sabato 27 gennaio 2018

Se i diamanti costassero un euro al chilo, penseremmo che sono pacchiani

Ne è passato di tempo da quando lo stoico Cleante ringraziava Zeus per aver creato l'uomo, il gioiello della creazione. Ma i gioielli si apprezzano anche perché sono rari, se i diamanti fossero comuni come le patate, li considereremmo inutili e pacchiani (oltre a non essere buoni da mangiare). Oggi, con sette miliardi e mezzo di umani, la fama dell'uomo come gioiello della creazione si è alquanto appannata e Bruno Sebastiani non scende a compromessi nel parlare degli esseri umani come "Il Cancro del Pianeta." E' un titolo molto inquietante per un saggio che, peraltro, fa molte osservazioni corrette. (U.B.)




 IL CANCRO DELPIANETA

Un post di Bruno Sebastiani

E se la nostra intelligenza anziché essere una scintilla divina o una mirabile opera della natura (a seconda che ci si riconosca nel creazionismo o nell’evoluzionismo) fosse un tragico errore del processo evolutivo della vita, una via “svantaggiosa” imboccata casualmente da madre natura che ben presto l’abbandonerà per far ritorno a forme di vita meno distruttive per l’ambiente?

A questa domanda, tanto angosciante quanto di basilare importanza per tutto il genere umano, ho tentato di dare una risposta con la teoria contenuta nel saggio “Il Cancro del Pianeta” (Armando Editore, Roma, 2017).

E la risposta, purtroppo, è stata affermativa. Sì, la nostra intelligenza è il frutto di un’abnorme evoluzione patita dal nostro cervello, evoluzione che ci ha posti in grado di modificare l’ambiente che ci circonda a nostro vantaggio, ma a svantaggio di ogni altra realtà del pianeta.

Fin qui qualcuno potrebbe dire: che male c’è? Noi apparteniamo alla specie Homo sapiens, siamo all’apice della catena della vita ed è giusto che ci preoccupiamo principalmente di noi stessi. Sennonché la nostra vita dipende da tutte le altre realtà esistenti sul pianeta, realtà che stiamo dissennatamente e sistematicamente annientando! È come se ci trovassimo su una nave e continuassimo ad imbarcare acqua: prima o poi ci sarà il naufragio!

Il punto è proprio questo: la “scintilla divina” (o “mirabile opera della natura”) ci ha consentito di piegare a nostro vantaggio le leggi stesse della natura, di squilibrare, sempre a nostro vantaggio, il delicato ed ultra complesso sistema di congegni e meccanismi biologici formatisi spontaneamente in milioni e milioni di anni, e ci ha consentito di farlo in un battibaleno, in poche migliaia di anni, un’inezia di tempo cosmico. Ma non ci ha consentito di creare un nuovo equilibrio altrettanto solido come quello che abbiamo distrutto.

La nostra intelligenza (o ragione) è il software che gira nel nostro cervello ed è lo strumento più potente sviluppatosi su questo pianeta. Ma la sua potenza è niente rispetto a quella necessaria per governare in modo stabile ed equilibrato le innumerevoli variabili presenti in natura.
Erano nel giusto gli antichi asceti che si annientavano di fronte all’ignoto che essi chiamavano onnipotenza divina.

Ma l’essere umano non ha seguito la loro strada perché non poteva che intraprendere il cammino del cosiddetto “progresso”, indotto a ciò due impulsi irrefrenabili, e cioè:

  • da un lato la continua, spontanea crescita (e potenza elaborativa) del cervello, da meno di 500 cc a 1.400 cc in poco più di due milioni di anni;
  • dall’altro lato l’istinto di sopravvivenza della specie, presente in ogni appartenente al regno animale e preposto al mantenimento dell’equilibrio numerico tra tutti gli esseri viventi.

Questo istinto ha normalmente la funzione di non far prevalere una specie sulle altre: alcuni animali hanno sviluppato la forza fisica, altri l’agilità, altri la velocità, altri ancora il mimetismo e così via. Ognuna di queste “doti” si è evoluta al fine di consentire a ciascuna specie la conservazione del proprio posto nel mondo della natura, all’interno di un equilibrio dinamico in continuo movimento. Tale equilibrio in passato, milioni di anni or sono, si è spezzato più volte a causa di eventi catastrofici, quali impatti con asteroidi, glaciazioni, collisioni di placche tettoniche, eruzioni ecc. Ed ogni volta, dopo la catastrofe, la vita ha ripreso ad evolvere, sotto vecchie e nuove forme, fino a ricostituire il suo equilibrio dinamico.

Al di fuori di questi eventi, che condussero alle cosiddette “estinzioni di massa”, alcune specie si estinguono per motivi naturali, di norma per il venir meno delle loro specifiche fonti di sostentamento o l’insorgere di particolari mutazioni climatiche. Queste estinzioni, dette “estinzioni di fondo” (in inglese “background extinctions”) sono assai rare, nell’ordine di 4 – 5 famiglie ogni milione di anni.

Ma ai nostri giorni l’equilibrio che presiede alla contemporanea convivenza di tutte le specie viventi si è nuovamente spezzato, e non per motivi riconducibili ad eventi catastrofici, bensì a causa dell’utilizzo che stiamo facendo delle capacità intellettuali di cui ci siamo trovati involontariamente a disporre.

In pratica nella lotta per la vita, abitualmente regolata dall’istinto di sopravvivenza, noi uomini siamo intervenuti con la nuova super arma fornitaci dall’abnorme evoluzione del nostro cervello, abbiamo sbaragliato tutti gli avversari e siamo rimasti soli a dominare su tutti i regni della natura.

Ma così come è stato facile trionfare su ogni essere animato e inanimato presente sul pianeta, è altrettanto difficile ricreare un nuovo equilibrio che garantisca la continuità della vita sulla Terra. Il nostro trionfo ha comportato la diffusione del genere umano in ogni angolo del globo con un ritmo vertiginoso, cui ha corrisposto per contrappeso l’annientamento di tutte le forme di vita non riconducibili ad un diretto utilizzo antropico (alimentare in primis). Il nostro egoismo è stato tanto cieco da non farci comprendere che in natura tutto è collegato all’interno di un grande super organismo entro cui è germogliata la vita e di cui anche noi facciamo parte. Spezzando un’infinità di anelli apparentemente inutili, abbiamo interrotto il flusso vitale del super organismo, ed ora ne patiamo le conseguenze che portano i nomi tristemente noti di inquinamento, riscaldamento globale, desertificazione, sovrappopolazione ecc. ecc.

Come non intravvedere una corrispondenza tra questo tipo di comportamento e quello delle cellule in cui il materiale genetico muta al punto da trasformarle in agenti cancerosi, restii ad accettare la morte cellulare programmata (apoptosi) e destinati ad innescare con la loro proliferazione incontrollata il processo tumorale?

A mio avviso non ha grande importanza che questa correlazione abbia basi scientifiche o meno. Ciò che conta è che faccia intendere all’essere umano come il progresso di cui va tanto orgoglioso, la cosiddetta civiltà, altro non sia per l’ecosfera se non una malattia che tutto distrugge. Questo morbo, vero e proprio cancro del pianeta, minaccia di far sparire la vita in una nuova estinzione di massa, indotta questa volta non da eventi esogeni, ma da un errore commesso da madre natura stessa, una via svantaggiosa imboccata casualmente che presto sarà abbandonata, come ogni errore prodottosi nel corso del processo evolutivo.

Oggi ci troviamo in una situazione ambigua. Non possiamo negare gli enormi benefici che il progresso ha comportato per tanta parte dell’umanità. Ma non possiamo ignorare i danni irreversibili che abbiamo già causato all’ambiente e agli altri esseri viventi, danni che prossimamente si ritorceranno anche contro di noi.

Quando il cancro conclude la sua opera nefasta anche le cellule cancerose scompaiono insieme ai tessuti sani che hanno distrutto.

Ecco questa è la visione realistica contenuta nel mio saggio. Non mi sono posto il problema della “guarigione” perché ritengo che la “malattia” sia giunta ad un punto tale da lasciare ben poche speranze di risanamento.

Ho mantenuto però un barlume di speranza individuale, laddove ho suggerito a chi ne ha la possibilità di cercare rifugio in quel poco di natura che resta, come abbiamo fatto io e mia moglie che abbiamo lasciato la città in cui vivevamo (Milano) e ci siamo trasferiti in una casa ai margini di un bosco. Qui abbiamo aperto un Bed & Breakfast, al quale abbiamo dato nientemeno che il nome di Joie de Vivre.

Se la speranza collettiva non ha più ragion d’essere, rimane pur sempre la speranza individuale!


giovedì 25 gennaio 2018

La Mente di fronte alle catastrofi (2) Quanto siamo resilienti?

(Pubblicato anche sul blog Appello per la Resilienza)

Di Daniele Migliorino

In questo post propongo un'esercizio mentale volto ad anticipare un evento negativo, qualcosa di simile a quegli esercizi spirituali che facevano alcuni medievali, come la "meditatio mortis". Prendiamo l'ipotesi dell'arrivo di una meteora sulla terra, ipotesi che è stata cavalcata dalla filmografia catastrofista (basti pensare ad Armageddon).  Risultati immagini per meteorite

Per quanto ne so - basandomi ad esempio sulla "Storia della Terra" di McDougall - un'evento del genere è qualcosa che prima o poi riaccadrà, per via delle leggi della probabilità. Qui non mi interessa quando e se accadrà qualcosa del genere, quanto piuttosto prendere questo esempio come la "madre" di tutte le catastrofi annunciate.

Supponiamo che... un'organizzazione spaziale tipo la NASA avverta la popolazione che fra 6 mesi si abbatterà sulla Terra un'asteroide di dimensioni sufficientemente grandi da spazzare via metà della popolazione mondiale e che farebbe collassare l'intero network finanziario-commerciale su cui si basa la vita umana. Qualcosa come migliaia e migliaia di volte la potenza della più potente bomba atomica che sia capace di produrre, per esempio, il bravo Kim Jong-un.

Supponiamo che tutti gli enti governativi decidano che l'allerta è reale e avvertano la popolazione. Che cosa accadrebbe?

Nel film citato sopra gli esperti di turno valutano che l'unica chance per l'umanità è spaccare in due la meteora in modo da deviarla. La responsabilità nel film finisce per ricadere su quel gruppetto di astronauti che si incaricherà della missione.

Supponiamo che però non si possa far esplodere la meteora perchè è già troppo tardi... La popolazione viene avvisata che l'impatto è certo. La mente delle persone subito capisce e anticipa (la mente ha funzione di "anticipare"; si veda il post) che "sarà la catastrofe". A una parte dell'umanità toccherebbe la sorte peggiore, senza che si possa sapere a chi... Ci troveremmo ad affrontare tutti insieme, senza distinzioni di razze e privilegi sociali, lo stesso pericolo.

Le persone come reagiranno? Panico totale o collaborazione? La mente come si comporterà? Come un cavallo imbizzarrito o sarà sufficientemente calma per affrontare la situazione? In questi momenti sarebbe meglio aver coltivato la "consapevolezza" come un buddista o la frenesia come un'occidentale?
Risultati immagini per panico collettivo

Può essere che dopo un periodo iniziale di panico si cominci a cercare insieme delle soluzioni. Non sarebbe la più grande ricerca collettiva di una soluzione volta al bene comune?

La soluzione migliore che viene trovata prima di tutto è di calcolare il momento esatto in cui vi sarà l'impatto così da capire in che luogo avverrà e dunque... evacuare l'intera popolazione mondiale nel punto opposto della Terra! In tal modo forse sarà possibile salvarsi quasi tutti (ribadisco che questa "ipotesi" non ha valore reale; è solo a titolo di esperimento mentale)

La gente si arrende all'evidenza e comincia a entrare nell'ordine delle idee che non c'è alternativa. Ecco il punto che mi interessa: avviene un'immenso cambiamento per tutti e bisogna metterlo in atto. Bisogna trasferirsi dall'altra parte del globo e abbandonare tutto ciò che si aveva e faceva.

Improvvisamente non esiste più nessuna vita quotidiana con le sue piccole gioie e timori, con i suoi ritmi e regolarità, aspettative, responsabilità, progetti, ecc. Cambia l'intero campo dei valori individuali e collettivi. La mente viene invasa da immagini e pensieri nuovi che cacciano sullo sfondo la maggior parte di quelli che era solita rappresentarsi. Ora c'è un solo obiettivo: salvarsi e aiutare anche i propri familiari e tutto diviene funzionale a questo scopo. Paradossalmente per qualcuno la vita potrebbe anche riacquistare un "senso" poichè ne risperimenta il valore (la mente anticipa che si potrebbe perdere la vita).

TORNIAMO ALLA "REALTA'"...

La nostra situazione attuale riguardo ai cambiamenti climatici, mi domando, è poi molto diversa? L'unica differenza è che i dati che abbiamo a riguardo non possono darci certezze su cosa accadrà. Continuando però a spalmare le conseguenze più gravi di questo "evento" nei decenni a venire - come se non fossimo mai realmente nell'occhio del ciclone, ma sempre "Demain", come il titolo del film francese - di fatto finiamo con non concretizzare mai alcun comportamento collettivo adeguato (ma nemmeno individuale).

Il problema è che adesso c'è una vita concreta che devo mandare avanti, con tutti i suoi doveri, ed è assai difficile pensare che il futuro è adesso. "Che cosa dovremmo fare?" si chiedono in molti, con senso di impotenza. L'immenso problema è che la nostra stessa quotidianità è implicata nel problema. Non è che il Global Worming sia una fatalità che giunge all'umanità da un'altro pianeta, come una meteora appunto: siamo tutti noi, chi più chi meno, a contribuire alla quotidiana immissione di gas serra con i nostri comportamenti.

 Risultati immagini per impronta ecologica italia

Il sistema, dicono alcuni, è lock-in: è bloccato. Operare dei cambiamenti nel sistema è incredibilmente arduo, poichè bisogna modificare le "regole del gioco", quelle strutture/feedback che lo mantengono in essere. Cosa fare? Come farlo?

Ciò che non è abbastanza chiaro ai più è che ognuno di noi ha la sua parte di responsabilità in questa storia. Additiamo la responsabilità maggiore alle multinazionali, ai politici e al "sistema". Non possiamo accettare di farne parte anche noi. Siamo tutti "costretti" a giocare a questo gioco perverso guidato dalle corporations?

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Ciò che intendevo evidenziare è come tutti gli equilibri e le dinamiche cambiano quando un pericolo è evidente. Non c'è più alcun "sistema lock-in" di fronte a mobilitazioni simili, di colpo tutta la forza coercitiva che sembrava imporci di partecipare, quasi dall'esterno, secondo le norme stabilite alla vita sociale - viene meno.

Il sistema è bloccato solo perchè noi lo vogliamo (di solito inconsapevolmente). E' ingenuo pensare che i politici faranno qualcosa, anche se onesti, perché il politico non può cambiare la struttura del sistema.

Non ci potrà essere nessun "cambiamento sistemico guidato dal risveglio morale" (R. Heinberg) fino a che continuiamo a fare le stesse cose e come le facciamo prima. Se non facciamo diventare il cambiamento climatico "il nostro lavoro" che cosa credete che cambierà? Qui sta il vero blocco e modificarlo significa diventare resilienti, cioè in grado di affrontare il cambiamento.

Dobbiamo proprio esagerare, non come i buontemponi qui sotto!
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martedì 23 gennaio 2018

Gli errori di comunicazione sul cambiamento climatico






Un post di WM



Recentemente molti interventi su questo blog riguardavano la mancanza di attenzione su un tema così importante come il cambiamento climatico. Oggettivamente guardandomi intorno non posso che constatare che gli interessi sono altrove, alcuni certamente importanti come le pensioni, la mancanza di prospettiva di lavoro e la disoccupazione, altri molto meno che non sto a dire.

L'argomento è totalmente assente nel dibattito elettorale (non mi meraviglia) e nelle conversazioni pubbliche le questioni sono altre. Che fare? Penso che il principale errore sia nel proporre previsioni a lunga scadenza, dicendo che entro il 2100 il mare si innalzerà di 2/3 m, se non si vive in Bangladesh o alle Maldive (forse chi vive a Venezia apre le orecchie ma non ne sono sicuro) la prospettiva è troppo lontana, anche dire che nel 2040 la T potrebbe salire di 2 C°, fa venire in mente che mancano ancora più di 20 anni e poi a dicembre faceva più freddo del solito e via discorrendo .

Una strategia sarebbe invece quella di provare a raccontare che il cambiamento è in atto, che tra pochi anni il caldo e la siccità impediranno la coltivazione della vite, del frumento (e forse si passerà al sorgo più resistente alla siccità ma meno produttivo), che senza neve non si andrà a sciare, che le tempeste di metà gennaio in centro Europa sono un evidente segnale.

Sono esempi a caso per dare una prospettiva a breve ma far capire che se piove di meno non basta fare un buco in più per estrarre acqua sempre più profonda o dire che se lo scorso anno gli invasi alpini hanno prodotto meno energia idroelettrica la causa sono le minori precipitazioni adesso, non a lunga scadenza e che se la tendenza alla fusione dei ghiacciai procede a questo ritmo non bisogna attendere 20 anni perché scompaiano.

Far osservare che se sono caduti 2 m di neve sulle Alpi occidentali e 3 giorni dopo al sud c'erano 24 C° a gennaio non è solo una anomalia ma un chiaro effetto del cambiamento climatico.

Entrare nell'ottica dei sistemi caotici e il clima lo è per eccellenza, non è facile ma bisogna spiegare che l'evoluzione avviene a scatti, improvvisamente si riposiziona ad un livello diverso.

Quando trato questi argomenti è imbarazzante perché in genere l'interlocutore mi guarda dapprima curioso, poi nel momento in cui dico che il processo è in atto e non ci vuole molto tempo, cambia atteggiamento, infastidito o incredulo e cambia discorso.

Qualche tempo fa parlando con un un ingegnere, che mi ripeteva che il famoso “I limiti dello sviluppo” scritto nel '73 aveva sbagliato previsioni ho tentato di spiegare tra le altre cose che i sistemi complessi non sono lineari e per quanto i matematici abbiano inventato il caos deterministico e gli attrattori, non necessariamente i collassi sistemici portano a condizioni compatibili con le esigenze del genere umano.

Parole al vento, per lui o per quelli come lui, bisogna usare linguaggi più brutali e senza fronzoli.

I giornalisti vogliono sempre rassicurazioni, non bisogna mai creare il panico, i politici poveretti seguono sempre il cadreghino e la prospettiva non va oltre i 5 anni per cui inutile cercare sponda da quella parte.

L'unica strada è che tutti, ma dico tutti, gli scienziati, gli studiosi, non facciano sconti, dire come stanno le cose in modo chiaro e netto anche se ci sarà sempre qualcuno che dirà che non è vero; l'alternativa sarà non intervistarci più oppure cancellarci dai loro contatti ma siamo in tanti che si occupano di cambiamenti climatici, prima che esauriscano i nomi forse siamo in tempo.


wm




domenica 21 gennaio 2018

I grandi perché della vita



E' ormai tradizione che su Internet ci si occupi di gatti. E così un post leggero dove Elena Corna dimostra la sua capacità di vedere il mondo attraverso occhi non umani. 


Un racconto di Elena Corna


Immobile, con gli occhi chiusi, Romeo si lascia scaldare dal sole. Uno scatto improvviso di Silvestro, sdraiato accanto a lui, interrompe bruscamente le sue meditazioni. -Ecco, mai che si possa godersi un tramonto in pace. Che c’è? -

-Niente, un granchio… -

Romeo apre un occhio:- Già, eccolo lì. Bello grosso. E acchiappalo, no?- Silvestro allunga una zampa senza molta convinzione. - …Si è allontanato. Non ci arrivo…-

Romeo sospira:-Eh, se tu avessi fame, ma fame veramente, a quest’ora ti saresti alzato. I nostri antenati, quelli sì che sudavano sette strati di pelo per guadagnarsi di che vivere. Vedi quella nave laggiù? Un tempo su ogni nave venivano imbarcati uno o due di noi. Lavoravano come guardiani delle cambuse e delle stive. Se volevano mangiare, dovevano acchiappare i topi. Per fortuna, al giorno d’oggi moltissimi di noi non hanno più il problema di trovare il cibo. -

Silvestro sbadiglia con aria soddisfatta:- Sì, trovo che abbiamo fatto benissimo ad addomesticare la specie umana. E’ stata una gran trovata. -

Malachia, l’intellettuale del gruppo, che sonnecchiava poco lontano, non può fare a meno di intervenire: -In realtà la domesticazione della specie umana è iniziata almeno quattro millenni fa. Gli Egiziani ci adoravano addirittura. E fin dall’antichità noi siamo ammessi in tutti i palazzi reali, mentre le altre specie quasi sempre restano fuori. “Un gatto può sostenere lo sguardo di qualunque re”, dice un proverbio. -

Una sonora soffiata lo interrompe. Gonfiando la coda, Malachia sibila indispettito: -Madame, un po’ di rispetto. So bene che non sopporta i miei discorsi culturali, ma non mi soffi così o dimenticherò di essere un gentilgatto. -

Trudy, da poco madre, si affretta a scusarsi:- Oh, non soffiavo a te o alla tua cultura, per la quale ho la massima considerazione, ma a mio figlio… Vieni qui, Isidoro, smettila di rotolarti nella Posidonia. Dopo ti devo leccare per un’ora per toglierti quell’odore.- 

Il cucciolo si avvicina traballando, trascinandosi dietro svariate foglie di Posidonia. Per farsi perdonare, drizza le orecchie con l’aria del giovane curioso e desideroso di apprendere, come si addice a un vero gatto:  -Mamma, cosa vuol dire “domesticazione”? -

Romeo si stira e si mette seduto:-Te lo spiego io, piccoletto. Vedi, la specie dominante del pianeta, che si ritiene anche la più evoluta…- 

-Che invece siamo noi- interloquisce Silvestro Romeo gli dà una zampatina sulla testa, giusto perché aveva voglia di farlo già da prima, poi prosegue compunto:- Insomma, la specie dei Sapiens ha asservito tutte le specie che ha potuto; usano i cavalli per correre, gli elefanti per trasportare pesi, i cani per la caccia, per il salvataggio in mare, per fare la guardia e per un sacco di altre cose come trovare i tartufi…

I sapiens hanno un olfatto da schifìo- aggiunge Silvestro, rotolandosi quel tanto che basta per non essere a portata di zampa dell’amico. -insomma- riprende Romeo – molte specie sono imprigionate negli zoo, schiavizzate nei circhi, addirittura allevate per essere mangiate…- 

Trudy smette di ripulire il cucciolo e pianta i suoi occhi gialli in quelli dell’amico:- Ehm, Romeo…Per favore…- Non è proprio il caso di turbare il piccolo con il racconto delle innumerevoli atrocità che sono la specialità dell’homo sapiens. - Romeo capisce al volo.

-Per farla breve, piccoletto, noi siamo l’unica specie a condividere lo spazio dell’uomo senza che lui ci chieda niente. Sa benissimo che noi non obbediamo a nessuno. Anzi. Lui si incarica di proteggere e di nutrire le nostre comunità. Inoltre, secondo le sue stesse leggi, noi siamo individui liberi. Per il cane non è così; il cane deve avere un “padrone”. E se un cane vive con un umano, finisce per fare quel che vuole l’umano; ma se un gatto vive con un umano, è l’umano che fa quello che vuole il gatto. Generalmente bastano tre giorni, a un gatto, per addestrare il suo umano.- 

Il micetto ascolta con gli occhi sgranati:- Perbacco, e come ci siamo riusciti?-

-E’ per via dei topi- risponde Malachia –I sapiens credono di essere onnipotenti ma sono terrorizzati dai topi. Si calcola che ci siano 8 topi per ogni umano. E loro sanno benissimo che noi siamo tuttora il loro migliore alleato in caso di attacco topesco. -

-Macchè!- interviene Silvestro – E’ solo perché siamo così incredibilmente belli. Lo vedete quanti vengono qui a fotografarci!-

-Già, e ogni volta tu ti metti in posa.- ironizza Romeo

-Non so…- obietta Trudy con tono pensoso -Tigri, pantere e leoni sono bellissimi, anche più di noi-

-Lo credo, sono cugini nostri. Sfortunatamente per loro, sono anche grossi. E con troppi denti. Certo, anche noi possiamo essere feroci- sottolinea Romeo con una certa fierezza –ma siamo anche capaci di recitare la parte dei peluche. Loro no. -

- Una volta- racconta Malachia - è stato qui uno studioso. Lui diceva che ogni scienziato dovrebbe vivere con un gatto, per ricordarsi che non tutto si può sapere e quindi non è il caso di essere presuntuosi. ... Vanno in visibilio se gli facciamo le fusa, e non sanno proprio come facciamo! Il meccanismo esatto delle fusa è tuttora ignoto agli uomini. Il gatto mette in scacco l’intelligenza umana.-

-Può essere. Quello che è certo è che noi tiriamo fuori il meglio degli umani. Soprattutto quando li guardiamo fissi. Per questo non possono fare a meno di noi. E poi, ci trovano così…impeccabili. Nobili, ci definiscono.-

-Visto? E’ come dicevo. E’ che siamo terribilmente belli- conclude Silvestro, stirandosi in tutta la sua lunghezza e anche un po’ oltre.-

-Boh…sarà anche vero che tiriamo fuori il meglio di loro, però sono ancora una specie dissennata: si fanno guerra, maltrattano le altre specie e i loro stessi simili, buttano spazzatura dovunque…Guardate in mare, sta passando un sacchetto di plastica…- mormora Trudy.

Tutti gli occhi guardano verso il mare.

-Beh- commenta Romeo – li abbiamo addomesticati ma per renderli civili mi sa che ci vuole ancora tempo…Comunque, è tempo di pensare alle cose serie: è ora di cena!-

A queste parole, cinque codini fremono. Come un sol gatto, la compagnia si mette in moto. Sulla spiaggia restano le orme di tante nobili e impeccabili zampe.




P.S. Avrei voluto usare i nomi dei gatti della colonia, ma sul sito non ho trovato dati aggiornati…Così ho ritenuto più prudente usare i soliti nomi dei gatti dei cartoni animati.



giovedì 18 gennaio 2018

Addio ai Ghiacci



Inizio da  oggi una collaborazione con questo blog con rassegne librarie e riflessioni senza fissa periodicità su temi che possono contribuire a mio modesto parere alla conoscenza. Ho avuto un blog su questi argomenti che ho chiuso per varie ragioni non ultima lo spam dei negazionisti. Un grazie a Ugo Bardi per l'opportunità. (WM)


Un post di WM



Addio ai Ghiacci di Peter Wadhams Bollati Boringhieri 274 pagine 24 Euro


Nei limiti di un testo di divulgazione questo libro riesce a dare un quadro molto rigoroso di ciò che sta avvenendo al polo nord ma non solo, l'autore è stato per oltre  40 anni ricercatore tra i più rispettati a livello mondiale su ghiacci marini e oceano artico.

Viene spiegata molto bene la fisica dell'acqua. Ciò che mi ha sorpreso è la schiettezza nell'affermare che ormai abbiamo superato il punto di non ritorno, ormai il processo di fusione si autoalimenta e la riformazione durante la stagione invernale della banchisa artica non permette quelle trasformazioni che avvengono nell'arco di anni, il ghiaccio del primo anno più debole non riesce a trasformarsi negli anni successivi, cambia la struttura. Entro pochi anni l'Artico sarà libero dai ghiacci per buona parte dell'anno.

Le implicazioni sono gravi, la salinità che cambia, la diminuzione dell'albedo, le grandi masse d'acqua di fusione della Groenlandia che variano il  clima dell'estremo Nord ma con ripercussioni che influenzano la circolazione globale, le correnti a getto, l'Oscillazione del Nord Atlantico e così via. Una lettura agevole che introduce concetti difficili, dalla climatologia alla meteorologia ma rendendoli accessibili.

Non mancano alcune proposte di soluzione che secondo me sono l'unico limite del libro, una fiducia discutibile nella geo ingegneria e qualche accenno alla necessità di affidarsi alla energia nucleare, mai un dubbio sull'attuale modello ultra liberista che dall'Europa agli USA passando per la Cina sta devastando la biosfera.

Il messaggio è comunque chiaro, continuando così siamo spacciati, cambiando qualcosa anche.

WM

venerdì 12 gennaio 2018

Siccità e desertificazione

Questo post di Jacopo Simonetta è apparso il 28 Novembre 2017. Un mese e mezzo dopo, la pioggia invernale ci ha fatto dimenticare della terribile siccità della scorsa estate. E nessuno si preoccupa di quello che ci arriverà addosso la prossima estate. Siamo di memoria corta, e qusto post ce lo dovrebbe ricordare - anche se non ce lo ricorderemo

di Jacopo Simonetta 
Articolo già apparso si Apocalottimismo


Ogni tanto c’è qualche temporale, ma sono oltre 6 mesi che non piove sul serio, al netto di qualche spettacolare e sparso nubifragio; eppure è dai primi di settembre che la siccità è scomparsa dagli schermi.  Ma è finita davvero?  Cominciamo col fare un po’ di chiarezza sui termini.

Siccità: Indica un periodo il cui la disponibilità di acqua è sensibilmente inferiore alla media.  Sembra un concetto facile, ma non poi  così tanto.  Per cominciare è bene distinguere fra siccità meteorologica (carenza di pioggia) e siccità idrologica (carenza di acqua nel sistema delle falde freatiche dei laghi e dei corsi d’acqua).   Le due sono correlate, ma in modo complesso.  Qui ricordiamo solamente che la siccità meteorologica dipende in parte dal cambiamento del clima globale, in parte da fattori locali.  Quanto alla siccità idrologica, nelle zone intensamente abitate e/o coltivate, dipende più dagli usi antropici dell’acqua che dalle precipitazioni.
Inoltre, bisogna ricordare che, quando si parla di precipitazioni sopra o sotto la media, di solito si fa riferimento alla media degli ultimi 30 anni, compreso quello in corso.  Di conseguenza, il termine di riferimento cambia nel tempo e non aiuta ad evidenziare le variazioni di lungo periodo.
Comunque, a tutti gli effetti, siamo tuttora in piena siccità sia meteorologica che idrologica.  La prima potrebbe finire nei mesi a venire, mentre per far finire quella idrologica ci vorrebbero diversi mesi di pioggia battente.

Inaridimento: E’ un processo di progressivo depauperamento delle riserve idriche.  Quando, come in gran parte del mondo di oggi, si assiste ad un cronico abbassamento delle falde freatiche e/o alla riduzione delle portate medie e minime dei corsi d’acqua abbiamo a che fare con un inaridimento. Somiglia ad una siccità cronica e cumulativa, ma con qualcosa in più. Prima di tutto la ridotta capacità dei suoli di assorbire e trattenere l’acqua; poi la scomparse di zone umide anche temporanee, la canalizzazione del reticolo idrico, eccetera. L’inaridimento contribuisce anche a ridurre la piovosità media in quanto una percentuale importante dell’acqua che piove sulla terra era prima evaporata dalla terra medesima.  Così come buona parte dell’acqua che evapora dal mare, ripiove poi in mare.

Desertificazione: E’ un fenomeno estremamente complesso ed insidioso che, di solito, si accompagna ad un inaridimento del territorio, ma non sempre.  Vediamolo quindi un poco più da vicino.

Cos’è la desertificazione?

La parola evoca immediatamente le dune mobili sahariane e, giustamente, pensiamo che qui, in Italia ed in Europa, non succederà mai.  Ma la desertificazione è qualcosa di molto più diffuso, insidioso e graduale.   Vediamone le principali componenti.

Clima. La parola deserto richiama subito l’idea di caldo e di arido.  In effetti, il processo di desertificazione in corso in molte regioni temperate si associa ad un innalzamento delle temperature e ad una maggiore irregolarità delle precipitazioni. Tuttavia è bene ricordare che esistono anche deserti molto freddi, come quelli dell’Asia centrale, e perfino deserti molto piovosi, come in gran parte dell’Islanda odierna.  Vale la pena di ricordare anche che l’attuale fluttuazione climatica, calda ed arida sulla maggior parte delle terre emerse, rappresenta una forte anomalia. In tutta la storia climatica del Pianeta (per quanto ne sappiamo) le fluttuazioni calde sono state anche più piovose, mentre quelle fredde erano più aride. Questa peculiarità dipende almeno in buona parte dagli altri fattori in gioco (v. punti seguenti).

Un altro punto importante è che si parla molto (e talvolta a sproposito) del mutamento del clima a livello globale, mentre si parla più punto che poco del fatto che il clima effettivo nelle varie zone dipende da come i fattori globali (composizione chimica dell’atmosfera, correnti oceaniche, jet-stream, ecc.) interferiscono con fattori molto più locali (suoli, vegetazione, urbanizzazione, eccetera).  Una lacuna importante perché se è vero che non si sta facendo niente di serio per ridurre le emissioni climalteranti globali, è ancor più vero che non si sta facendo niente (anzi peggio) sui fattori locali e regionali che possono pesare anche di più. 

Di alcuni parleremo ai punti seguenti, qui vorrei intanto fare cenno al ruolo degli incendi.  In condizioni naturali, incendi occasionali (di solito innescati da fulmini) giocano un ruolo importante nel mantenimento della biodiversità. E’ arduo stabilire quale sarebbe l’incidenza “spontanea” di tali eventi nei vari tipi di ambiente perché situazioni definibili come “naturali” (cioè non influenzate dall’uomo) hanno cessato di esistere.  Tuttavia, si stima che le foreste temperate (come quelle che esistevano sulle nostre montagne) potevano essere percorse dal fuoco ogni 3-4 secoli circa.  In altri tipi di ambiente accadeva molto più spesso, tanto che esistono specie che presentano vari tipi di adattamento al fuoco ed intere biocenosi che dipendono dalla frequenza di simili eventi.

Tuttavia, è importante tener presente che se la frequenza degli incendi aumenta, o se colpisce biocenosi già sotto stress per motivi climatici o di altro genere, l’effetto è sempre nocivo, talvolta devastante. Nell’attuale situazione, gli incendi forestali accelerano i processi di desertificazione già in atto, sia direttamente (riduzione della copertura vegetale, perdita di biodiversità, erosione dei suoli, riduzione della capacità di ritenzione idrica, ecc.), sia indirettamente (a livello globale gli incendi boschivi sono oramai una delle principali fonti di gas climalteranti e di aerosol in atmosfera.)

Orografia e rocce. La forma del rilievo e la natura delle rocce determinano in buona parte sia il clima locale, che la capacità del territorio nel trattenere acqua, ma le situazioni reali possono essere molto complesse e variare in relazione anche ad altri fattori. Ad esempio, le Alpi Apuane sono estremamente ripide ed  in gran parte formate da rocce carbonatiche molto fratturate. Di conseguenza i suoli sono sottili e tendenzialmente instabili, mentre l’acqua scorre rapidamente a valle, sia in superficie che attraverso il sistema carsico.

In compenso, il fatto di costituire un’alta catena vicina e parallela al mare rendeva queste montagne una delle zone più piovose d’Europa il che, a sua volta, le rendeva una vera e propria spugna da cui zampillava acqua da tutte le parti. Tre fattori sono cambiati. Due globali: il minore innevamento e lo spostamento verso nord della posizione media dell’anticiclone delle Azzorre; uno locale, la quasi completa urbanizzazione della pianura posta fra le montagne ed il mare. La combinazione di questi tre fattori ha ridotto drasticamente le precipitazioni sulle Apuane (oltre il 30% in meno negli ultimi 40 anni - dati Lamma) da cui, oramai, di acqua ne zampilla ben poca e sempre di meno.

Suolo.  Abbiamo fatto cenno al fatto che i suoli posti su pendenze notevoli sono strutturalmente più poveri e trattengono meno acqua, oltre ad essere facilmente erodibili. Vale a dire che sono strutturalmente fragili e che fattori di disturbo anche occasionali possono avviare processi di degrado talvolta irreversibili.  Tuttavia, oggi i suoli di collina e di pianura sono nel complesso molto più degradati di quelli di montagna a causa dello sfruttamento molto più intenso cui sono soggetti.

Tralasciando l’ampia varietà di forme di degrado irreversibile che caratterizza le periferie allargate dei centri urbani ed industriali, vorrei far cenno al degrado dei suoli prettamente agricoli. La fertilità è il risultato di una molto complessa rete di co-fattori che comprendono la natura chimica dei suoli, la loro struttura fisica, la vegetazione che vi cresce e la miriade di organismi che vivono al suo interno (protozoi, batteri, lieviti, funghi, alghe, nematodi, insetti, ragni e l’elenco sarebbe ancora lungo). 

L’uso massiccio di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi, l’ampliamento degli appezzamenti e la monocoltura, l’uso di macchine sempre più pesanti e di lavorazioni profonde (queste in parziale disuso) hanno ridotto i suoli a poco più che dei substrati inerti, capaci di elevate produzioni solo ricorrendo al complesso di fattori artificiali sopra elencati. Cioè producono solo continuando a degradarli. Cambiare sistema è possibile e, spesso, vi sono margini di recupero, ma ci vuole tempo e lavoro e raramente questi metodi sono utilizzati.  Fra le altre cose, ne consegue che la capacità dei suoli agricoli di assorbire e trattenere acqua (la cosiddetta “capacità di campo”) è drasticamente diminuita. Ciò è particolarmente devastante nelle vaste regioni temperate in cui il GW sta accrescendo l’irregolarità delle precipitazioni. Dunque il degrado dei suoli è un potente volano di desertificazione perché, riducendo la capacità di campo, si riduce la resistenza della vegetazione ai periodi di siccità e la resilienza complessiva degli agro-ecosistemi.  Di solito, la risposta è quella di aumentare l’irrigazione (v. più avanti).

Inoltre, il degrado dei suoli è anche una delle principali fonti di CO2 in atmosfera e, dunque, una delle importanti con-cause del riscaldamento globale.


Biodiversità.  Abbiamo accennato al fatto che la biodiversità rappresenta il fattore più importante a livello locale.  La  vegetazione e la citata miriade di organismi del suolo sono infatti in grado di modificare drasticamente la circolazione dell’acqua e quella dei nutrienti del suolo. 

Quando la biodiversità declina, il suolo e (spesso) il ciclo dell’acqua si impoveriscono mettendo ulteriormente sotto stress l’ecosistema. 

Si genera così una retroazione rinforzante che tende al progressivo depauperamento della sistema.  In un simile contesto, eventi occasionali come siccità o incendi, che in altre condizioni farebbero danni limitati e temporanei, possono invece diventare l’innesco per bruschi avanzamenti nel processo di desertificazione.

Un punto importante da tener presente è che non conta solo la distruzione degli ecosistemi, ma anche il ben più vasto degrado dei medesimi.  Per esempio, la superficie forestale italiana è sostanzialmente stabile, dopo alcuni decenni di forte espansione, ma praticamente ovunque sono evidenti segni di stress cronico dovuto a fattori climatici e ad errori di gestione. Il cattivo stato di salute dei boschi, a sua volta riduce la circolazione dell’acqua e rallenta l’assorbimento di CO2. Situazioni analoghe, ma ancor più gravi si riscontrano oramai ovunque, fin nel cuore di ciò che resta dell’Amazzonia.

La perdita di biodiversità è talvolta irreversibile, talaltra invece può essere arginato ed anche invertito, ma sempre con tempi molto più lunghi di quelli necessari per degradare il territorio.  Per questo non solo la presenza di aree protette di ogni ordine e grado, ma anche di ambienti come stagni e pozzanghere, incolti, boschetti e tutto quel genere di micro-ambienti marginali che di solito guardiamo con disprezzo rappresentano altrettanti “fortini” contro la desertificazione del territorio.

Ciclo dell’acqua.  Esiste un ciclo generale che è quello che si impara a scuola: mare-nuvole-pioggia-fiumi-mare. Ma, come abbiamo accennato sopra, anche  terra-nuvole-pioggia terra e questo secondo può essere molto più importante del primo a seconda della regione e/o della stagione. Inoltre, ci sono anche una miriade di sotto-cicli che si auto-organizzano a livello di ecosistemi fra suolo, vegetazione, aree umide, atmosfera, falde freatiche e fiumi. La quantità di acqua disponibile per sostenere la biodiversità dipende in gran parte da questi.

A livello di ogni bacino e sotto-bacino imbrifero, esiste infatti  un bilancio fra entrate ed uscite; se questo bilancio è in deficit, come quasi ovunque oggi nel mondo, il territorio si sta inaridendo.  E l’inaridimento è una sotto-categoria del più complesso fenomeno della desertificazione.  Ma quali sono le cause del deficit?  Parecchie, qui faremo cenno alle principali. Per cominciare, la captazione di sorgenti, la trivellazione di pozzi e le derivazioni dai corsi d’acqua. A livello globale circa il 70% dell’acqua sottratta al bilancio idrico viene dispersa per irrigazione ed il rimanente per usi civili ed industriali, ma in zone ad alta densità abitativa le proporzioni sono molto diverse. Poi viene il prosciugamento delle aree umide e la trasformazione dei fiumi in canali, entrambe cose che accelerano molto il deflusso delle acque. Quindi il degrado dei suoli agricoli cui si è fatto cenno, e l’urbanizzazione che oramai riguarda superfici importanti e che, a livello italiano, continua a mangiarsi alcuni metri quadri di territorio ogni secondo che passa. In molti paesi una delle voci principali sono anche gli incendi ed il degrado delle foreste (ben più esteso del disboscamento vero e proprio – v. sopra).

Il punto fondamentale da capire è che, riducendo le riserve idriche e la circolazione locale dell’acqua, si riducono anche le precipitazioni, anche se la correlazione è tutt’altro che lineare.

Un altro punto da tener presente è che il prosciugamento dei torrenti facilita enormemente la
diffusione degli incendi boschivi.  A cavallo di ogni torrente si trovava infatti una fascia di vegetazione diversa e molto più umida di quella sulle pendici, capace quindi di rallentare e spesso fermare le fiamme. Chiaramente, captando la sorgente, tutto questo scompare (anche se in teoria esisterebbero cose come “il deflusso minimo vitale” ed altre leggende metropolitane analoghe).

Tirando le somme.

Senza andare a cercare lontano, vediamo quale è la situazione in Italia (v. fig in apertura). Non ci sono e non ci saranno dune mobili, ma processi di desertificazione sono evidentemente in corso su buona parte del territorio, ivi compresa tutta la costa adriatica e buona parte della Pianura Padana. In effetti solo le aree montane sono per ora scarsamente toccate (dati CNR).  Interessante è osservare che le aree dove il fenomeno è più avanzato  (cartina a sinistra) non corrispondono a quelle dove il tasso di aggravamento è maggiore (cartina a destra).

Un problema molto serio è che tutto ciò non interessa minimamente la grande maggioranza della popolazione e, di conseguenza, agli amministratori. Il tragicomico circo che abbiamo visto a Roma l’estate 2017  (e che rivedremo l’estate ventura) è solo uno degli infiniti esempi che si potrebbero fare.

Cerchiamo di capire bene una cosa: la desertificazione e la crisi idrica sono fenomeni correlati, ma non sinonimi.  Ed entrambi ci accompagneranno per il prossimo secolo e forse più. Rassegnamoci e cominciamo ad occuparcene seriamente.
In un prossimo articolo parleremo di come ciò potrebbe essere fatto.


Per chi vuole saperne di più sul “quadro d’unione” fra i vari termini della crisi sistemica in corso.
https://luce-edizioni.it/prodotto/picco-capre-libro-crisi-collasso-simonetta-pardi-vassallo/


mercoledì 10 gennaio 2018

Considerazioni su Le Metamorfosi liquide




Un commento di Silvano Molfese su un recente post di Elena Corna.


Leggendo il brano di Umberto Eco ripreso da Elena Corna:

"Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità."

Mi chiedo: ma non sarà che la modernità si basa proprio sul soggettivismo per la massa dei consumatori? Al contrario i produttori, pochi e sempre più potenti, cercano di fare gruppo per tutelare i propri interessi.

Questa bulimia consumista “ha anche la conseguenza di aver saturato la terra e il mare di rifiuti, aggravando pesantemente le condizioni degli ecosistemi” e, aggiungo io, ha ingrassato le tasche dell’industriale.

E’ frequente sentire che “ognuno di noi è responsabile” per l’inquinamento; stranamente le società multinazionali sono a responsabilità limitata quando producono e immettono sul mercato prodotti tossici che sono pervasivi: Paolo Attivissimo, Le Scienze di ottobre 2017, riporta il caso del piombo tetraetile immesso dalla General Motors nella benzina.

La società controllata da General Motors non ha mai bonificato l’ambiente da tutto il piombo tetraetile !

Chi controlla l’informazione?

“Il cambiamento climatico porta turbamento sociale … L’incertezza resta diffusa e genera paura” Per quel che so gli animali reagiscono alla paura con l’aggressione, con la fuga o si paralizzano.

Immigrati e religione: ho sentito che qualche settimana fa su un autobus che un signore ha aggredito una studentessa italiana solo perché era mulatta! Una volta si diceva “guerra tra poveri”, altri, con dotta terminologia, parlano di conflitto sociale orizzontale.

Si cerca di dirottare le attenzioni e la discussione su singole questioni anziché sul sistema economico adottato: il capitalismo.



sabato 6 gennaio 2018

Ancora sulla degenerazione del dibattito: la questione dei sacchetti per la frutta.




La questione dei sacchetti per la frutta a due centesimi l'uno è andata a finire nel degenero più totale. Una cosa veramente di cui vergognarsi ma è il risultato dei meccanismi di diffusione dell'informazione: le peggiori scemenze possono diventare importantissime mentre le cose importanti passano inosservate.

Vi passo per prima cosa l'articoletto che ho scritto sui sacchetti per "Il fatto Quotidiano". Più in fondo, vi passo il messaggio che ho ricevuto dal signor Alfredo Davolio Marani in cui mi accusa di essere in combutta con Matteo Renzi solo perché sono di Firenze. Non è per far polemica, ma come si fa a ridursi a scrivere certe cose? Gli ho anche risposto gentilmente dicendo che non era il caso di metterla in quel modo, ma lui ha replicato insistendo con le accuse. E vabbé, si vede che deve essere così. Però è disperante.



La questione dei sacchetti a pagamento – un altro bel disastro all’Italiana. 
Ugo Bardi - Il Fatto Quotidiano


Con la faccenda della nuova legge sui sacchetti a pagamento per la frutta e la verdura ci troviamo di nuovo di fronte all’assoluta ingovernabilità del dibattito. Se su una questione da due centesimi riusciamo a fare un pasticcio del genere, che speranza abbiamo di discutere seriamente di cose importanti, tipo il cambiamento climatico o il degrado sistemico del paese?

Ma andiamo a vedere un po’ meglio la storia dei due centesimi a sacchetto e dell’obbligo che il sacchetto sia biodegradabile. E’ una cosa utile? In principio, si. Sono ormai parecchi anni che si paga qualcosa per i sacchetti della spesa al supermercato. Lo si fa perché sono un fattore di inquinamento importante e si cerca di ridurne l’impatto. Non che il fatto che ogni sacchetto costi qualche centesimo cambi qualcosa, ma se ne sprecano di meno di quanto non sarebbe se fossero gratis. Quindi, niente di strano nell’idea di fare la stessa cosa per i sacchetti trasparenti della frutta e della verdura. Pagandoli, sia pure poco, si presume che gli acquirenti stiano un po’ più attenti a non sprecarli.

Si poteva pensare a qualche altro metodo? Certamente si. La cosa migliore sarebbe stata trovare il modo di eliminare completamente i sacchetti – e non solo quelli della frutta e verdura. Buste di carta, oppure contenitori riutilizzabili possono offrire un alternativa probabilmente migliore. Ci sono molte possibilità che si possono pensare, discutere, e sperimentare.

Invece, la discussione sui sacchetti ha subito debordato nella pura follia. Si è parlato di complotti contro i consumatori, di balzello inaccettabile, di imbroglio del governo per favorire la Novamont che produce i sacchetti e la sig.ra Catia Bastioli, amministratrice. Quest’ultima è stata definita “Renziana di Ferro,” apparentemente soltanto sulla base di aver partecipato come oratore a un convegno alla Leopolda nel 2011.

L’accusa di aver brigato per imbrogliare i consumatori italiani in combutta con Matteo Renzi è decisamente pesante, soprattutto se pensiamo che non è basata su uno straccio di prova. Considerate poi che Catia Bastioli ha nel suo curriculum cose come “Inventore Europeo dell’anno” nel 2007, il premio Giulio Natta nel 2015, lauree honoris causa presso prestigiosi atenei italiani, pubblicazioni, centinaia di brevetti nazionali e internazionali e altre cosette (come potete leggere sulla pagina a lei dedicata su Wikipedia). Ma vedete quanto basta poco per la macchina del fango a mettersi in moto e trascinare via chiunque, anche persone di grandissimo valore.

Onestamente, questa faccenda comincia a diventare preoccupante. Qualsiasi cosa si faccia per cercare di migliorare la gestione dei rifiuti, anche piccola, rischia sempre di finire nel disastro comunicativo. Più che altro, questa la vicenda ci mostra come non siamo più in grado di discutere di niente su basi razionali. Forse non ne siamo mai stati in grado, ma l’irrompere dei social media ha cambiato lo stile della discussone: le opinioni diventano più importanti dei fatti, le illazioni diventano prove, le accuse non provate diventano l’opinione generale, il complottismo spicciolo domina ogni discorso e nessuno si sente più responsabile di quello che dice.

Ora, sui sacchetti da due centesimi l’uno, forse la storia può anche essere vista come una fesseria di poco conto. Il problema è che lo stesso stile di discussione si applica a cose serie – molto serie. Come dicevo all’inizio di questo post, se non riusciamo a discutere in modo razionale, come possiamo sperare di gestire cose da cui dipende la nostra sopravvivenza economica, tipo la gestione finanziaria del paese? Oppure anche la nostra sopravvivenza fisica, tipo il cambiamento climatico? Riusciremo mai ad imparare a ragionare? Possiamo solo sperarlo.

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Messaggio ricevuto il 4 Gennaio 2018


Leggo inorridito il suo articolo sul "Fatto" riguardante i sacchetti biodegradabili. Lei si lamenta che gli italiani si lamentano invece che pensare a cose più importanti.

Quali? Gli scandali governativi? I pasticci e gli inciuci? le "ladrate milionarie" che vengono alla luce ogni giorno? Le banche salvate?

Cosa possiamo fare noi cittadini? Niente! Assistiamo sgomenti ed impotenti al malaffare diffuso, Governo ladro!

E lei si lamenta che noi ci lamentiamo? Ci lamentiamo perché dopo i rincari - mai e semmai mal comunicati - di fine anno per gas, luce, autostrade ed altre tasse nascoste (ma che poi verranno alla luce, basta aspettare un po'), troviamo da ridire anche sui sacchetti. Certo che ci lamentiamo, ci mancherebbe altro, guardi che a pagare siamo sempre noi!

Si vede che lei guadagna bene - professore - e dei rincari se ne frega, ma noi, poveri italiani poveri, non ne possiamo più. Ha capito, Governo ladro?

Acc.... boccaccia mia statti zitta ... mi accorgo ora che lei è di Firenze ... non vorrà mica dire che ...

Mi scuso per prima, come non detto. Governo in gamba!

Alfredo Davolio Marani

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giovedì 4 gennaio 2018

Come il dibattito sul clima è degenerato oltre il rimediabile



A onore di Antonio Zichichi, va detto che probabilmente crede veramente in queste cose che racconta e che le racconta nonostante sappia che fanno danno alla sua reputazione. Il caso di Donald Trump è diverso, nel senso che lui racconta bufale sul clima sapendo che guadagna consensi politici. E questo è il vero problema. (sopra, lo sbufalamento della falsa petizione di Zichichi sul cambiamento climatico)


Uno vorrebbe che il solo problema fosse Trump che si diverte a sparare i suoi tweet tipo "oggi da me fa freddo, quindi il riscaldamento climatico non esiste."

Ma il problema NON è Trump. Lui è solo un furbacchione che ha trovato un modo per prendere per il posteriore gli scienziati. I quali ci sono cascati in pieno - come sempre - affannandosi a spiegare perché Trump ha torto senza rendersi conto che è proprio quello che lui voleva: attirare l'attenzione e guadagnare consensi sfruttando l'odio diffuso per i malefici scienziati che hanno inventato il cambiamento climatico per incassare soldi pubblici.

Il problema vero non è che Trump ha torto. E' che il dibattito è degenerato in modo tale da permettergli sparare scemenze senza conseguenze negative. E' proprio così. Ci sono persone in giro che pensano veramente che Trump abbia ragione. E ci sono per via dell'infinita confusione, della mancanza di cultura, del fatto che si ritiene che un'opinione valga come un fatto.

Un buon esempio: un post di Aldo Piombino si Facebook, dove arriva nei commenti un signore che si identifica con nome e cognome dicendo di essere un ingegnere e racconta che "il modello a partire dal quale è nata la teoria del riscaldamento globale di origine antropica" è stato "poi sconfessato dal suo stesso autore." Alla richiesta di dire quale fosse questo modello e chi fosse questo autore non sa rispondere ma insiste, dicendo che "un ingegnere su queste cose non fa populismo":



Insomma, il tutto è basato su "mi pare di aver letto da qualche parte che....."  E questo è il dibattito su una cosa per la quale ne va di mezzo la sopravvivenza del genere umano.

Com'è che siamo arrivati a questo disastro comunicativo? Si dice che tutto quello che esiste ha una ragione di esistere, ma in questo caso è dura a mandare giù.


lunedì 1 gennaio 2018

Il Picco e Le Capre: qualche riflessione per il 2018




Per prima cosa, vi posso dire che questo "Picco per Capre" di Pardi e Simonetta è veramente un bel libro. Proprio nel senso di ben fatto e curato. Non so se ci avete fatto caso ma, a parte le copertine accattivanti, i libri sono molto meno curati oggi di quanto non fossero anni fa. Gli editori sono disperatamente a caccia del "best-seller", un libro sta in vista negli scaffali per qualche mese al massimo, e allora che senso ha spendere soldi per fare un libro ben fatto? L'importante è che qualche fesso lo compri. Invece qui l'editore, Luciano Celi, ci ha tenuto a fare le cose bene e il risultato si vede.  (fra le altre cose, c'è anche il discorso del "leggere lento" analogo allo "slow food", ma ci torneremo in un altro post)

Poi, ovviamente, non è soltanto una questione di forma, ma di contenuto. E, anche qui, abbiamo un libro di eccellente livello. Come avrete potuto notare se vi capita di leggere i post di Pardi e di Simonetta su questo e altri blog, la classe non è una cedrata al limone. Insieme con il libro precedente di Luca Pardi ("Il Paese degli Elefanti"), abbiamo in Italia due libri completi e aggiornati sulla questione delle risorse naturali. Mentre il primo libro era più specifico sul petrolio, "Il picco per Capre" mette la storia in prospettiva, inquadrando il concetto di picco nel contesto generale dell'evoluzione dei sistemi economici in funzione dei costi di sfruttamento delle risorse.

A questo punto, vi proporrei due riflessioni: la prima non buona, la seconda cattiva. Per cominciare con qualcosa di non buono, questo è un libro che non avrà nessun impatto sul dibattito su come gestirsi la situazione locale, nazionale, e planetaria. Siamo in un momento in cui se qualcuno si azzarda a nominare il concetto di "picco del petrolio" in un dibattito, la reazione sarà di solito qualcosa tipo, "ma era stato previsto già per l'anno xxxx e non c'è stato. Quindi, era tutta una fesseria." Qui, l'anno "xxxx" può essere qualsiasi cosa dal 1930 a pochi anni fa, in ogni caso chi si esprime in questo modo non è normalmente in grado di fornire un riferimento a chi avesse previsto il picco per quel particolare anno e neanche glie ne importa.

Non vi sto a disquisire troppo su questi ameni dibattiti sul "picco" che, per fortuna, si sono fatti molto rari e che comunque è bene evitare per chiunque sappia di cosa sta parlando. Diciamo soltanto che gli studi sul picco hanno dimostrato una discreta capacità predittiva, sicuramente superiore a quelli classici basati sulle teorie economiche correnti. Poi, i "picchisti" hanno fatto alcuni errori, il principale dei quali è stato di focalizzarsi troppo sulle basi geologiche del picco. Questo li ha portati a trascurare la reazione rabbiosa del sistema economico all'aumento dei costi di estrazione. Abbiamo visto la volontà di fare qualunque cosa pur di continuare a produrre liquidi combustibili - non importa se rimettendoci soldi in quantità e facendo danni spaventosi all'ecosistema e a tutti quanti. Ed è stato fatto.

Tuttavia, il sistema ha completamente rifiutato ogni dibattito pubblico sulla questione dell'esaurimento delle risorse, confinandolo a una zona grigia di idee balzane, insieme ai non-allunaggi, le scie chimiche, e i cerchi nel grano. Ci sarebbe da disquisire a lungo sulle ragioni che portano la società a rifiutare in blocco di discutere su ogni idea che la costringerebbe a cambiare qualcosa. Ci possiamo limitare a dire che è parte del modo in cui i sistemi complessi funzionano. Quel sistema che chiamiamo "società umana" ha scarse capacità predittive, per cui tende a ignorare qualsiasi cosa che si trovi in un futuro più remoto di qualche anno.

E questa era la cosa non buona - ora veniamo a quella cattiva. Dicevo che il picco del petrolio (o, più in generale, l'esaurimento delle risorse) non ha cittadinanza nel dibattito standard. Bene - ma è anche vero che ci sono tante cose di cui non si parla in pubblico ma che sono ben presenti nella mente dei decisori politici planetari.

Vi faccio un esempio: vi ricordate della questione delle "armi di distruzione di massa" in Iraq di cui si parlava tanto prima della guerra del 2003. Era rapidamente diventato politicamente scorretto dire che le armi non esistevano o che, perlomeno, non c'era prova che esistessero (io mi ci ero provato e mi ricordo come mi hanno trattato). Tutti ne parlavano come se fossero un problema reale e, in fondo, noi tapini potevamo essere imbrogliati facilmente: come diavolo facevamo a sapere se era vero o no? Ma pensateci un attimo: quelli che hanno deciso di far la guerra all'Iraq dovevano sapere benissimo come stavano le cose, ovvero che le armi erano soltanto un pretesto per la guerra.

Le armi di distruzione di massa erano un esempio di una cosa di cui si parlava, ma che a un certo livello si sapeva che non esisteva. Ora, potrebbe essere il picco del petrolio (delle risorse) un esempio opposto e equivalente? Ovvero, una cosa di cui non si parla ma che a un certo livello si sa che esiste?

Ovviamente, non lo possiamo sapere. Ma una cosa che possiamo sapere è che la mente umana è sempre limitata e spesso imprevedibile. Questo porta i leader a fare degli errori clamorosi. Quale ragionamento aveva spinto Napoleone ad attaccare la Russia nel 1812? Quale ragionamento aveva spinto Saddam Hussein ad invadere il Kuwait nel 1990? E quale ragionamento aveva spinto George W. Bush a invadere l'Iraq nel 2003? In quest'ultimo caso, ci possiamo domandare se il presidente Bush avesse qualche sentore dell'esistenza di qualcosa che si chiama "peak oil" e se questa conoscenza non lo abbia guidato nelle scelte disgraziate che ha fatto.

Non che dobbiamo necessariamente immaginare il presidente degli Stati Uniti che legge la newsletter di ASPO (l'associazione per lo studio del picco del petrolio) - ma anche, perché no? In ogni caso, basta ricordarsi della cosiddetta "dottrina Carter" che risale al 1980 e che stabilisce che le riserve petrolifere degli stati del Golfo sono un interesse strategico tale per gli USA da giustificare un intervento militare nel caso in cui siano minacciate. Una dottrina del genere non avrebbe senso se non in una visione di scarsità di risorse, il che contrasta con l'ottimismo ufficiale che pervade il dibattito.

Tutto questo per dire che le idee sono sempre pericolose quando sono capite male, indipendentemente dal fatto che siano giuste o sbagliate. Ovvero, possono sempre generare delle "soluzioni" che peggiorano il problema,  qualunque esso sia - tipo l'invasione dell'Iraq del 2003. E lo possono fare anche operando dall'interno delle scatole craniche dei decisori, senza necessariamente manifestarsi pubblicamente.

Come un altro esempio, perché il presidente Trump sta cercando così disperatamente di incoraggiare l'estrazione di carbone? Anche qui, se vedete la vicenda nel contesto dell'ottimismo ufficiale sulle risorse petrolifere ottenibili con il "fracking", la cosa non ha senso. Se abbiamo tanto petrolio dagli scisti, come ci raccontano, allora perché spendere soldi e risorse sul carbone? A questo punto, tuttavia, vi potrebbe venire in mente il "rapporto Hirsch" (membro di ASPO) del 2006 che suggeriva di fare esattamente questo: contrastare il picco del petrolio negli USA, fra le altre cose, mediante l'estrazione e la liquefazione del carbone. E' possibile che Trump o qualcuno dei suoi advisors abbia letto quel rapporto e che se ne ricordi? Chi può dirlo?

Via via che scrivo, vedo che la catena del ragionamento che sto facendo mi sta portando verso cose che preferisco evitare, non dico soltanto di scrivere, ma anche di pensare. Mi limito ad accennare al fatto che la questione "picco" (oppure, Dio ci scampi, il "dirupo di Seneca") potrebbe essere interpretata in modo tale da fare enormi danni se finisce nella testa di qualche decisore politico senza essere veramente capita.

Quindi, concludo consigliandovi di leggere questo bel libro di Pardi e Simonetta, fatelo. Fra le tante cose, potrebbe anche farvi venire in mente come mai si fanno certe cose che si stanno facendo al mondo e che, apparentemente, sono prive di senso. E invece potrebbero averlo, anche troppo.

Comunque, buon 2018 a tutti e speriamo bene!