lunedì 10 novembre 2014

Il collasso dei prezzi del petrolio e la sicurezza energetica in Europa

DaResource Crisis”. Traduzione di MR


Questa è la versione scritta del breve intervento che ho fatto all'audizione del Parlamento Europeo sulla sicurezza energetica a Brussels il 5 novembre 2014. Non è una trascrizione, ma una versione abbreviata che cerca di conservare la sostenza di ciò che ho detto. Nell'immagine potete vedere il pubblico e, sugli schermi televisivi, il sottoscritto che fa una foto. 

Di Ugo Bardi

Signore e signori, per prima cosa lasciatemi dire che è un piacere e un onore trovarmi oggi di fronte ad un pubblico così distinto. Sono qui come membro di facoltà dell'Università di Firenze e come membro del Club di Roma, ma vi dico subito che ciò che vi dirò sono mie opinioni, non necessariamente quelle del Club di Roma o della mia Università. 

Detto questo, abbiamo discusso finora della crisi del gas e della situazione ucraina, ma devo avvertirvi che ci sono altre crisi in atto – forse molto più preoccupanti – che hanno a che fare col petrolio greggio. Devo dirvi che i bassi prezzi del petrolio NON sono una cosa buona per le ragioni che cercherò di spiegarvi. In particolare, i bassi prezzi del petrolio rendono impossibile, per molti produttori di petrolio, produrre in modo profittevole e questo potrebbe creare problemi per l'economia mondiale, proprio com'è già successo nel 2008. 

Fatemi cominciare allora con una panoramica sulle tendenze a lungo termine dei prezzi del petrolio. Eccola, con dati dal sito della BP. 


Questi dati sono al netto dell'inflazione. Vedete forti oscillazioni, ma anche una tendenza evidente alla crescita. Andiamo nel particolare, vediamo gli ultimi trenta anni, più o meno: 


Questi dati non sono corretti per l'inflazione, ma la correzione non è grande in questo lasso di tempo. I prezzi stanno crescendo, ma si sono stabilizzati negli ultimi 4-5 anni intorno ai 100 dollari al barile. Notate la diminuzione durante l'ultimo mese circa. Ho creato questo grafico circa una settimana fa, oggi abbiamo prezzi ancora più bassi, ben al di sotto degli 80 dollari a barile. 

La domanda è: cosa genera queste tendenze? Ovviamente, ci sono fattori finanziari di tutti i tipi che tendono a creare le fluttuazioni. Ma, alla fine, ciò che determina i prezzi è l'interazione di domanda ed offerta. Se i prezzi sono troppo alti, le persone non possono permettersi di comprare. E' ciò che chiamiamo “distruzione della domanda”. Se i prezzi sono troppo bassi, allora è l'offerta che viene distrutta. Semplicemente, i produttori non possono vendere i loro prodotti in perdita, perlomeno non a lungo. Quindi c'è una gamma di prezzi possibili per il petrolio: troppo alti, i clienti non possono comprare; troppo bassi, le compagnie non possono vendere. Di fatto, se si guardano i prezzi storici, vedete che quando sono arrivati oltre qualcosa come 120 dollari al barile (di dollari attuali), il risultato è stato una successiva recessione e il collasso dell'economia. 

Alla fine dei conti, è il costo di produzione che crea il limite minimo del prezzo. Qui entriamo nel cuore problema. Come vedete dal grafico del prezzo sopra, fino a circa il 2000 non ci sono stati problemi per i produttori nel fare profitti vendendo petrolio a circa 20 dollari al barile. Poi qualcosa è cambiato ed ha causato l'aumento dei prezzi. Quel qualcosa ha un nome: esaurimento.  

L'esaurimento non significa che finiamo il petrolio. Assolutamente no. C'è ancora molto petrolio da estrarre nel mondo. Esaurimento significa che consumiamo gradualmente le nostre risorse e – come potete immaginare – tendiamo ad estrarre e produrre prima quelle meno costose. Così, mentre l'esaurimento procede gradualmente, ci rimangono da estrarre le risorse più costose. E, se estrarre costa di più, i prezzi di mercato del petrolio devono aumentare: come ho detto, nessuno vuole vendere in perdita. E qui abbiamo il problema. Sotto potete vedere un grafico che mostra i costi di produzione del petrolio in varie regioni del mondo. (Da un articolo di Hall e Murphy su The Oil Drum).


Naturalmente, questi dati devono essere presi con cautela. Ma ci sono altre stime simili, compreso un rapporto del 2012 di Goldman &Sachs, dove potete leggere che gli sviluppi più recenti hanno bisogno perlomeno di 120 dollari al barile per essere redditizi. Ecco un'immagine da quel rapporto: 


Capite quindi che, con i prezzi attuali, un buon 10% del petrolio attualmente prodotto viene venduto in perdita. Se i prezzi dovessero tornare a valori considerati “normali” solo 10 anni fa, cioè circa 40 dollari al barile, perderemmo la redditività di circa la metà della produzione mondiale. La produzione non collassa nel giro di un giorno: una buona percentuale del costo di produzione proviene dall'investimento iniziale in un giacimento di petrolio. Quindi una volta che il giacimento è stato sviluppato, continua a produrre anche se i profitti potrebbero non ripagare l'investimento. Ma, a lungo termine, nessuno vuole investire in imprese a così alto rischio di perdita. Alla fine la produzione deve scendere: ci sarà ancora petrolio che potrebbe essere, teoricamente, estratto, ma non saremo in grado di permetterci di estrarlo. Questa è l'essenza del concetto di esaurimento. 

L'obbiezione classica, a questo punto, riguarda la tecnologia. Si sente dire, “sì, ma la tecnologia abbasserà i costi di estrazione e tutto andrà di nuovo a posto”. Be', ho paura che ciò non sia semplice. Ci sono limiti a ciò che la tecnologia può fare. Lasciate che vi mostri una cosa: 


Quell'oggetto che vedete in cima all'immagine è un pezzo di scisto. E' il tipo di roccia dalla quale possono essere estratti il petrolio e il gas di scisto. Ma, come potete immaginare, non è facile. Non si può pompare petrolio dallo scisto; il petrolio è lì, ma è intrappolato nella roccia. Per estrarlo bisogna spezzare la roccia in piccoli pezzi, fratturarla (è da qui che proviene il termine fratturazione idraulica - “fracking”). E a destra vedete un esempio del tipo di attrezzatura necessaria. Potete essere certi che non è a buon mercato. E non è tutto: una volta che si comincia a fratturare, bisogna continuare a farlo. Il tasso di declino di un pozzo di fracking è molto rapido; parliamo di qualcosa come una perdita del 80% in tre anni. E anche questo è costoso. Notate, a proposito, che stiamo parlando del costo di produzione. Il prezzo di mercato è un'altra cosa ed è del tutto possibile che l'industria debba produrre in perdita se è stata troppo entusiasta nell'investire in queste nuove risorse. E' ciò che sta accadendo con il gas di scisto negli Stati Uniti. Troppo entusiasmo da parte degli investitori ha creato un problema di sovrapproduzione e prezzi troppo bassi per ripagare i costi di estrazione. 

Quindi, produrre questo tipo di risorse, il cosiddetto “nuovo petrolio” è un'impresa complessa e costosa. Sicuramente la tecnologia può aiutare a ridurre i costi, ma pensate a questo: in che misura, esattamente, può ridurre l'energia che serve per spezzare la roccia e ridurla in polvere? La prenderemo a martellate con uno smartphone? Condivideremo una sua foto su Facebook? La faremo passare attraverso una stampante 3D? Il problema è che per spezzare e frantumare un pezzo di pietra serve energia e questa energia deve provenire da qualche parte. 

Alla fine, il punto fondamentale è che esiste un equilibrio fra energia investita ed energia di ritorno. Serve energia per estrarre petrolio, possiamo dire che serve energia per produrre energia. Il rapporto fra le due energie è il “Ritorno Energetico Netto” di tutto il sistema, conosciuto anche come EROI o EROEI (energy return on energy invested). Naturalmente, vogliamo che questo ritorno sia il più alto possibile, ma quando si ha a che fare con risorse non rinnovabili, come il petrolio, il ritorno energetico netto declina nel tempo a causa dell'esaurimento. Lasciate che vi mostri qualche dato. 

Come vedete, il ritorno energetico netto del petrolio greggio (in alto a sinistra) è calato da circa 100 a circa 10 in circa 100 anni (il valore di 100 potrebbe essere in qualche misura sovrastimato, ma la tendenza rimane corretta). E con energie nette più basse, si ottiene sempre meno energia da un pozzo di petrolio, come potete vedere nell'immagine in basso a destra. La situazione è particolarmente grave per il cosiddetto “nuovo petrolio”, petrolio di scisto, biocombustibili, sabbie bituminose ed altri. E' prevedibile: questi tipi di petrolio (o comunque di combustibili liquidi) sono i più costosi e oggi vengono estratti perché stiamo finendo quelli più a buon mercato. Quindi non sorprende che i prezzi debbano aumentare se la produzione deve continuare ai livelli ai quali siamo abituati. Quando il mercato si rende conto che i prezzi sono troppo alti per essere accessibili, si verifica l'effetto opposto: i prezzi scendono per dire ai produttori di smettere di produrre una risorsa troppo costosa. 

Così, abbiamo un problema. E' un problema che si manifesta sotto forma di salti improvvisi del prezzo; su e giù, ma che ci sta portando gradualmente ad una situazione in cui non saremo in grado di produrre tanto petrolio quanto quello a cui siamo abituati. La stessa cosa vale per il gas e credo che l'attuale crisi in Europa, che oggi è vista principalmente come politica, alla fine abbia le sue origini nel graduale esaurimento delle risorse di gas. Abbiamo ancora molto gas da produrre, ma sta diventando una risorsa costosa. La stessa cosa vale per il carbone, anche se finora lì non vediamo grandi problemi – in quanto al carbone, i problemi provengono più dalle emissioni e dal cambiamento climatico e questo è un problema persino più importante dell'esaurimento. Il carbone potrebbe (forse) essere considerato abbondante (o, perlomeno, più abbondante delle altre risorse fossili) ma non è una soluzione a nessun problema.

Alla fine, abbiamo dei problemi che non possono essere “risolti” cercando di continuare a produrre risorse non rinnovabili, che a lungo termine diventeranno troppo costose. E' un problema fisico e non può essere risolto con metodi politici o finanziari. La sola possibilità è di passare a risorse che non soffrono di esaurimento. Cioè, a risorse rinnovabili

A questo punto, potremmo discutere di quale sia il ritorno energetico delle rinnovabili e confrontarlo con quello dei fossili. Questa è una cosa complessa ed è stata oggetto di molto lavoro. Ci sono molte incertezze nelle stime, ma penso che si possa dire che le “nuove rinnovabili”, che sono principalmente fotovoltaico ed eolico, hanno ritorni energetici per la produzione di energia elettrica che sono comparabili a quello della produzione dello stesso tipo di energia da parte di petrolio e gas. Forse le rinnovabili non raggiungono ancora il ritorno energetico dei fossili ma, mentre il ritorno energetico dei fossili continua a declinare, il ritorno energetico delle rinnovabili sta aumentando a causa delle economie di scale e dei miglioramenti tecnologici. Quindi, raggiungeremo un punti di incrocio ad un certo momento (forse lo abbiamo già raggiunto) e, anche in termini di prezzi di mercato, il costo dell'elettricità rinnovabile oggi è comparabile a quello dell'elettricità ottenuta dai combustibili fossili. 

Il problema è che la nostra società è stata costruita sulla disponibilità di combustibili fossili a buon mercato. Non possiamo semplicemente passare alle rinnovabili come fotovoltaico che, per esempio, non può produrre combustibili liquidi per il trasporto. Quindi ci serve una nuova infrastruttura per accogliere le nuove tecnologie e questa sarà terribilmente costosa da realizzare. Dobbiamo cercare di fare del nostro meglio, ma non possiamo aspettarci che la transizione energetica – la “energiewende” - sia indolore. D'altra parte, se non ci prepariamo a questa transizione, sarà peggio. 

Così, per tornare al tema di questa audizione, stavamo discutendo della sicurezza energetica dell'Europa. Vi ho fornito alcuni dati che mostrano che la sicurezza alla fine è legata all'offerta e che in questo momento stiamo avendo grossi problemi con la disponibilità di energia fossile. Il problema può soltanto aumentare in futuro a causa del graduale esaurimento delle risorse fossili. Quindi dobbiamo pensare in termini di forniture che non siano condizionate da questo problema. Di conseguenza, è vitale per la sicurezza energetica dell'Europa investire in energia rinnovabile. Non dobbiamo aspettarci miracoli dalle rinnovabili, ma saranno di enorme aiuto nei tempi difficili che abbiamo di fronte. 

Riassumiamo i punti che ho esposto


Grazie mille per la vostra attenzione . Se volete saperne di più, potete dare un'occhiata al mio sito web “Resource Crisis”. 

Ugo Bardi insegna all'Università di Firenze, Italia. E' un membro del Club di Roma e l'autore di “Extracted, come la ricerca della ricchezza minerale sta saccheggiando il pianeta” (Chelsea Green 2014)


sabato 8 novembre 2014

Cambiamento climatico: depressione per tutti.

DaSmithsoniamag.com”. Traduzione di MR


L'ansia per il cambiamento dell'ambiente non colpisce solo voi, i professionisti stanno lavorando per capirla

Di Marissa Fesseden

Potrebbe sembrare un lamento ridicolo, ma la scienziata ambientale Nicole Thornton ha vissuto un disagio causato dal cambiamento climatico in prima persona. Al The Sidney Morning Herald ha detto che nel periodo della conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite del 2009 a Copenhagen, avrebbe voluto soltanto cominciare a piangere quando discuteva di problemi ambientali. Si era sentita così personalmente impegnata nel risultato della conferenza che, quando è finita senza ottenere praticamente niente, “Mi ha distrutto... Il punto di svolta è stato in realtà vedere degli uomini adulti piangere. Si trattava di alti diplomatici di piccole isole che pregavano i paesi più grandi di agire perché le loro nazioni non annegassero con l'aumento dei mari”.

Tutta quell'esperienza è stata strana e frustrante, dice.

Ma se si considera il collegamento che abbiamo con nostro ambiente, gli studi mostrano l'importanza dello spazio verde e le fatiche delle persone che affrontano i disastri naturali, l'idea di essere afflitti dal cambiamento ambientale – che lo si chiami eco-ansia, depressione da clima, stanchezza da apocalisse o solastalgia — comincia a sembrare ben altro che stupida. Madeleine Thomas scrive a Grist:

Dalla depressione all'abuso di sostanze al suicidio e allo stress post traumatico, sempre più enti di ricerca nel campo relativamente nuovo della psicologia del riscaldamento globale suggeriscono che il cambiamento climatico richiederà un pedaggio piuttosto pesante sulla psiche umana mentre le tempeste diventano più distruttive e le siccità più prolungate. Per i vostri ambientalisti quotidiani, lo stress emotivo sofferto per una Terra che cambia rapidamente può dar vita ad alcune ansie molto consistenti.

(Specialmente quando la speranza migliore che il recente rapporto dell'IPCC ci può dare è che “dobbiamo agire immediatamente” - una prospettiva scoraggiante, visto che ci sono politici che rifiutano di riconoscere che il cambiamento climatico stia avvenendo). Gli esperti ora stanno riconoscendo queste esperienze e cominciano a creare delle strategie per affrontarle. “Vivere in un ambiente stabile e prevedibile è ovviamente un contributo importante alla salute mentale ed al benessere delle persone e questo è stato spesso sottostimato”, scrive Susie Burke, una psicologa australiana il cui lavoro mostra che la perdita di biodiversità ed altri effetti del cambiamento climatico assesta dei duri colpi alla felicità umana. L'Associazione Americana di Psicologia ha pubblicato un rapporto a giugno sugli impatti psicologici del cambiamento climatico. “Il benessere è più di una semplice assenza di ferite o malattie; ha a che fare con la prosperità e la resilienza umana”, dice il rapporto.

Lise Van Susteren, una psichiatra, ha dato alcuni suggerimenti su come prendersi cura di sé stessi quando si percepiscono come insopportabili i cambiamenti climatici. Questi comprendono consigli utili sempre – esercizio, passare tempo all'esterno, mangiare sano. I suoi suggerimenti contengono anche alcuni punti specifici per affrontare l'ansia da cambiamento climatico: riconoscere che le proprie paure sono realistiche, ma non mollare. E “state in contatto con i vostri compagni guerrieri del clima per ridere e giocare”. Forse anche semplicemente evitando il clima nella conversazione, in modo da continuare a ridere.


giovedì 6 novembre 2014

Il collasso del petrolio

DaResource Crisis”. Traduzione di MR



di Ugo Bardi - 5 novembre 2014

James Schlesinger una volta ha detto che gli esseri umani hanno solo due modalità di funzionamento: la compiacenza e il panico. Questo tipo di funzionamento bimodale sembra applicabile anche al mercato del petrolio, dove tutto viene giudicato sulla base di una semplice regola binaria: prezzi alti = male; prezzi bassi = bene. Quindi, con i prezzi del petrolio che stanno scendendo rapidamente negli ultimi giorni, l'atteggiamento generale sembra essere in prevalenza di giubilo. Tutte le preoccupazioni riguardo al picco del petrolio vengono messe sotto al tappeto e i possessori di SUV sembrano felici e in attesa della diminuzione dei prezzi della benzina che permetteranno loro di riempire i loro serbatoi a buon mercato.

Sfortunatamente, la percezione bimodale del mondo rende le persone cieche al fatto che niente accade isolatamente nel mondo. E' la legge fondamentale dei sistemi complessi: non si può fare una cosa sola. Se qualcosa cambia in un sistema complesso, è perché qualcos'altro l'ha fatta cambiare. E se qualcosa cambia, allora qualcos'altro dovrà cambiare. I sistemi complessi funzionano così. E i cambiamenti sono inevitabili e non sempre per il bene di chi li vive.

Ciò vale anche per il sistema di produzione del petrolio greggio, che non è un sistema isolato. Cambiare alcune delle caratteristiche si riverbera su tutto il mondo. Così, abbassare i prezzi del petrolio ha un effetto su altri parametri. Guardate questa figura (da un articolo di Hall e Murphy su The Oil Drum).


Naturalmente, questi dati devono essere presi con cautela – sono solo stime. Ma ce ne sono altre simili,  compreso un rapporto del 2012 di Goldman and Sachs dove si può leggere che gran parte dei recenti progetti di sviluppo di campi petroliferi hanno bisogno di almeno 120 dollari al barile per essere redditizi. Quindi, vedete dov'è il problema? I prezzi al di sotto degli 80 dollari al barile distruggono la redditività di circa il 10% del petrolio attualmente prodotto. Se i prezzi dovessero tornare ai valori considerati “normali” solo 10 anni fa, circa 40 dollari al barile, perderemmo la metà della produzione mondiale. Vi viene in mente “picco del petrolio”? Be', sì, questo è il meccanismo che genera il picco del petrolio: un irreversibile declino della produzione mondiale. Ma non è solo una questione di produzione di petrolio ridotta: se la domanda di petrolio collassa, tutto il mondo sprofonda in una profonda recessione, come è già accaduto nel 2009, quando i prezzi sono brevemente collassati a circa 40 dollari al barile.

Forse questa è solo una fluttuazione temporanea; forse le cose torneranno alla “normalità” in pochi mesi. Dopo tutto, il mercato ha fatto una specie di magia negli ultimi 4-5 anni, mantenendo i prezzi del petrolio abbastanza alti da generare profitti sufficientemente alti da rendere l'industria in grado di continuare a produrre ai livelli usuali (e persino ad aumentarli un po'). Ma, sul lungo termine, è un gioco che non si può vincere. L'esaurimento rende l'estrazione progressivamente più costosa e nemmeno il grande mercato può fare la magia di continuare a vendere una cosa che i clienti non possono permettersi di comprare. Il crash del petrolio ha bisogno di tempo per dispiegarsi, ma sta avvenendo. E sta avvenendo adesso.


Ugo Bardi insegna all'Università di Firenze, Italia. E' un membro del Club di Roma e l'autore di “Extracted, come la ricerca della ricchezza minerale sta saccheggiando il pianeta” (Chelsea Green 2014)

martedì 4 novembre 2014

Declino del petrolio: è il prezzo che fa la storia


Diceva James Schlesinger che la maggior parte delle persone hanno soltanto due modi operativi: compiacenza e panico. Qualcosa di simile sembra che avvenga con il petrolio, che viene visto in due sole modalità: prezzi alti, male; prezzi bassi, bene. E' impressionante come la visione del mondo come si legge sulla stampa sia così brutalmente semplificata, con un sacco di gente che sta già sogghignando a pensare che con l'abbassamento dei prezzi del petrolio potranno riempire il serbatoio delle loro SUV a prezzi più bassi. E non si rendono conto che in un sistema complesso, non si può mai cambiare soltanto una cosa (è una delle leggi fondamentali della biologia degli ecosistemi). Se qualcosa cambia, è perché qualcos'altro è cambiato. E se qualcosa è cambiato, molte altre cose cambieranno. L'abbassamento del prezzo del petrolio in corso è segno di grandi cambiamenti che vedremo nel prossimo futuro. Un futuro che non è detto affatto che sia buono, nemmeno per i proprietari di SUV. (U.B.)


DaResource Insights”, via “Resilience”. Traduzione di MR”.

Di Kurt Cobb




Grafico dei prezzi del petrolio di Energy Information Awareness (2004). Fonte: Governo degli Stati Uniti via Wikimedia Commons

Così spesso nelle guerre teologiche,
I contendenti, suppongo
Inveiscono in totale ignoranza
di ciò che gli altri intendono,
E cianciano di un Elefante
Che nessuno di loro ha visto!

I ciechi e l'Elefante di John Godfrey Saxe

Quando gli editori commerciali mondiali hanno inviato i loro giornalisti porta a porta per scoprire cosa c'è dietro al recente crollo del prezzo mondiale del petrolio, stavano facendo ciò che fanno quasi ogni giorno per ogni tipo di mercato: azioni, obbligazioni, valute, beni e beni immobili. Nel giornalismo finanziario è più spesso il prezzo che fa la storia, piuttosto che la storia che fa il prezzo. Se una storia riguarda qualcosa di molto sorprendente che quasi nessuno può sapere in anticipo – un vero scoop – diciamo, una conseguenza inaspettata in un importante caso giudiziario che colpisce il brevetto più redditizio di una società, allora la storia sposterà il prezzo dell'azione della società. Ma molto più spesso i prezzi cambiano e gli editori commerciali inviano i loro giornalisti per scoprire il perché. Di solito, a diversi professionisti finanziari ed industriali viene chiesto: perché pensate che i prezzi siano scesi/saliti? Quindi la storia viene scritta e pubblicata. Tuttavia, quotidianamente, a meno che non ci sia una storia grande ed ovvia come quella sopra, le sole vere risposte sono queste: 


  • C'erano più compratori che venditori (SALE)
  • C'erano più venditori che compratori (SCENDE)

Le risposte, naturalmente, non sono niente di nuovo. Sono più che altro assiomi. Le risposte al recente svenimento del prezzo del petrolio comprendono: 


  1. Il petrolio è venduto in dollari e il dollaro è aumentato, cosa che spinge al ribasso il prezzo del petrolio. 
  2. La domanda sta diminuendo in Asia ed Europa, cosa che lascia un eccesso di petrolio sul mercato e diminuendone il prezzo. 
  3. La crescita della produzione degli Stati Uniti si aggiunge all'offerta mondiale di petrolio abbassandone il prezzo. 
  4. La produzione della Libia è rimbalzata fortemente a seguito del recente periodo di disordini del paese. 
  5. L'Arabia Saudita, il solo produttore OPEC con una significativa capacità di produzione aggiuntiva, sta pompando più petrolio per punire gli altri membri del OPEC con un prezzo basso, una mossa studiata per ripristinare la disciplina fra i membri di modo che rispettino le quote di produzione future.
  6. L'Arabia Saudita sta pompando più petrolio per abbassare il prezzo per aiutare gli Stati Uniti nei loro obbiettivi diplomatici, fare pressione sulla Russia, il più grande produttore di petrolio al mondo. 
  7. L'Arabia Saudita non sta cercando di aiutare gli Stati Uniti; il regno sta in realtà cercando di dar fastidio agli Stati Uniti e ripristinare il dominio sull'esportazione nel mercato del petrolio schiacciando il boom del petrolio di scisto statunitense che richiede prezzi del petrolio alti per essere redditizio. 
  8. No, l'Arabia Saudita, sta in realtà cercando di aiutare gli Stati Uniti nella sua lotta contro l'ISIS mostrando il suo sostegno a Stati Uniti ed Europa abbassando i prezzi del petrolio e rendendo più basso il prezzo che riceve l'ISIS dai prodotti petroliferi che ora controlla. Il prezzo più basso è più duro anche per l'Iran che necessita di prezzi alti per sostenere i propri introiti governativi. 
  9. L'Arabia Saudita sta semplicemente cercando di difendere la propria quota di mercato di fronte ad una domanda in declino continuando a pompare petrolio ai livelli attuali ed offrendo sconti ai clienti. 


Naturalmente, le risposte qui sopra non necessariamente si escludono a vicenda. Le persone ed i paesi possono avere obbiettivi molteplici aiutati dalla stessa azione. Ed alcune o tutte le valutazioni sopra potrebbero essere sbagliate o di scarsissimo valore esplicativo. Ora le soppeserò. Sembra del tutto probabile che i sauditi stiano facendo gli opportunisti. Come molti esportatori di petrolio, hanno bisogno di grandi introiti dall'esportazione di petrolio per pagare le proprie spese governative, gran parte delle quali consistono in sussidi per gli alimenti e il combustibile e programmi di assistenza sociale pensati per mantenere il popolo docile. Di fronte a ciò che sembra un declino della domanda, piuttosto che tagliare la produzione per mantenere i prezzi come hanno fatto in passato, hanno deciso di mantenere la loro quota di mercato mondiale tagliando i prezzi. Ciò ha il beneficio di rendere gran parte del petrolio di scisto americano antieconomico, scoraggiando così nuove trivellazioni. I sauditi sanno una cosa molto importante sui trivellatori di scisto degli Stati Uniti. Gran parte di loro sono società indipendenti cariche di debiti e che non hanno i mezzi finanziari per superare un periodo di prezzi mantenuti al di sotto dei loro costi di produzione. Ridurranno rapidamente le loro trivellazioni alle sole prospezioni che sembra possano essere redditizie con questi nuovi prezzi bassi. Spianeranno la strada a prezzi mondiali sostenuti più alti più tardi, quando la crescita della produzione petrolifera statunitense giungerà ad uno stop. Dopo che il danno è fatto, i sauditi cercheranno di riportare il prezzo del petrolio su. 


E' sempre possibile che la strategia saudita non riuscirà perché ciò che sta realmente accadendo potrebbero essere le prime fasi di un colossale collasso economico e finanziario che porterà l'economia in una recessione prolungata. Ciò porterebbe il prezzo del petrolio giù a livelli mai in un decennio e potrebbe restarci per un periodo considerevole. Non sto predicendo questo. E, di fatto, niente di ciò che ho scritto potrebbe avere validità. Anche se i sauditi hanno dichiarato pubblicamente che stanno difendendo la loro quota di mercato, potrebbero non dirci esattamente quali siano i loro obbiettivi. L'acquiescenza saudita rispetto ai prezzi del petrolio bassi potrebbe semplicemente avere conseguenze che i sauditi non vogliono, ma che non possono evitare. In realtà, tutto il problema dei prezzi del petrolio è troppo complesso e manca troppo di trasparenza per essere discusso intelligentemente quando si tratta di movimenti dei prezzi a breve termine. Mi sono ricordato della storia dei ciechi e dell'elefante, la cui ultima strofa di una versione poetica è citata sopra. Ma, come dicevo, è il prezzo fa la storia. 

lunedì 3 novembre 2014

La guerra dei gasdotti (ovvero: Renziologia applicata)




Riproduco qui di seguito parte di un interessante post di Aldo Giannuli che racconta della "guerra del gas" in corso e di come questa influenzi le decisioni  del governo italiano. Leggendo questo e altri commenti, non finisco mai di stupirmi di quanto il discorso del gas/petrolio sia così platealmente assente dal dibattito politico a tutti i livelli e di come, invece, sia fondamentale nella pratica. Insomma, siamo alla "Renziologia" come una volta si parlava di "Kremnlinologia". Ovvero, a frizionarsi vigorosamente i neuroni per cercare di capire cosa vogliono veramente dirci i nostri governanti nei loro vacui discorsi. Evidentemente, deve essere l'essenza della democrazia.


Renzi fra Gentiloni e la Camusso.

di Aldo Giannuli
Nel giro di una settimana il governo Renzi ha dovuto affrontare tre grane: la manifestazione della Cgil, il pestaggio degli operai di Terni ed il cambio della guardia alla Farnesina. Iniziamo dall’ultima cosa: che significato ha la nomina di Gentiloni? Per capire sino in fondo ci mancano dei passaggi: a quanto pare (ma vatti a fidare delle indiscrezioni giornalistiche!) Gentiloni non faceva parte della prima rosa di nomi offerta al Quirinale e che era composta da sole donne, di cui una sola di qualche autorevolezza internazionale (la Dassù). Non sappiamo per quali motivi Napolitano abbia respinto queste candidature, forse ritenendole troppo “leggere”, in una fase politica di crisi montante come questa presente. Se ne dedurrebbe che il nome di Gentiloni sia stato imposto dal Colle o che sia stato una sorta di compromesso fra i due presidenti. Ma non c’è ragione di pensare che Renzi possa proporre Gentiloni come candidato di “seconda scelta”: viene dalla Margherita, come gran parte dello staff renziano ed è dall’inizio nella cordata del fiorentino, inoltre ci sono ragioni specifiche per pensare che sia l’uomo più adatto ai bisogni di Renzi in questo momento. 

Dunque, non era nella rosa iniziale, solo in omaggio al principio della “parità di genere” nel governo? Renzi è abbastanza fatuo per andare dietro a queste fesserie, ma la cosa non convince del tutto. Di sicuro, se l’esigenza di Napolitano era quella di un nome di maggior peso, Gentiloni risponde a questa esigenza e gli orientamenti del nuovo ministro degli esteri non gli dispiacciono. Ma allora come mai non ci si è pensato subito? Ecco qui c’è un passaggio che ci manca. In compenso la logica politica dell’operazione è abbastanza trasparente e proviamo a spiegarla.

Dopo una breve scapigliatura giovanile, che lo portò a militare nel Movimento Studentesco e nel Pdup per il Comunismo, ed una più matura collaborazione con il Manifesto (dove era ritenuto esperto di mondo cattolico), Gentiloni è andato a sciacquare i suoi panni nel Potomac, diventando uomo assai sensibile alle ragioni a stelle e strisce. Ed ancor più sensibile è diventato, con il tempo alle ragioni di Israele: è interessante constatare come proprio alla vigilia della sua nomina, Gentiloni abbia avuto un caloroso incontro con i maggiori rappresentanti della comunità ebraica italiana.

Prima che saltino su i soliti dietrologi che vedono Israele dietro ogni complotto o i più fanatici sostenitori di Israele ad accusarmi di antisemitismo per aver insinuato chissà cosa, preciso: niente oscuri complotti, ma uno scenario politico che è sotto gli occhi di tutti e che ha una sua logica interna. Non è un mistero che da almeno 5 anni (epoca del “discorso del Cairo” di Obama), Washington e Telaviv vanno in direzioni via via divaricanti e l’intesa non è più quella di un tempo. Israele avrebbe voluto l’intervento in Iran che non c’è stato, Israele non ha visto affatto di buon occhio la primavera araba che gli Usa hanno, in parte, incoraggiato, Washington si è mostrata meno allineata del passato ad Israele sulla questione palestinese. Ma soprattutto, in tempi recenti, è la questione energetica a dividere i due vecchi sodali: gli Usa hanno l’obiettivo strategico di indebolire la Russia ed, in particolare, la sua influenza sull’Europa, determinata dal peso delle sue forniture di gas. A questo scopo, gli Usa hanno cercato in tutti i modi di impedire la nascita del gasdotto Southstream, prima con il progetto concorrenziale di Nabucco, dopo spingendo per l’inserimento del Quatar nella rete metanifera europea. Entrambe le questioni vedono al centro il nostro paese: Southstream avrebbe dovuto essere costruito dall’Eni (ora non sappiamo che fine farà il progetto), mentre la via più semplice per agganciare il Quatar alla rete europea è agganciarlo al gasdotto italo-libico-algerino; cosa tentata nel 2005 e bloccata dal governo Berlusconi, per evidenti preferenze moscovite. Cosa che i quatarioti si legarono al dito, rendendo all’Italia pan per focaccia in occasione della crisi libica. Va da sé che Israele veda il piano di inserimento del Quatar come il fumo negli occhi; ed è ovvio, dato che il Quatar finanzia i Fratelli Musulmani e accentuare la dipendenza dell’Europa dalle forniture di un paese arabo è in palese contrasto con i suoi interessi strategici. Per questo si è determinata una oggettiva convergenza fra Mosca e Telaviv.

La cosa era tornata per un attimo alla ribalta (all’inizio della crisi ucraina) in occasione del viaggio di Letta in Quatar per trattare sul loro ingresso in Alitalia. Poi la tempestiva crisi del governo Letta bloccò sul nascere la ripresa del disegno.

Dopo, con il governo Renzi (sul quale si sa avere molta influenza l’economista Yoram Gutgeld, già ufficiale superiore dell’esercito israeliano), sono venute le nomine Eni con la promozione di De Scalzi al posto che fu di Scaroni e, con essa, la conferma piena degli orientamenti filorussi dell’ente petrolifero di Stato. Insomma nel governo Renzi si è riprodotta in sedicesimo quella convergenza russo-israeliana di cui dicevamo. E gli americani non hanno affatto gradito, riservando al giullare fiorentino più di uno sgarbo. Poi, puntuale come Big Ben è arrivato lo scandalo Nigeria, che ha colpito De Scalzi, oltre che Scaroni. Renzi in un primo momento ha difeso a spada tratta De Scalzi, ma si è molto raffreddato quando questi, per salvarsi, ha buttato a mare Scaroni (“decideva tutto lui”). Ed il gelo è sceso in occasione della visita di Italia di Li Kequiang, quando, alla cerimonia della firma dei contratti d’affari conclusi, tutti hanno notato la clamorosa assenza di De Scalzi, unico a mancare fra i big delle imprese di Stato.

Insomma, mi pare che tutto confermi che sia in atto una nuova puntata della guerra segreta dei gasdotti e che essa passi per il governo italiano.

Di qui la necessità di un ministro degli esteri molto ben accreditato sia presso Washington che presso Telaviv per trovare una mediazione in un conflitto che potenzialmente può travolgere il governo.

E meglio ancora se questo mediatore disponga di buone entrature in Vaticano e sia amico di un personaggio come Stefano Silvestri (altro ex estremista passato al campo a stelle e strisce) che può contare a sua volta su amici a Mosca ed a Washington. Come mai un nome così perfetto non è stato la prima scelta? Forse perché occorreva coprirlo con altre candidature di parata, per non bruciarlo nel partito, dove c’erano altri candidati pure renziani? O per distrarre l’attenzione dal vero senso dell’operazione? Chissà, dovremmo avere più informazioni.



Aldo Giannuli

domenica 2 novembre 2014

Bruciare le foreste in nome della sostenibilità. Ideona!


Dagrist.org”. Traduzione di MR (h/t Nate Hagens)

Di Ben Adler

Se si guida attraverso il Sud e si vede un campo spogliato pieno di nuove piantagioni tozze dove un tempo c'era la foresta lussureggiante, la colpa potrebbe essere di un colpevole improbabile: l'Unione Europea e le sue ben intenzionate regole per l'energia pulita. Nel marzo 2007, l'UE ha adottato obbiettivi climatici ed energetici dal 2010 al 2020. I 27 paesi membri hanno stabilito un obbiettivo di riduzione delle emissioni di carbonio del 20% per il 2020 e di aumento delle rinnovabili fino al 20% del proprio portafoglio energetico. Sfortunatamente, hanno sottostimato l'intensità di carbonio dell'uso della legna (leggi, “biomassa”) per fare elettricità ed hanno categorizzato la legna come combustibile rinnovabile.

Il risultato: i paesi della UE con settori rinnovabili più ridotti si sono rivolti alla legna per sostituire il carbone. I Governi hanno fornito incentivi per gli impianti energetici allo scopo di fare questo passaggio. Ora, con un pugno di nuove centrali europee a legna che sono entrate in funzione, gli europei hanno bisogno di legna per alimentare la bestia. Ma in gran parte dei paesi europei non sono rimaste molte foreste da tagliare a disposizione. Quindi importano le nostre foreste, specialmente dal Sud. Naturalmente, la legna è in un certo senso rinnovabile: gli alberi possono essere ripiantati. Ma in altri sensi è più simile ai combustibili fossili che non al solare e all'eolico. Dopotutto, tutta questa ossessione per le rinnovabili non è solo a causa dell'esaurimento dei combustibili fossili. E' perché bruciare combustibili fossili produce CO2 che causa il riscaldamento globale. La stessa cosa vale bruciando legna, a differenza dell'eolico e del solare.

La legna rappresenta una maggioranza di generazione di energia rinnovabile in Polonia e in Finlandia e quasi il 40% in Germania. E' particolarmente attraente per le utility energetiche britanniche, perché il governo britannico offre sussidi generosi per l'energia rinnovabile e la sua industria solare non è nemmeno lontanamente progredita quanto quella della Germania. Drax, una grande utility britannica, ha annunciato lo scorso anno che convertirà tre centrali a carbone a legna. Questa transizione porterà l'azienda a 550 milioni di sterline britanniche all'anno (912 milioni di dollari) di sussidi governativi per le rinnovabili. The Economist chiama questa politica “demenza ambientale”, osservando seccamente: “Dopo anni in cui i governi europei hanno vantato la loro rivoluzione ad alta tecnologia e a basso tenore di carbonio, il principale beneficiario sembra essere il combustibile preferito delle società preindustriali”.

La logica iniziale della UE non era completamente folle – è solo risultata essere del tutto sbagliata. Citando ricerche che suggerivano che gli alberi giovani consumano più CO2 di quelli vecchi, i decisori politici hanno immaginato che bruciare un albero per l'energia poteva essere neutro dal punto di vista del carbonio, se si fosse piantato un albero sostitutivo. Studi più recenti, tuttavia, hanno mostrato che questo era troppo ottimistico. Non tutti gli alberi giovani consumano più CO2 di quelli vecchi – dipende dalla specie e da varie altre condizioni. Il processo di triturazione degli alberi per farne pellet di legna, di spedirlo oltre Atlantico e l'energia coinvolta nel bruciarlo tutto, si aggiungono all'intensità di carbonio totale. “Bruciando pochissimi combustibili di legna mostra un qualche beneficio rispetto al carbone”, dice Scot Quaranda, un portavoce della Dogwood Alliance, un gruppo anti-deforestazione di Asheville, in Carolina del Nord. “In gran parte dei casi è in realtà peggio del carbone o del gas naturale”.

Dogwood ha lanciato una campagna per fare pressione sulle utility americane e britanniche per fermare la combustione di alberi per produrre elettricità (dice che la segatura che rimane nelle segherie è relativamente innocua). Ci sono alcune variabili cruciali da considerare quando si valutano gli impatti climatici della combustione di legna. Una è: cosa sarebbe successo alla legna se non fosse stata bruciata? Molte operazioni di taglio e segherie bruciano mucchi di ramaglie, scarti e segatura, creando più gas serra di quella che potrebbe generare una centrale bruciando pellet fatto con gli stessi “residui”, secondo un rapporto pubblicato lo scorso mese dal Dipartimento Britannico dell'Energia e del Cambiamento Climatico. Ma da una prospettiva climatica, sarebbe meglio lasciare che quei residui si decompongano nella foresta, dice il rapporto. Dipende anche da quanta energia termica è richiesta per seccare il pellet da bruciare e come quell'energia viene prodotta. In media, dice il rapporto, “E stato scoperto che l'elettricità da biomassa richiede ingressi di energia maggiori di gran parte delle altre tecnologie per generare elettricità”. La legna spedita in Europa dalla costa occidentale ha delle emissioni da combustibile molto più alte per via del trasporto di quella spedita dalla costa orientale. Poi c'è la questione di come sarebbe stata usata la terra se non vi fossero stati coltivati alberi.

La linea di fondo è: mentre in certi scenari bruciare pellet di legna può avere un'impronta di gas serra “molto bassa”, dice il rapporto, “altri scenari possono risultare nelle intensità (di gas serra) maggiori di quelle dell'elettricità prodotta da combustibili fossili, anche dopo 100 anni”. E “in tutti i casi, l'ingresso di energia richiesta per produrre elettricità dal pellet nord americano è maggiore di quello dell'elettricità prodotta da combustibili fossili e da altre rinnovabili (eccetto i sistemi FV più energeticamente intensivi) e il nucleare”. In generale, ciò sembra difficilmente una cosa che dovremmo incentivare. Speriamo che le politiche europee stiano al passo con le scoperte dei loro governi.