventualmente chiarire l'Antitrust”, ci spiega una fonte interna all'AU che non vuole essere citata. Che sia il caso di chiedere al Garante per la Concorrenza? Dall'AGCM ufficialmente non si pronunciano, ma ammettono che c'è “un'inefficienza nei mercati a termine”, chiarendo che un'eventuale segnalazione dovrebbe arrivare dall'AU.

Possibile che un soggetto così importante come l'AU non riesca a farsi valere sui prezzi a termine? "Sì, anzi, proprio perché compra tanto è svantaggiato", ci spiega Dario Di Santo di Fire (come altri analisti sentiti). “Non è in una posizione di forza quando compra sul mercato a termine - continua Di Santo - perché dovendo comprare volumi molto grandi perde potere contrattuale: ha bisogno dell'energia di quasi tutti i fornitori”.

Le cose andrebbero meglio se l'AU facesse gli acquisti in maniera diversa? In effetti non è scritto da nessuna parte quanto debba comperare sul mercato spot e quanto su quello a termine. Comprare sui mercati a termine però, ci fanno notare dall'Acquirente, è una sorta di assicurazione che garantisce i consumatori da eventuali rialzi dei prezzi futuri. “Quando il PUN risalirà la forbice si invertirà e la componente PE sarà inferiore al PUN”, ci rispondono.

Come evolverà il PUN però è difficile da prevedere e l'eventualità che salga non è affatto più probabile rispetto a quella che scenda ancora. Da una parte abbiamo fattori che dovrebbero far proseguire il calo, cioè la penetrazione delle rinnovabili (in Italia comunque nettamente in frenata), la situazione di overcapacity (con la domanda che anche nel più ottimistico degli scenari di Terna non tornerà ai livelli di 5 anni fa prima di ulteriori 5 anni) e l'introduzione del capacity payment (che remunerando a parte gli impianti più costosi dovrebbe prevenire aumenti). Dall'altra c'è la grossa incognita del prezzo del gas che ha un notevole impatto sulla formazione dei prezzi.

Ma nel frattempo, finché abbiamo un PUN di oltre 20 euro più basso di quanto paghiamo la materia prima in bolletta (PE), come potremmo recuperare quel risparmio perduto? L'AU, ci spiegano, non potrebbe nemmeno vendere l'energia a termine per riacquistarla sul mercato spot a un prezzo minore, perché questo sarebbe un comportamento speculativo e “l'obiettivo dell'AU non è ottenere il minor prezzo possibile e dunque attirare clienti, ma garantire una fornitura efficiente a chi non è ancora passato al mercato libero”. Anche dal punto di vista del rischio, per minimizzarlo, si fa un così ampio ricorso ai mercati a termine, ci spiegano: l'AU deve essere molto più cautelativo rispetto agli operatori del mercato libero.

E qui sorge una domanda: abbiamo capito perché l'Acquirente ha un approccio prudente e non cerca il prezzo più basso possibile, ma perché nemmeno gli operatori del mercato libero, che potrebbero farlo, si assumono questi rischi e cercano di portare in bolletta i risparmi che si potrebbero ottenere dal prezzo di Borsa attuale? Sul mercato libero, come detto, l'energia si paga in media di più e le offerte sembrano quasi assumere come floor price il prezzo dell'AU. Fonti interne all'AU ci parlano di un atteggiamento “implicitamente collusivo” da parte degli operatori del mercato libero.

Insomma, la strategia dell'AU, basata in gran parte su acquisti a termine, attutisce gli effetti in bolletta delle dinamiche del mercato elettrico, nel bene e nel male. Nella situazione attuale di PUN basso questo fa sì che, per garantire i consumatori da possibili aumenti futuri, i risparmi dati dalla rinnovabili vengano intascati da altri soggetti, anziché andare a finire in bolletta.

Ci sarà un modo per evitare che questo accada pur continuando a garantire la tutela dei consumatori dal rischio? Quando si parla di caro-energia, anziché accanirsi sempre sul peso delle rinnovabili sulla componente A3, sarebbe il caso di affrontare anche questa questione.

giovedì 3 luglio 2014

Eolissea

di Marco Sclarandis





È ritornata la car-upola.

Un po’ auto e un po’ casupola.

Chiunque segua l’avventura della Eolo, la vetturetta ad aria, compressa però, ideata da un ingegnere francese ormai oltre un decennio fa, può legittimamente avere la sensazione di trovarsi a seguire se non un’odissea almeno una saga.

Di certo, l’idea fondamentale di muoversi spinti dalla semplice aria fresca, letteralmente parlando, anche se di purezza aleatoria, dipende dal luogo da cui viene pompata, è meritoria ed attraente allo stesso tempo.

Ma come in tutte le fiabe, c’è un orco in agguato, è se non è un orco, è una strega o una sfilza di trabocchetti, messi da qualche maligno che potresse essere pure defunto, ma non il suo operato, ancora perfettamente funzionante.

Non essendo pagato da nessuno, tanto meno dalla fabbrica italiana del mezzo in questione, non intendo fare pubblicità sia favorevole o contraria alla Eolo, che devo per forza nominare.Sarebbe ridicolo alludervi con labirinti di parole.

Ciò che mi preme di dire è che a causa di ineluttabili leggi termodinamiche, non c’è da aspettarsi da questa automobilina delle entusiasmanti prestazioni.Quando si accumula per compressione del gas e l’aria, notoriamente è una miscela di gas vari, una parte dell’energia adoperata nella compressione si trasforma in calore, che è praticamente impossibile da recuperare del tutto, e molto difficile da recuperare in gran parte.

Chi vuole per curiosità, diffidenza , pignoleria o sana sete di conoscenza, può trovare in rete tutte le spiegazioni fisico-matematiche che chiariscono in modo definitivo il perché di questo impossibile se non difficile recupero.Quindi, l’efficienza della Eolo, è necessariamente bassa, paragonabile alle vetture elettriche con accumulatori al piombo-acido, (vedi: http://www.aspoitalia.it/documenti/bardi/eolo.html) quelli che tutti conosciamo per averne uno sotto il cofano dell’automobile a gas detonanti, come i vapori di benzina e gasolio.Cioè “l’auto”                                

Detto ciò, tutto il resto viene di conseguenza come il conto in pizzeria dopo una lauta cena.

Che si chiami Eolo, Atmos, Brezza, Zefiro o Respiro, (ma non venga in mente a qualcuno di di chiamarla “Rantolo” anche se richiama i sette nani) qualsiasi mezzo che si muova in condizioni tipiche del traffico urbano, e sia mosso da aria accumulata e necessariamente compressa, ha e avrà delle prestazioni che sono una modesta imitazione di quelle a cui da oltre un secolo ci ha abituato l’auto mossa da un motore endotermico, “l’auto”, qualunque sia il combustibile adoperato.

Potrebbe allora essere la Eolo la garibaldina ribalda di una epocale rivoluzione dei trasporti urbani, suburbani, e planetari?

In teoria, ma avrebbe dei seri concorrenti.Che con tecnologie più complicate avrebbero però vantaggi decisamente superiori, e con tecnologia molto meno complicate vantaggi almeno equivalenti.     

Auto e scooter ibride ed elettriche, bici e pure tri-quadricicli e monopattini elettrici, oltre che a ordinari pedali.

Ma, ed è forse la considerazione più importante, è la mobilità individuale ma in massa che ha bisogno d’una rivoluzione.Tutta questa frenesia di muoversi per andare in luoghi dove non ci sarebbe nessuna necessità di recarsi è la strega cattiva della fiaba.Un conto è il viaggio, un altro lo spostamento che nella splendida parola francese si chiama “routine” ovvero “piccola strada”.Vorremmo sempre avere la cosidetta botte piena e la moglie ubriaca, o ancora meglio dal punto di vista femminile, il marito sobrio che non ricorra mai alle botte, e quindi avere un mezzo che vada bene sia per il Tour il “grande viaggio” che per la “routine” la quotidiana piccola trasferta.

Nell’inevitabile rivoluzione, già in atto e già evidente proprio in Italia, crescerà un serraglio di automezzi che porteranno le giungle cittadine ad assomigliare  a quelle delle epoche premotorizzate.                                 

E qualche pressaerociclo  vi scorrazzerà allegramente.

Ma i tre orchi inesorabili che sono i tre  principi della termodinamica non saranno incatenati, ma solo appena ammansiti e sempre in agguato.       

E nemmeno Eolo può soffiarli via.





mercoledì 2 luglio 2014

ANCORA SULL'IPOTETICA ESTINZIONE DELLA SPECIE UMANA.

di Jacopo Simonetta

          In un precedente post, ho proposto un modello semplificato per descrivere le retroazioni operanti all'interno del sistema socio-economico che possono condurre sia alla crescita esponenziale di economia e popolazione, sia alla loro de-crescita, parimenti esponenziale, a seconda del contesto ed a come evolvono i rapporti fra le diverse riserve ed i diversi flussi all'interno del macro-sistema.

Più recentemente, ho cercato di illustrare brevemente quali sono i meccanismi di estinzione delle specie e mi sono chiesto se fosse possibile, in un futuro nell'ordine dei secoli, che qualcosa del genere accada anche alla nostra specie.

Da alcuni commenti ricevuti sia su questo blog che su facebook, mi sono però reso conto di essere stato poco chiaro su almeno due punti importanti.

Il primo è semplice:  L’uomo si estinguerà sicuramente, come tutte le altre specie del pianeta.   La domanda che si pone non è quindi se accadrà, ma se potrebbe accadere in tempi relativamente brevi (secoli) e se quello che stiamo facendo oggi potrebbe provocare un tale evento.

Questo ci porta al  secondo punto sul quale non credo che si possano invece avere certezze, ma solo discutere un argomento che, indubbiamente, ha un suo torbido fascino.

Si tratta di un terreno molto complesso ed insidioso, dove quasi tutto quello che si può dire può anche essere contestato, ma su alcuni punti possiamo fare affidamento:

1 – L’umanità nel suo complesso ha superato la capacità di carico del pianeta probabilmente durante gli anni ’70 e da allora la situazione è molto peggiorata, anche se le stime quantitative dell'overshoot sono necessariamente imprecise.   A livello locale esistono tuttavia differenze enormi, con comunità che superano i loro limiti per un ordine di grandezza ed altre che, viceversa, sono ancora entro la capacità di carico del loro territorio o quasi.

2 – Quando una popolazione supera i propri limiti di sostenibilità, la capacità di carico si riduce in misura direttamente proporzionale (ma non lineare) all'entità ed alla durate del superamento.

3 – I vortici di estinzione (v. qui) possono essere  attivati da forti decrementi della popolazione ed aggravati dalla frammentazione dell’areale.

Dunque abbiamo una situazione complessa  perché, nel breve termine, quanto più rapidamente diminuisse il numero degli umani sulla Terra, tanto maggiori sarebbero le probabilità di ritrovare condizioni di parziale equilibrio e, dunque, una relativa stabilità demografica.   Un apparente paradosso, in quanto più presto e più rapidamente cominceremo a diminuire, tanto prima e ad un maggiore livello potrebbe ristabilizzarsi la popolazione.    In altre parole, quanto più aumenterà ancora la popolazione, o quanto più posticipato e lento sarà il declino, tanto maggiori saranno le probabilità di scendere a livelli tali da innescare i fatali vortici di cui al mio precedete post.

Contemporaneamente però, lo scatenarsi delle retroazioni illustrate nei precedenti post potrebbero anche accelerare il declino al punto di renderlo fatale.  Molto dipenderà quindi dai fattori che interagiranno con queste retroazioni.   Fra quelli attualmente in essere, penso che i 5 che risulteranno maggiormente cruciali per il destino della nostra specie siano i seguenti:

Demografia.   Come abbiamo visto, tanto più una popolazione supera i limiti di sostenibilità, tanto più aumenta il rischio di una sua estinzione in una fase successiva.   Tuttavia nell'uomo la situazione è resa particolarmente complessa dal fatto che non conta solo il mero dato delle bocche da sfamare, ma anche, ed in modo importante, il livello di consumo pro-capite e complessivo, il livello di dipendenza dalle protesi tecnologiche, la cultura e molti altri fattori ancora.

Clima.   I climatologi discutono quale sia il livello di concentrazione di CO2 in atmosfera capace di scatenare retroazioni dai risultati catastrofici e le stime oscillano perlopiù fra i 350 ed i 450 ppm.   Attualmente siamo a 400 ppm e molte di queste retroazioni sono già partite (scioglimento di ghiacciai artici ed antartici, riduzione dell’albedo alle alte latitudini, liberazione di metano dai fondali marini e dal permafrost, riduzione dell’attività fotosintetica in molte aree del pianeta, ecc.).  Non possiamo sapere quale sarà la situazione fra uno o due secoli, ma sappiamo per certo da essa dipenderà in gran parte il destino della Biosfera e, dunque, dei nostri discendenti.

Biodiversità.   La biosfera del futuro sarà formata dalle forme di vita che si saranno evolute a partire da quelle di oggi.   Se nessuno può sapere quali saranno le condizioni ambientali del futuro, possiamo invece essere certi che quante più forme di vita evitiamo di cancellare oggi, tanto maggiori saranno le probabilità di avere ecosistemi vitali in futuro.   Questo è fondamentale perché l’azione della biodiversità è proprio la forza che tende a stabilizzare la capacità di carico del pianeta, come di un qualsiasi territorio delimitato.   In pratica, è il paracadute in grado di frenare il decremento della popolazione umana.   Anche il clima del futuro dipenderà in modo cruciale dalla biodiversità.   Infatti, nonappena (in un modo o nell'altro)  le emissioni industriali saranno tornate a livelli trascurabili, l’ulteriore evoluzione dell’atmosfera tornerà a dipendere in gran parte dall'evoluzione degli ecosistemi il cui grado di efficienza e di resilienza dipende in gran parte dalla biodiversità.

Suoli ed acqua.   Le riserve di fertilità e la disponibilità di acqua sono altri due fattori chiave nel determinare la capacità di carico di una territorio nei confronti della nostra specie.   E si tratta di due fattori in rapido peggioramento in quasi tutto il globo.  

In sintesi, penso che probabilmente l’inizio della decrescita demografica seguirà di poco il picco globale dell’energia fossile.   Questo perché attualmente la nostra specie vive prevalentemente di questa (in particolare di petrolio greggio) ed è esclusivamente grazie alle fossili che ha potuto raggiungere gli attuali livelli demografici ed organizzativi.   Le energie rinnovabili, perlomeno con le tecnologie attuali, potranno fare molto per mitigare e rallentare questo declino, ma non credo che lo potranno evitare.   

Ma quando l’umanità dovrebbe cominciare a diminuire?   Non lontano dal 2030 pare una data abbastanza ragionevole sia in base al modello Word3, sia in base ad alcune proiezioni circa la disponibilità di energia (Turiel 2012), ma è bene chiarire che l’affidabilità di queste proiezioni è limitata in quanto i dati pubblicati circa le riserve sono intrinsecamente imprecisi e, sovente, volutamente falsati dalle imprese e/o dai governi.

Questo per quanto riguarda l’uomo (specie biologicaHomo sapiens L.), ma che dire dell’uomo moderno (specie culturale - Homo colossus Catton 1981)?    Anche in questo caso sappiamo alcune cose.   Ricordiamole:

1 – Da almeno 50.000 anni l’evoluzione dell’uomo è diventata prevalentemente culturale e solo molto marginalmente genetica.   Se oggi incontrassimo per strada un uomo di Cro-Magnon non ci colpirebbero la sua faccia od il suo portamento, bensì il suo abbigliamento ed il suo comportamento.   Dunque l’umanità attuale appartiene ad una specie (culturale) diversa da tutte quelle precedenti, il che giustifica, a mio avviso, il taxonHomo colossus” introdotto da Catton (vi sono complessi problemi di sinonimia con Homo oeconomicus  Mill 1844, ma qui non ci interessano).   Orbene,  già nel tardo paleolitico Homo sapiens aveva annientato tutte le altre specie biologiche congeneri,  diversificandosi però sul piano culturale con una spettacolare radiazione adattativa.   Nel corso degli ultimi 2 secoli circa, H. colossus ha di fatto annientato od assorbito tutte le altre specie culturali, restando di fatto l’unico taxon umano esistente.   Di solito, quando di una vasta gamma di taxa affini ne rimane solo uno, non è buon segno.

2 - Le società umane, come tutte le forme di vita e molte altre cose ancora, sono strutture dissipative dell’energia ed hanno un’incoercibile tendenza a strutturarsi o destrutturarsi in funzione dell’intensità del flusso di energia che le attraversa.    La società attuale globale è la struttura più complessa nell'universo conosciuto ed infatti è quella che dissipa la maggior quantità di energia in rapporto al proprio peso.   Un uomo medio attuale dissipa diecimila volte l’energia dissipata dal sole per unità di peso (E. Chaisson 2001).   Vale a dire che 1 kg di uomo dissipa quanto 10.000 kg di sole.   Ma se prendessimo alcune categorie (ad es. gli scienziati del CERN, i dirigenti delle grandi holdings, gli astronauti, ecc.) troveremmo che dissipano quantità di energia superiori per almeno un altro ordine di grandezza, semplicemente perché sono la parte maggiormente complessa della società globale.

3 – L’apporto di energia al sistema socio-economico ha già cominciato a degradare per qualità e, forse, anche per quantità (Turiel 2012).   E se non lo ha già fatto, lo farà presto.   E’ chiaro dunque, che, riducendosi l’apporto quali/quantitativo di energia, tali strutture dovranno necessariamente contrarsi e semplificarsi con inevitabili conseguenze sul piano culturale (ad es. chiusura del CERN, collasso della rete Internet, abbandono di musei, ecc.).

4 – Qualora risultasse invece possibile sostituire validamente i combustibili fossili e continuare ad incrementare l’input di energia, come alcuni sostengono, cadremmo invece in quella che Van Vallen ha definito “Effetto Regina Rossa” (da una frase che la Regina dice ad Alice in “Oltre lo specchio", di L. Carroll).  Vale a dire che un organismo evolvendosi modifica il proprio ambiente, cosicché si deve poi ulteriormente evolvere per adattarsi ai cambiamenti che ha indotto e così via, in modo tendenzialmente accelerato.  Finquando la specie riesce a tenere il ritmo, si evolve e permane; quando non riesce più a tenere il passo si estingue.   In riferimento alle specie biologiche questo succede piuttosto raramente in quanto la complessità degli ecosistemi e la limitatezza delle risorse disponibili frenano la retroazione.   Sta però accadendo probabilmente questo alla specie culturale H. colossus che, grazie all’energia fossile, ha potuto accelerare a dismisura la propria velocità evolutiva.   Ma così ha necessariamente provocato una parallela, non lineare, evoluzione dell’ecosistema.   Per un paio di secoli siamo stati più veloci noi e la prova ne è il passaggio da 1 a 140 miliardi di “abitanti 1800 equivalenti".
Se moltiplichiamo il numero di persone per i consumi medi pro-capite
 troviamo che l'umanità odierna ha impatti equivalenti a 140 miliardi dei nostri bisnonni.



















Ma da alcuni decenni la velocità evolutiva dell'ecosistema globale sta superando la nostra come indicato, ad esempio, dal riapparire di infezioni incurabili o dall'inutilità del dibattito politico in materia di clima.   Al momento sono piccoli segni, ma indicano che abbiamo cominciato a perdere terreno, malgrado finora non abbiamo avuto problemi seri di energia.

In sostanza, se avremo carenza di energia, i sistemi economici, culturali e politici di cui facciamo parte si dovranno contrarre e destrutturare di conserva. Se, viceversa, davvero trovassimo il modo di superare la crisi energetica incipiente, non potremmo evitare di accelerare ulteriormente il cambiamento dell’ecosistema globale, rilanciando il meccanismo perverso della “Regina Rossa”.

In conclusione, la mia del tutto personale opinione è che l’estinzione di Homo sapiens L. nel corso dei prossimi 2 - 3 secoli è estremamente improbabile, se non impossibile.   Viceversa, l’estinzione di H. colossus Catton è pressoché certa già entro la metà del secolo corrente.   Ma non sarà questo che fermerà l’evoluzione.   Al contrario, dopo un severo “collo di bottiglia”, c’è da aspettarsi la rapida evoluzione di un vasto numero di specie culturali adattate alle condizioni locali che saranno diversissime da zona a zona.

Una nuova radiazione adattativa è, normalmente, ciò che accade dopo una massiccia estinzione.  Certo, non vedremo mai più i prodigi tecnologici che oggi ci paiono banali semplicemente perché non saranno mai più disponibili le risorse che la nostra civiltà a dissipato.   Ma l’archeologia ci dimostra che società complesse e forme altissime di arte sono possibili anche con risorse relativamente modeste.



martedì 1 luglio 2014

Un petro-capital-tecno-consumista impenitente



Di Silvano Molfese


In un incontro pubblico ho affermato di ritrovarmi con quattro macchine fotografiche, di cui due sono a pellicola. Non dissi però che desidererei una digitale compatta con tele-zoom ottico più potente: aspetto nuovi sviluppi tecnologici ed economici (prezzo più basso). Sono consapevole che l’utilità ricavata da un’altra fotocamera non sarebbe poi granché, eppure la fissazione per questo nuovo acquisto rimane.

Come spiegare il comportamento degli individui nell’odierna società? Serge Latouche usa il termine di megamacchina tecno-economica; Luigi Sertorio parla di era tecnologica per definire l’interazione tra tecnologia ed economia .
Semplicità e sintesi sono i pregi di queste definizioni; tuttavia, secondo me, i predetti termini non mettono bene in evidenza gli elementi basilari che, fino a qualche anno fa, hanno reso vincente la complessa organizzazione della società petro-capital-tecno-consumista globale.

Nella definizione di società ho inserito il petrolio (l’ energia), il capitalismo (l’organizzazione produttiva), la tecnologia ed il consumismo. Uso la definizione petro-capital-tecno-consumista mettendo al primo posto il petrolio, dato che l’energia è la risorsa base per eccellenza. Gli altri termini della definizione si possono spostare a piacimento. Questo parolone è anche cacofonico: a mio avviso riflette le disarmonie della nostra società. 

Il petrolio è un concentrato di energia che si trasporta in modo abbastanza sicuro ed agevole rispetto al metano, per esempio; anche più semplice da usare nei motori, rispetto ai combustibili solidi. Un kg di petrolio ha un contenuto energetico corrispondente a ben più di quattro kg di legna da ardere, stagionata per un anno! E’ grazie al petrolio che possiamo sfrecciare per ore sulle autostrade, abbattere grossi alberi in pochi minuti con poca fatica ecc. .




Il petrolio, in questa definizione, và inteso anche come energia facile; negli USA, agli inizi del secolo scorso, la resa energetica (EROI acronimo di: Energy Return on Energy Invested) variava da cinquanta a cento: considerando un valore intermedio, significa che con un barile di petrolio se ne estraevano settantacinque e quindi, al netto, rimaneva l’energia di ben settantaquattro barili. (Bardi, 2011)

A livello mondiale le rese energetiche stanno scendendo verso valori sempre più vicini a dieci e, di questo passo, non potranno che continuare a scendere. Se poi consideriamo il petrolio di scisto l’EROI medio è inferiore a tre; in pratica l’energia netta ricavabile dallo scisto è a malapena di 1,8 barili contro i settantaquattro dell’ iniziale avventura petrolifera americana! (Zencey, 2013)
Con l’energia facile è stato possibile estrarre i più disparati minerali in maggiori quantità e più rapidamente. Rimangono i giacimenti minerari meno ricchi: l’estrazione mineraria sarà sempre più costosa anche per oggettive scarsità, come argomenta in questa nota Bardi: http://ugobardi.blogspot.it/2014/02/la-questione-minerale-come-energia-e.html.

Il Capitalismo è l’organizzazione economico-produttiva che si è andata perfezionando nel tempo, ricevendo un forte impulso dall’energia facile: il petrolio. Il capitalismo è molto apprezzato nel mondo intero perché capace di riprodurre velocemente uno stesso oggetto in milioni di esemplari identici. Nonostante ciò questo sistema produttivo è intrinsecamente debole: la caduta del saggio medio di profitto, individuata da Marx e da Engels, è sotto i nostri occhi. Gli effetti per la società sono disastrosi anche sotto il profilo sociale.

Questa organizzazione produttiva immagina ancora il mondo come illimitato: ai tempi di Adam Smith la Terra, in rapporto alla potenza fisica disponibile ed alla popolazione vivente, era vista come sconfinata. Oggi con oltre sette miliardi di persone e circa un miliardo di veicoli circolanti le ineludibili leggi della Natura e la finitezza della Terra, volenti o nolenti, frenano sempre più questo meccanismo di produzione.

La tecnologia è quella splendida cosa che ci consente di aprire il cancello del cortile con il telecomando rimanendo in auto; di volare intorno al mondo (petrolio permettendo) a velocità elevatissima; di parlare e vedersi con persone che si trovano all’altro capo del globo; di disporre delle tante e tanto sofisticate armi di distruzione di massa.Sono guai seri quando la strumentazione tecnica, per qualche motivo, smette di funzionare: se succede all’improvviso le reazioni possono essere le più disparate: panico, rabbia, disperazione, ecc. .

Il consumismo. E’ necessario comprare tanti oggetti: dalle bottiglie di plastica ai veicoli che, dopo un uso più o meno prolungato, devono essere tutti buttati via per essere sostituiti da altri pubblicizzati come migliori. Con la televisione il condizionamento pubblicitario inizia fin dalla più tenera età. Il consumismo ha profonde radici culturali che vengono alimentate da un martellante bombardamento pubblicitario: in tal modo si accrescono i bisogni superflui in modo massiccio e capillare tanto da arrivare alla soddisfazione spirituale e individuale nel consumo. (Assadourian, 2010. Se ai potenti condizionamenti culturali aggiungiamo anche l’evoluzione del nostro cervello, legata alla manualità, si capisce che siamo rimasti intrappolati nella gabbia di ferro del consumismo. (Jakson, 2008). Sicchè, appagati da tanti oggetti e narcotizzati dal consenso normativo (*), divoriamo il mondo come un barattolo di marmellata.


Ovviamente tutta questa goduria ha il rovescio della medaglia: stiamo distruggendo milioni di ettari di foreste vergini, ricopriamo gli oceani di plastica, i suoli di catrame e cemento, scarichiamo milioni di tonnellate di CO2 in atmosfera accelerando il cambiamento climatico e completiamo l’opera appestando acqua, aria e terreno con tante altre sostanze tossiche: in pratica la biosfera di tutto il pianeta Terra!

E’ necessario prendere atto dei limiti del nostro pianeta e della grave situazione ambientale e climatica in particolare. Solo se le persone prenderanno coscienza di tutto ciò, a cominciare dai paesi sovrasviluppati, sarà possibile cambiare il sistema economico e ridurre drasticamente i consumi superflui.

(*) Il consenso normativo.

“Il contadino sa che l'inquinamento uccide il proprio sostentamento. Il consumatore non sa cosa succede inquinando perché è inconsapevole, getta via cose che non conosce. Allora compare la necessità di un consenso normativo. Una certa cosa inquina non perché lo si sa, ma perché la normativa accettata lo dice. E come si accetta la normativa? Si interpella lo scienziato.
Lo scienziato A dice che il fumo, i mangimi, le radiazioni elettromagnetiche ecc. fanno male. Immediatamente compare lo scienziato B, il quale dice che la correlazione non è rigorosamente dimostrata. Il duetto avviene sempre, dovunque, ogni volta che si discute una norma. Cioè la conoscenza è sottratta all'uomo e ridotta a normativa accettabile.” (Sertorio, 2002)
Bibliografia


Assadourian E., 2010 – Ascesa e declino delle culture del consumo. State of the World 2010. Edizioni Ambiente, 47-74
Bardi U., 2011 – La Terra svuotata. Editori Riuniti, 195
Jackson T., 2008 – La sfida del vivere sostenibile. State of the World 2008. Edizioni Ambiente , 127-156
Sertorio L. , 2002 – Storia dell’abbondanza. Bollati Boringhieri, 154-155
Zencey E., 2013 – L’energia, la risorsa sovrana. State of the World 2013. Edizioni Ambiente 109-119

Valori energetici del grafico:
Per la legna ho considerato il valore dei tondelli interi aventi il 35% di acqua:  Correale Santacroce F. , 1998 – La produzione della legna da ardere per uso famigliare in certi casi conviene - Vita in Campagna,  2, 60-62. 
Manuale dell’agronomo, REDA, V edizione, 1980, pag. 2338  (per il carbone ho utilizzato il dato relativo all’ antracite)