lunedì 26 febbraio 2018

Perché il colibrì è l'animale più pericoloso che esista


Se ve la cavate bene col francese, guardatevi questo clip che racconta non solo la storia del colibrì virtuoso, ma di come vada a finire - si conclude dicendo, "se ragioni con un cervello da colibrì, finisce che ti fregano". (Grazie a Igor Giussani per la segnalazione).


Avete mai sentito raccontare la storia del colibrì e dell'incendio? Va così: c'è un gigantesco incendio che divampa nella foresta. Tutti gli animali scappano salvo un colibrì che si dirige verso le fiamme con po' d'acqua nel becco. Il leone lo vede e lo ferma, chiedendogli, "ma cosa pensi di fare con quella goccia d'acqua?" E il colibrì risponde, "io faccio la mia parte".

Se avete studiato filosofia al liceo, questa storia vi potrebbe far venire in mente che il colibrì è un seguace di Immanuel Kant. Ma, a parte la filosofia di Kant, la morale della storia è spesso interpretata in chiave ecologista. Ovvero tutti dovrebbero impegnarsi nelle buone pratiche per l'ambiente: spegnere la luce prima di uscire di casa, chiudere il rubinetto mentre uno si lava i denti, fare docce brevi per risparmiare acqua, andare in bicicletta invece che in macchina, differenziare i rifiuti con attenzione, eccetera. Sono piccole cose, esattamente come la goccia d'acqua che il colibrì porta nel becco contro l'incendio. Ma, se tutti si impegnano, otterremo qualcosa.

A mio parere, tuttavia, questa storia è una bella bufalata, per non dir di peggio. Più che ammirevole, il colibrì mi sembra un animale molto pericoloso. Ora provo a spiegarvi perché.

Tutto è cominciato qualche settimana fa, quando mi sono trovato a camminare immerso in una nuvola di fumo per la strada, dalle mie parti. Qualcuno aveva pensato che era il momento buono per bruciare una bella catasta di sfalci del suo giardino, generando una gran fumata grigiastra che si era diffusa in mezzo alle case. Sicuramente non una cosa salutare per quelli che abitavano lì vicino.

Ma è legale bruciare roba con grandi fumate nel mezzo di una zona urbana? Tornato a casa, mi sono fatto una piccola ricerca sul Web. Ho trovato che, secondo la legge, si può, ma solo in piccole quantità e con delle restrizioni abbastanza precise. (vedi i link in fondo a questo post).

La legge mi è parsa carente perché non tiene conto delle condizioni di densità urbana e delle condizioni atmosferiche, ma non entriamo in questo argomento. Appurato come stava la faccenda, mi è parso il caso di fare un piccolo post su Facebook in un sito dedicato al comune dove abito. Nel post facevo notare i limiti di legge alle quantità che si potevano bruciare e commentavo come nessuno si preoccupava di verificare che la legge fosse rispettata. Non era niente di più che un invito alla moderazione rivolto in particolare a quelli che affumicavano i loro vicini di casa.

L'avessi mai fatto! Mi sono arrivati improperi e accidenti, financo minacce di querela. La cosa curiosa è che mi sono arrivati in nome dell'ecologia. Bruciare gli sfalci, mi hanno detto, è cosa naturale, l'odore che fanno è buono, i vecchi contadini lo facevano ed è giusto che lo si faccia anche oggi. Così, loro sono veri ecologisti e possono bruciare quello che gli pare, quando gli pare. Invece, io non ho nessun titolo per rompere i cosiddetti con le mie considerazioni "legalistiche." Uno mi ha detto addirittura, "se fai questi discorsi, devi essere proprio una persona infelice!" (giuro, mi ha detto così).

Diciamo che sono rimasto abbastanza stupito di ritrovarmi davanti a un coro di persone tutte d'accordo a esprimere pubblicamente la loro opinione che "a noi, della legge non ce ne frega niente." Questo in un comune toscano vicino a Firenze non particolarmente noto per infiltrazioni mafiose e cose del genere.

Ma non credo che quelli che mi hanno maltrattato verbalmente fossero dei criminali incalliti. Piuttosto, persone che hanno un atteggiamento basato sull'idea che "io faccio la mia parte" (come dice il colibrì della storia). In altre parole, persone che ritengono che il loro impegno nelle buone pratiche ambientali li metta in una condizione di superiorità morale nei riguardi di chi non si impegna altrettanto. Di conseguenza, ritengono di potersi permettere di ignorare certe leggi, per esempio affumicando il loro prossimo bruciando sfalci nel giardino.

Questo atteggiamento lo potremmo chiamare la "colibrizzazione della responsabilità." ovvero che il fatto di essere virtuoso in una cosa ti da il diritto di essere peccatore in un'altra. (Mi sa che sia un problemuccio anche dell'imperativo categorico di Kant, ma non sono un filosofo per cui mi limito a parlare di colibrì).

Una volta entrato in questo ordine di idee, ho trovato che non sono il primo a pensare queste cose. Fra gli altri, lo ha fatto Jean Baptiste Comby nel suo libro "La question climatique. Genèse et dépolitisation d’un problème public" (Raisons d’agir, 2015). Lui non usa il termine "colibrizzazione," ma dice sostanzialmente quello che sto dicendo io. La questione climatica, e in generale ecologica, è stata "depoliticizzata", ovvero trasferita integralmente al dominio privato delle buone pratiche individuali. Quello che succede è che i membri delle classi medio-alte si fanno una piccola innocenza personale prendendosi cura di qualche dettaglio quando, invece, sono quelli che fanno più danni all'ecosistema. Una morale da piccoli borghesi che Cyprien Tasset giustamente chiama "fariseismo verde."

Insomma, a mio modesto parere il colibrì della storia è un bello stronzo: vola sulla foresta, butta la sua gocciolina d'acqua, poi se ne va, contento di aver fatto il suo dovere. E tutti gli animali che non volano muoiono arrostiti.

Cosa che potrebbe capitare anche a noi se continuiamo così.


(h/t Nicolas Casaux)


Per quelli di voi che masticano il francese, ecco un pezzo della recensione del libro di Comby scritta da Cyprien Tasset a http://journals.openedition.org/sociologie/2934#ftn8 grassetto mio. (ah... notate anche che in francese il termine "bobos" indica i "bourgeois-Boheme" - membri della classe medio-alta che si fanno belli col fatto di sentirsi ecologisti.)

Le cinquième chapitre traite du « paradoxe social selon lequel les prescriptions de l’écocitoyenneté bénéficient symboliquement à ceux [qui] sont, en pratique, les moins respectueux de l’atmosphère et des écosystèmes » (p. 16). En effet, les données existantes sur la répartition sociale des émissions de gaz à effet de serre montrent que « plus les ressources matérielles augmentent, plus la propension à détériorer la planète s’accroît » (p. 185). Le capital culturel, qui incline à « se montrer bienveillant à l’égard de l’écologie » et permet d’en tirer des profits symboliques, allant le plus souvent de pair avec le capital économique, il est « sans véritable effet » positif en termes de limitation des émissions (p. 186). Jean-Baptiste Comby a le mérite de poser ce paradoxe sans recourir, comme d’autres sociologues s’y autorisent parfois7, à la catégorie idéologiquement surchargée de « bobos8 ». Cependant, la démonstration qu’il mène en articulant les données existantes sur la répartition sociale des émissions de CO2 (voir tableau p. 178) avec des entretiens collectifs menés dans divers milieux sociaux sur la perception du problème climatique aboutit à mettre en scène un pharisaïsme vert des classes cultivées9, qui n’échappe pas à la surdétermination morale.

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Cosa dice la legge a proposito dell'abbruciamento dei rifiuti

Articolo recentissimo sul sito dell'ARPAT sulla questione dell'abbruciamento dei rifiuti



con tutti i link alla sentenza della corte di Cassazione di Dicembre


 e a un commento approfondito sulla stessa http://www.dirittoambiente.net/file/news_3614.pdf 

L'articolo da rispettare dice: "Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f) 1, effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti." Mentre l'articolo 185 comma 1 definisce attità tipo zone verdi, parchi, eccetera. 

Quindi, bruciare è possibile, ma solo 1) al di sotto delle quantità indicate, 2) nel luogo di produzione e 3) per scopo di ottenimento di concimanti e ammendanti. In sostanza, si possono bruciare residui di giardini in piccole quantità, ma con molta attenzione e spetta a chi brucia dimostrare che quello che ha bruciato non superava i limiti. Altrimenti si va nel penale.



sabato 24 febbraio 2018

Anche Paolo Attivissimo passa alla mobilità elettrica


Paolo Attivissimo è sempre stato a favore dell'auto elettrica, come del resto ti aspetteresti da una persona intelligente e bene informata come lui è. Così, in questo recentissimo post, Attivissimo ci racconta della sua esperienza con la sua auto elettrica, comprata usata. E' un articolo che vi da un sacco di informazioni pratiche su quanto può costare un veicolo elettrico, come gestirlo, vantaggi e svantaggi, eccetera.

Che ci volete fare? Ormai la transizione all'elettrico è inevitabile. Si è convertito persino Marchionne!

Ulteriori informazioni le trovate nel mio libro "Viaggiare Elettrico"


mercoledì 21 febbraio 2018

La rivoluzione elettrica





Ugo Bardi (giacca grigia) e Gianni Girotto (camicia blu scura) sul palco del dibattito sul trasporto elettrico a Montebelluna il 18 Febbraio 2018. Quello che segue è una sintesi di quello che ho detto e che cerca di mantenere il tono discorsivo del mio intervento.



Cari amici, per prima cosa è un piacere essere qui a Montebelluna. Mi sono fatto un po' di chilometri per venire da Firenze, ma ci tenevo a venire e il fatto che io sia qui oggi lo potete considerare come una personale forma di protesta contro la pochezza e lo squallore del dibattito politico per le prossime elezioni. Veramente, fa paura pensare che le decisioni sul futuro del paese possano essere prese sulla base di argomentazioni così di basso livello. E così, ho visto che qui da voi c'è un dibattito serio su argomenti seri e mi è parso il caso di intervenire. Ringrazio per questo il senatore Gianni Girotto che mi ha invitato.

Siamo oggi a discutere sui veicoli elettrici ma anche di argomenti più vasti e complessi come l'energia, il cambiamento climatico, e le materie prime. Il trasporto elettrico è soltanto una parte della grande trasformazione che stiamo vedendo ma, come vi racconterò in questo intervento, è un elemento cruciale di quello che sta succedendo. Su questo, ci lavoro ormai da più di un decennio e recentemente ho scritto un libro che si intitola "viaggiare elettrico" che vi faccio vedere qui.

Cominciamo col raccontare un po' la storia dei veicoli elettrici. Come probabilmente sapete, non è una nuova idea - sono veicoli che sono esistiti in parallelo a quelli a motore termico per molti anni, fin dall'inizio del ventesimo secolo. Avevano un loro mercato perché erano pratici e silenziosi - c'era chi li apprezzava. Poi, dopo la fine della guerra mondiale c'è stato il grande boom petrolifero: il petrolio non costava quasi nulla e non aveva senso continuare ad usare i vecchi veicoli a batteria che erano lenti e avevano scarsa autonomia. Per cui, i veicoli elettrici sono quasi completamente scomparsi.

Poi, è successo un gran rivolgimento con il nuovo secolo. Il prezzo del petrolio ha cominciato ad aumentare rapidamente fino ad arrivare alla famosa soglia dei 100 dollari al barile del 2007. Poi è andato ancora più su, poi è sceso, poi è risalito. Negli ultimi tempi è sceso, ma ora sta risalendo ed è di nuovo su valori che avrebbero fatto gridare al "si salvi chi può" un paio di decenni fa. Insomma, i prezzi vanno su e giù, ma il tempo del petrolio a  meno di 20 dollari al barile - come era negli anni 1990 - non ritornerà mai più.

Poi, ovviamente, è venuto fuori il problema del cambiamento climatico, rapidamente diventato il fulcro di tutti i problemi, quello che ci può semplicemente distruggere tutti quanti se non facciamo niente per evitarlo. Ma non è da trascurare anche l'inquinamento locale dei motori a scoppio. Si, le marmitte catalitiche fanno qualcosa di buono, ma non risolvono niente. C'è stato lo "scandalo Volkswagen" a rendere pubblica una cosa che tutti sapevano: i vari filtri alla marmitta hanno raggiunto i loro limiti pratici. Se vogliamo eliminare l'inquinamento, dobbiamo eliminare il petrolio. Non c'è altra soluzione. 

In parallelo al petrolio che è diventato caro e comunque da eliminare, è venuta fuori una nuova generazione di batterie, quelle al litio. Sono nate più che altro dalle necessità dell'elettronica, telefonini e cose del genere. Ma già dai primi anni del secolo cominciavano ad essere disponibili per i veicoli stradali. E con queste batterie si risolveva il problema principale dei veicoli elettrici: quello delle vecchie batterie al piombo, pesanti e di bassa autonomia. Le batterie al litio sono rapidamente scese di prezzo - è vero che rimangono un po' costose ma, insomma, sono batterie pratiche che permettono di fare qualche centinaio di chilometri di autonomia. Questo rende il veicolo utilizzabile in pratica, anche se fare lunghi viaggi richiede ancora un po' di organizzazione.

Quindi, sono almeno 10 anni che i nuovi veicoli elettrici si sono affacciati sul mercato. Andavano bene, ma soffrivano del fatto che erano un po' artigianali. Molti erano fatti in Cina e se ordinavi dei pezzi di ricambio non sapevi mai se ti arrivava la batteria che volevi oppure un piatto di involtini primavera. Poi, mancavano i punti di ricarica e se abitavi al terzo piano ti toccava tirare giù una prolunga fino alla strada e non era cosa molto pratica. Insomma erano trabiccoli destinati a un mercato di nicchia di persone un po' strampalate,

Poi, è arrivato Elon Musk con la sua Tesla e tutto è cambiato. Per prima cosa, niente più trabiccoli, ma una macchina che è un oggetto di desiderio: alla pari con le macchine più belle dei costruttori tradizionali - ma migliore e più evoluta. Poi, una rete di punti di ricarica che ha reso la macchina elettrica una cosa pratica anche per viaggi su medie e lunghe distanze. Ed è stata la rivoluzione.  Il veicolo elettrico è letteralmente esploso sul mercato. C'è ancora gente che borbotta che preferisce i vecchi motori a scoppio, ma ormai la transizione non si ferma più. Lo ha detto persino Marchionne, e questo vuol dire qualcosa!

Ora, in molti casi ci immaginiamo il veicolo elettrico soltanto come una versione più silenziosa e meno inquinante delle automobili tradizionali. A parte il ronzio invece del rombo, cosa cambierebbe? Ma in realtà non è così. Il veicolo elettrico è soltanto parte di un cambiamento in tutto quello che ha a che fare col trasporto. Un cambiamento epocale. Un cambiamento che influirà pesantemente su tutta la società.

Prendete un telefonino cellulare. Lo chiamate telefono? Certo, è vero che può anche telefonare. Ma vi rendete conto di quante altre cose può fare? E' tutta un'altra cosa. E' lo stesso per la Tesla - sembra un'automobile, e lo è. Ma è anche un computer su ruote che sta sempre connesso in rete, un sistema elettronico complesso e potente. Questo porta a una serie di cambiamenti importanti. Non pensate per il momento alla macchina che si guida da sola. Per questo ci vorrà ancora molto tempo, non tanto per ragioni tecniche ma per ragioni giuridiche e politiche. E' il fatto del veicoli connessi in rete che cambia le cose. E' la fine del veicolo privato - è l'arrivo del concetto di "Trasporto come servizio" (TCS, o TAAS in inglese). Cambiano le cose, cambia l'uso del veicolo, cambia il modo in cui lo vediamo. Avremo meno veicoli ma li useremo in modo più efficiente. Diminuiranno gli ingorghi e i parcheggi non saranno più un problema.

Fra le altre cose, si sta affacciando il concetto di "platooning" nel campo del trasporto di merci che trasforma i singoli veicoli in veri e propri "treni su strada" con grossi risparmi di materiali e soprattutto di manodopera. E' un risparmio ma anche un problema: si parla di centinaia di migliaia di posti di autista che vanno a sparire solo in Italia. Ma è anche un'opportunità se riusciamo a gestirla e non soltanto a subirla.

Ci sono tantissimi cambiamenti in arrivo, per ora mi limito a farvi notare come lo sviluppo dei veicoli elettrici stradali ci può aiutare enormemente nella transizione verso le energie rinnovabili. Quello che sta succedendo oggi è che stiamo investendo nella transizione, ma non abbastanza. Se non aumentiamo il livello degli investimenti non ce la faremo a sostituire i fossili prima che il cambiamento climatico ci spazzi via tutti quanti. Ma le leggi del mercato finanziario sono quelle che sono: al mercato non glie ne importa niente se la gente muore, vede solo i profitti immediati. Però, se riusciamo ad incrementare la domanda di energia elettrica con la diffusione dei veicoli elettrici, allora nasce un nuovo mercato: non ha senso continuare a estrarre fossili per fare energia elettrica-- le rinnovabili sono già competitive. Allo stesso tempo, la diffusione di veicoli elettrici va a diminuire drasticamente la domanda di combustibili liquidi. I due effetti si potrebbero combinare insieme per far crollare l'industria fondata da Sauron, l'industria del petrolio. E questo ci potrebbe salvare dal cambiamento climatico.

Insomma, siamo in un bel momento. Se riusciremo ad accettare il cambiamento invece di cercare disperatamente di evitarlo (come avviene di solito), abbiamo la possibilità di un buon futuro per tutti. E per accettare il futuro, abbiamo bisogno di capirlo. Per capirlo, abbiamo bisogno di discuterne. Ed è quello che stiamo facendo stasera. Quindi, grazie ancora per la vostra attenzione, e andiamo avanti verso il futuro.












venerdì 16 febbraio 2018

Le ragioni della sconfitta del PD spiegate da un marziano




Scusate per questo post un po' fuori dagli argomenti "normali" di questo blog. Il fatto è che ieri sera mi sono trovato, un po' per caso e un po' per curiosità, a un evento di presentazione dei candidati del PD per le prossime elezioni, qui a Firenze.

Ora, premetto che non guardo la televisione e non leggo i giornali. Per cui, sono arrivato a questo evento un po' come un alieno appena atterrato da Marte. Quindi, vi racconto le mie impressioni - la principale delle quali è che il PD perderà queste elezioni - e questo lo sanno anche su Marte.

Ho ascoltato le presentazioni di un certo numero di persone del PD che mi sono parse competenti e bene intenzionate. Il problema non è quello. Il problema è che tutto il dibattito politico è stato su due soli argomenti: immigrazione e sicurezza (a parte un assessore che ha parlato di commercio, brava, ma non era una candidata).

Ora, non so se qualcuno dei grandi pensatori di strategia del passato abbia detto esplicitamente che se lasci il nemico scegliere il campo di battaglia, allora hai perso in partenza (di sicuro, lo si evince da Sun Tzu). Qui, i candidati del PD hanno lasciato scegliere gli argomenti di discussione ai loro nemici, e hanno perso in partenza.

Abbiamo sentito i candidati del PD dichiarare varie cose, parzialmente in contraddizione fra di loro. In parte, hanno cercato di dire che sono più cattivi di quelli della destra (con noi ci sarà più polizia, più telecamere, più repressione, più galera etc.). Ma anche sulla difensiva, criticando le statistiche della destra e dicendo che, in fondo, la situazione non è così male come la destra la dipinge. E comunque c'è il problema della sicurezza, dell'immigrazione - certo, non dobbiamo far venire gli immigrati, però è anche vero che se vengono ci fanno comodo. E via così.

Ora, per un marziano seduto nell'ultima fila della saletta dove si facevano questi ragionamenti, il tutto è apparso sostanzialmente privo di senso. Questi qui stanno finendo le risorse, sono in balia del cambiamento climatico, dipendono dalle importazioni per cibo ed energia, sono sovrappopolati, hanno disastrato il territorio, cementificato le terre fertili, intubato i fiumi, hanno avvelenato tutto quello che potevano avvelenare, sono schiacciati dalla concorrenza globalizzata e altre cosette. E di tutto questo non ne parlano minimamente?

E questo sarebbe il loro meccanismo decisionale? Quello che chiamano "democrazia" e del quale sono tanto orgogliosi? Dal punto di vista dei Marziani, verrebbe voglia di invaderli e sterminarli, come nella "Guerra dei Mondi" di Wells. Ma non ne vale nemmeno la pena -- questi si sterminano da soli.

Marziani a parte, quello che stupisce è come la destra stia completamente dominando il dibattito, non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti e un po' ovunque. Com'è che la sinistra fa sempre gli stessi errori? Ci deve essere una ragione per la quale a Berlusconi I è succeduto Berlusconi II (detto anche Matteo Renzi). E ora siamo talmente ridotti male che deve ritornare Berlusconi I. Come è possibile?

Difficile dire cosa sia successo. Può darsi che quelli di destra siano più furbi di quelli di sinistra? Onestamente, non mi pare una regola generale. Ma quelli di destra hanno capito molto meglio i meccanismi di come farsi eleggere secondo quella cosa che è diventata la democrazia, oggi. E' sempre stato vero che vince chi urla di più, ma ora è diventata una regola assoluta - ogni traccia di razionalità nel dibattito è scomparsa da un pezzo. E quelli che hanno capito la regola, la sfruttano. Quelli che non l'hanno capita, la subiscono. E quelli che votano, non se ne accorgono.

E, alla fine dei conti, c'è una ragione per cui milioni di persone quardano i telegiornali tutti i giorni, mentre meno di un migliaio cliccano sul blog "Effetto Cassandra". Forse sono tutti marziani.






lunedì 12 febbraio 2018

I Limiti dei "Limiti dello Sviluppo"



Di Igor Giussani

16 novembre 2017

Qualche giorno fa su Facebook Fabio Saracino mi ha segnalato un’interessante intervista di un paio di anni fa a Dennis Meadows, che poi ho scoperto essere stata tradotta in italiano da Massimilano Rupalti e pubblicata sul blog Effetto Cassandra di Ugo Bardi. Per chi non lo sapesse, Dennis Meadows è uno dei tre ricercatori del MIT – insieme alla moglie Donella Meadows, scomparsa prematuramente nel 2001, e a Jorgen Randers – autori della ricerca commissionata dal Club di Roma e poi pubblicata sotto forma di libro con il titolo di The limits to growth (I limiti dello sviluppo nell’edizione italiana). Ho trovato molto interessante l’intervista perché, a mio giudizio, sintetizza perfettamente sia le grandi intuizioni che i limiti del pensiero ecologico legato al Club di Roma.

Per quanto riguarda i meriti, probabilmente non basterebbero centinaia di pagine per rendere onore agli sforzi del team del MIT: sono stati veri e propri pionieri della dinamica dei sistemi, implementando un sistema di analisi che ancora oggi per la sua raffinatezza viene scarsamente compreso da gran parte della scienza ancorata a paradigmi tradizionali. Dopo essere stati oggetto di innumerevoli critiche – spesso volgari e violente – alla fine è venuto fuori che le loro previsioni erano corrette; rimando al capitolo ‘Limiti dello sviluppo o dell’intelligenza?’ di Insostenibile. Le ragioni profonde della decrescita. dove ho cercato di confutare l’insensatezza di gran parte delle denigrazioni ricevute. In questa sede, riporto semplicemente una frase dell’intervista che dimostra come il pensiero di Meadows sia una spanna sopra l’ecologismo convenzionale:

Supponiamo di avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori. Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine della crescita.
Il ‘cancro del pianeta’, ovviamente è la ricerca della crescita continua su di un pianeta finito, tema molto caro a noi decrescenti.

Anche la successiva constatazione è particolarmente degna di nota:
Lavoriamo solo sugli aspetti tecnici ma trascuriamo del tutto il fattore relativo alla popolazione e crediamo che il nostro standard di vita migliorerà o almeno rimarrà invariato. Ignoriamo la popolazione e gli elementi sociali dell’equazione, e ci focalizziamo totalmente sulla soluzione degli aspetti tecnici del problema. Falliremo, perché la crescita della popolazione e gli standard di vita sono molto più rilevanti di tutto quanto possiamo risparmiare con una migliore efficienza o con le energie alternative. Pertanto, le emissioni di CO2 continueranno a salire. Non ci sarà soluzione al problema dei cambiamenti climatici se non affronteremo i fattori sociali che ne sono alla base.
A dirla tutta, il pensiero ecologico ispirato a I limiti dello sviluppo – che a torto o a ragione potremmo definire ‘malthusiano’ – ha per lo più totalmente ignorato la questione degli elementi sociali nella problematica ecologica; anzi, ricollegandomi all’ultimo pezzo che ho scritto per DFSN Aboliamo l’umanità, le responsabilità sono state per lo più ricercate in presunte caratteristiche intrinseche al genere umano. Dai prossimi estratti dell’intervista si evince chiaramente come Dennis Meadows non si discosti da lì:
E’ il problema fondamentale. Se in un villaggio chiunque può pascolare il suo gregge su un prato rigoglioso (aperto a tutti, N.d.T.) – chiamato in inglese arcaico “Commons” – entro poco tempo ne beneficeranno soprattutto quelli che scelgono di avere più bestiame. Ma se si va avanti in quel modo troppo a lungo, l’erba finisce e con quella tutto il bestiame…
Dovrebbe cambiare la natura dell’uomo. Siamo tuttora programmati come 10.000 anni fa. Visto che uno dei nostri antenati poteva essere attaccato da una tigre, non si poteva preoccupare del futuro ma solo della propria sopravvivenza. La mia preoccupazione è che, per motivi genetici, non siamo adatti a fare i conti con problemi di lungo termine come i cambiamenti climatici. Fino a che non impareremo a farlo, non ci sarà modo di risolvere problemi simili. Non c’è niente che possiamo fare. La gente dice sempre: “Dobbiamo salvare il pianeta”. No, non dobbiamo.
E’ curioso come, nelle visioni malthusiane, l’entità ‘uomo’ compaia solo nelle versioni ‘cavernicolo’ e ‘industrializzato’, ignorando completamente svariati millenni di storia. Nella prima parte della citazione Meadows fa chiarimente riferimento alla cosiddetta ‘tragedia dei Commons’ di Garret Hardin, omettendo anch’egli il non trascurabile fatto che tale situazione si verifica solo se la mentalità industriale della crescita esponenziale si sostituisce a quella della conservazione che ha caratterizzato per secoli la gestione dei commons. Se esaminiamo le società umane prima dell’avvento dell’industrializzazione, spesso esse erano totalmente concentrate sul futuro; Jeremy Rifkin in Entropia e Donella Meadows (pensatrice che ritengo superiore al suo pur ottimo marito) in Thinking Systemshanno fatto un parallelo tra i proverbi della tradizione contadina e dell’economia domestica con le leggi della termodinamica, evidenziando come la saggezza popolare spesso non sia altro che una versione molto semplificata e grossolana di complessi concetti della fisica. Le civiltà contadine vantavano una genetica diversa dalla nostra? Ne dubito, più probabile che fosse radicalmente diversa la cultura che influenzava la visione del mondo. E se c’è stato un certo interesse per lo studio dell’ascesa e del declino di grandi civiltà del passato, perché sono state quasi completamente ignorate quelle società – come i masi alpini o l’isola di Tikopia, per fare un paio di esempi – le quali sono state capaci di efficaci politiche di restrizione dei consumi e addirittura di controllo demografico? Perché, invece di tirare in ballo a sproposito la genetica, non si è investigato sui rapporti di potere che hanno consentito l’instaurarsi di pratiche talmente virtuose a fronte di scarse o nulle nozioni di ecologia?

Nella parte finale dell’intervista, Meadows si produce in una breve riflessione politica, definendo la democrazia “un esperimento socio-politico molto giovane” che “produce soltanto crisi che non è in grado di risolvere”, paventando l’ipotesi dell’avvento di una rigida dittatura che si faccia carico di affrontare le emergenze ambientali. Personalmente, ritengo che su questo versante sia più attendibile un altro noto esponente del mondo ecologista, l”arcidruido’ John Michael Greer. Nel libro La lunga caduta (in corso di traduzione e pubblicazione per Lu::Ce edizioni) rimarca il fatto che le attuali forme politiche statuali, presentino esse caratteristiche elettorali o dittatoriali, traggono la forza – e di conseguenza anche la debolezza – dallo smisurato approvigionamento energetico reso disponibile dai combustibili fossili e dal petrolio in primis, cioé qualcosa che non può sopravvivere al picco degli idrocarburi, oramai alle porte. Ecco quindi che, invece della ‘oligarchia elettorale’ (così Greer definisce la liberaldemocrazia) o di improbabili fascismi ecologici, potrebbe aprirsi la porta per una riscoperta della democrazia basata su organizzazioni di prossimità e mutuo-aiuto alla maniera delle comunità cittadine nordamericane descritte mirabilmente da Tocqueville in Democrazia in America, quelle che propugnavano un american way of life incentrato sul senso della misura ben diverso dal consumismo esploso nei ‘ruggenti anni Venti’ e proseguito nelle sue degenerazioni fino a oggi. Possibile che questo recupero della dimensione comunitaria e diretta della politica, invece del meccanismo della delega, alla maniera delle riunioni claniche di Tikopia, possa servire per attuare quelle strategie decisive contro il collasso ambientale che oggi sembrano tanto inattuabili?

Solo il futuro potrà dircelo. E’ invece certo che la scienza legato alla studio dei limiti dello sviluppo è uno strumento prezioso e fondamentale per comprendere il mondo e capire che cosa possiamo ragionevolmente permetterci in termini materiali e che cosa no, ma si tratta di uno strumento tecnico che non può funzionare da guida morale o da motore di cambiamenti politici (almeno di quelli auspicabili). Non a caso, Donella Meadows parlava della necessità della ‘visione’, avendo purtroppo capito che ‘tirare a campare’, sopravvivere per sopravvivere, non sono incentivi né per sostenere grandi cambiamenti sociali né per giustificare l’esistenza personale, come dimostrano purtroppo i numerosi casi di suicidio di persone che non riescono a dare un senso alla propria esistenza. Per quanto possa sembrare un imperativo categorico senza appello, anche ‘salvare il pianeta per salvare il pianeta’ potrebbe dimostrarsi solamente un ottimo incentivo per pessimi propositi.

Forse, se oltre agli indispensabili approcci alla sostenibilità si discutesse sul senso di una società che, tanto aumenta la sua distruttività sulla biosfera, tanto più si rivela autoreferenziale (crescita per la crescita, lavorare per lavorare, ecc) allora potremmo trovare la base per quella quadratura del circolo che oggi sembra tanto lontana tra scienza ecologica e cambiamento sociale. Riscoprire una dimensione che sappia riscoprire un controllo sulla propria esistenza e sulla propria comunità contro l’alienazione da megamacchina potrebbe rivelarsi un potente incentivo. A tale scopo sarebbe altresì opportuno mettere da parte un armamentario socio-biologico deterministica che puzza di stantio e ragionare sulla formazione dei modelli mentali del mondo, che occupano un ruolo di primo piano nell’analisi de I limiti dello sviluppo ma che sembrano essere stati completamente ignorati da alcuni suoi presunti estimatori.

“Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l”intellighenzia’ artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò non pertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno atto ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo” . (Aurelio Peccei)



mercoledì 7 febbraio 2018

Decrescita Controllata: E' Ancora Possibile?


"2 METE": un modello dell'Univestità di Pisa per la decrescita.

di Jacopo Simonetta

Il 4 ottobre scorso  il “Movimento Decrescita Felice” e la “Associazione Italiana Economisti dell’Energia” hanno organizzato a Roma, in Campidoglio, un’interessante convegno dal titolo: “Modelli per la valutazione dell'impatto ambientale e macroeconomica delle strategie energetiche”   (qui il link al sito per consultare tutte le relazioni).

Questo è il secondo articolo dedicato a quella giornata; per il primo si veda qui.

Il Modello.

Il titolo completo è: “Modello di Macroeconomia Ecologica per la Transizione Energetica (2METE): Scenari alternativi per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale.” 

E’ molto complesso: considera infatti oltre 400 variabili endogene, 200 tra parametri e valori di input esterni,  25 riserve (stock).  Per ogni settore economico, si da particolare rilevanza al capitale fisico, il salario, la produttività del lavoro, l’efficienza energetica.

Il presupposto su cui è stato costruito il modello è “fortemente keynesiano” (per citare gli autori).  Vale a dire che si ipotizza sia la domanda a determinare l’offerta.  Un punto questo molto dibattuto, ma che personalmente mi pare coerente con un quadro macroeconomico di stagnazione in atto.  E’ vero, infatti, che si possono verificare problemi anche molto seri di scarsezza di determinate risorse (in effetti sta già accadendo).  Così come si sta verificando un problema di degrado delle risorse in entrata al sistema economico come conseguenza dell’eccessivo flusso di rifiuti in uscita (proprio il cambiamento del clima è uno degli esempi maggiori in questo campo).   Tuttavia, oramai perfino il FMI dice che stiamo entrando in un periodo di stagnazione o recessione economica secolare, particolarmente nei paesi cosiddetti “sviluppati”; ciò significa che saranno probabilmente più frequenti i casi di contrazione della domanda che quelli di contrazione dell’offerta.  Specialmente all’interno di una strategia “decrescista” come quella prospettata dallo studio.
 


La struttura è riassunta nella figura e, come si vede, concede molto spazio alle dinamiche interne del sottosistema economico. In particolare distinguendo tre settori fra loro correlati: il settore dei beni di consumo finali tradizionali, il settore dell’economia locale e sociale e il settore di “produzione” di energia. 

Quest’ultima a sua volta disarticolata secondo le diverse fonti.
Viceversa, le dinamiche ecologiche del meta-sistema all'interno del quale evolve l’economia rimangono sullo sfondo, anche se, punto molto qualificante, si tiene conto del fatto che il consumo di beni e servizi, comunque prodotti, genera degli impatti ambientali e, dunque, un degrado degli ecosistemi.

Un punto debole sono anche che le dinamiche demografiche che vengono trattate semplicemente  prendendo come dato la previsione dell’ISTAT, malgrado si tratti di un dato molto più politico che scientifico. 

Questi sono limiti molto forti che non consentono di usare il modello per delineare scenari sull'evoluzione complessiva del sistema ambientale-sociale-economico in Italia o in Europa.  Ma occorre tener presente che NON è questo lo scopo del modello.  “2METE” è stato concepito con uno scopo molto più limitato e cioè confrontare la probabilità di raggiungimento degli obbiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti seguendo strategie diverse.   Vale a dire, se a parità di tutte le altre condizioni, il solo investimento in efficienza energetica e rinnovabili è presumibilmente sufficiente o meno.

La risposta è chiara e, a mio avviso, affidabile: NO.  Obbiettivi di riduzione delle emissioni così importanti sono conseguibili solamente prendendo anche una serie di provvedimenti che riducano sensibilmente i consumi finali, dunque il PIL totale e pro-capite.

Risultati.

Come accennato, scopo del modello è quello di verificare se gli obbietti di riduzione delle emissioni climalteranti, decisa dall’UE, possono essere effettivamente raggiunti entro il 2050, come da programma (prima meta). 

 Contemporaneamente, verificare quali impatti ciò avrebbe sui parametri macroeconomici principali (seconda meta).

Il modello confronta tre diversi approcci al tema, verificando quali tendenze si innescherebbero, dati i presupposti di crescita economica stabiliti dal governo (peraltro alquanto ottimisti).   Dunque non dice, né pretende dire, cosa accadrà, poiché non possiamo sapere in quale contesto reale saranno attuate le decisioni del governo.   E’ tuttavia molto, molto interessante perché, a parità di altri fattori, ci dice quale delle strategie considerate è potenzialmente più vantaggiosa.

Dunque, le strategie valutate sono tre:

Business as usual - BAU - colore blu nelle figure. Genera la dinamica del sistema date le politiche attuali sia in termini di risparmio energetico, sia di scelte socio-economiche.

Green Growth - GG - colore rosso. Si propone di raggiungere i target stabiliti prendendo spunto sia dalle politiche discusse nella letteratura di “green growth”, sia dalle discussioni emerse nella Strategia Energetica Nazionale (SEN) 2017.  In particolare, spingendo sull’aumento dell’efficienza energetica e dell’automazione, oltre che sullo sviluppo delle energie rinnovabili.

DeGrowth - DG - colore verde. Sul piano energetico prevede gli stessi interventi di cui sopra, ma meno spinti; mentre prevede di ridurre l’efficienza produttiva, contenendo l’automazione e riducendo gli orari lavorativi.  Inoltre, prevede cambiamenti significati sulle politiche fiscali e sullo sviluppo dell’economia locale.


I risultati dello scenario BAU sono piuttosto scontati: l’obbiettivo di riduzione al 20% delle emissioni di CO2 viene ampiamente mancato, mentre aumentano le disparità sociali e la dipendenza dal commercio globale.   Dunque una qualità media della vita in diminuzione, malgrado una crescita del PIL.

I risultati dello scenario GG sono più interessanti.  Mostrano infatti come il massiccio investimento in energie rinnovabili e tecnologia, in assenza di limiti al consumo, tenda a ridurre le emissioni, ma in misura largamente insufficiente, mentre la disoccupazione aumenta e con essa le disparità sociali.

La ragione principale di questo risultato, assente in altri modelli, è che “2METE” tiene espressamente conto del cosiddetto “effetto rebound” (alias Paradosso di Jevons): una legge empirica dell’economia secondo cui l’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse provoca un aumento dei consumi.

Importante è anche che il modello evidenzia come, incrementando comunque i consumi finali, non si arresta il degrado ambientale.
Anche lo scenario DG prevede un forte investimento in efficienza energetica e fonti
rinnovabili elettriche, ma in misura minore rispetto allo scenario GG.   In compenso, prevede altri interventi tesi a ridurre i consumi finali (e quindi il PIL), mentre sviluppa una quota crescente fino al 30% di beni e servizi prodotti localmente.

Dunque, a parte l’investimento in efficienza dei consumi e rinnovabili, le principali politiche che contraddistinguono lo scenario DG sono:

Riduzione dell’orario di lavoro di circa il 30% tra il 2018 e il 2050 (una riduzione annuale media di circa l’1%).

Riduzione degli stipendi mensili, ma aumento di quelli orari.

Parziale spostamento delle quote di spesa delle famiglie e del settore pubblico a favore dell’economia locale.

Aumento della tassazione sui profitti distribuiti dal 42% al 52% in 15 anni.

Aumento del rapporto spesa pubblica PIL, dall’attuale 21% circa al 24% (nel 2050).

Riduzione degli investimenti pubblici in automazione.

Minore riduzione del rapporto salario medio pensioni che passa dal 70% circa, al 62% contro il 53,2% in BAU e GG.


Conclusioni.

L’aspetto interessante del modello “2METE” è che mostra come la battaglia per ridurre le emissioni climalteranti sia perduta in partenza, a meno che non si perseguano politiche efficaci per ridurre, anziché aumentare il PIL.   Un anatema assoluto questo, in un mondo in cui l’aumento costante del PIL rappresenta oramai un’ossessione totalizzante.

Certo, lo scenario DG, da solo, non rappresenta una traccia sufficiente per immaginare un futuro
sostenibile, ma è abbastanza per indicare che una lieve e costante contrazione del PIL è compatibile sia con la sopravvivenza dell’economia industriale, che con una società più equa e stabile di quella attuale. 

 Probabilmente non è però compatibile con il sistema monetario internazionale e con l’intero castello della finanza: dal debito di tutti i tipi ai fondi pensione, fino ai risparmi ed ai patrimoni piccoli e grandi.   Non si può pensare di cambiare parti di un sistema totalmente integrato senza cambiarle tutte e, credo, che oggi l’ostacolo pratico principale ad una vera svolta sia rappresentato proprio dalla necessità di
eliminare il debito, cosa che comporterebbe la contemporanea scomparsa del denaro e, dunque, la necessità di ricostruire da zero un intero sistema finanziario e monetario.   Un’impresa forse impossibile, ma cui prima o poi dovremo comunque mettere mano, per forza di cose.

giovedì 1 febbraio 2018

Virtuosismo demografico: al di là della crescita




Un post di Natan Feltrin (da "Mimesis")  





Di Natan Feltrin


«Anyone who believes that exponential growth can go on forever in a finite world is either a madman or an economist».

Kenneth Ewart Boulding



24 dicembre 2017, ore 16:57. Il World Population Clock, nel suo fluire senza tregua, segnala che sul pianeta Terra il numero di esseri umani ha raggiunto la vertiginosa cifra di 7.442.832.829. Quando per la prima volta impugnai la penna per descrivere le problematiche insite nella crescita demografica erano le 13:35 del 17 agosto 2016 e la popolazione umana contava 7.344.937.428 di individui. In questo umano lasso di tempo si sono aggiunti 97.895.401 di coinquilini su Gaia. Quasi 98 milioni!

Una cifra maneggiabile mentalmente, ma difficile a rappresentarsi nel concreto. Forse, dopo aver preso ad uso parlare di miliardi, tale quantità umana può non suonare così “decisiva” per le sorti politiche, economiche ed ecologiche globali, ma un siffatto considerare sarebbe una grave leggerezza. Onde essere più esemplificativi, si potrebbe dire che al banchetto del mondo si è aggiunta una Germania e più. D’altronde, sarebbe inesatto considerare questa aggiunta demografica come una “Germania”. Difatti, il motore rombante di questo trend globale non sono i paesi del “primo mondo”, ma le nazioni in cui il tenore di vita occidentale è ancora lontano quali il Niger, l’Afghanistan, il Burundi…, il cui tasso di fecondità totale si aggira attorno ai 7 figli per donna.

Con molto cinismo si potrebbe asserire che “fortunatamente” i nuovi arrivati non hanno tutti le prospettive di vita di un tedesco medio. Questo perché, stando al Global Footprint Network, se l’intera popolazione umana vivesse secondo gli standard di un paese sviluppato come la Germania occorrerebbero 3,2 pianeti Terra per soddisfare questa appagante way of life. Se, invece, tutti ambissero al sogno del consumismo made in USA allora si renderebbe necessaria la biocapacità di ben 5 pianeti blu! Considerata una popolazione superiore ai sette miliardi e tenuto conto di preoccupanti limiti ecologici, come iplanetary boundaries suggeriti dallo Stockholm Resilience Centre, il fatto che allo stato attuale siano necessarie 1,7 Terre per sostenere la presente biomassa umana dovrebbe far suonare un campanello di allarme. Al contrario, sebbene i prospetti delle Nazioni Unite prevedano 9,8 miliardi nel 2050 e 11,2 miliardi nel 2100, le poche voci che si levano a gridare “population matters” vengono additate come neomalthusiane e nemiche dell’umanità.

Del resto, nonostante la cattiva distribuzione del benessere nell’ecumene sia palese e più dell’11% della popolazione soffra la fame, l’unico imperativo capace di far bucare lo schermo a politici ed opinionisti d’ogni partito e ideale è quello della “crescita”. Sembra che ogni diagnosi sul corpo malato della società globale sia, da anni, sempre, faziosamente, la stessa: crisi economica. Come curare questo male “morale”? Beh, semplice: tornare a crescere, crescere, crescere e, se il motore dell’economia si inceppa, nuova benzina dovrà essere trovata in una iniezione di biomassa umana. Così quando paesi la cui denatalità, in un contesto di Netherlands fallacy,dovrebbe essere un segno di speranza per un futuro più “sostenibile”, questo baby bust si trasforma in una colpa sociale. Colpa sociale il cui rimedio intraprende due vie sinistre ed antitetiche: da un lato politiche popolazioniste e nazionaliste che, in casi estremi, trasformano i ventri femminili in strumenti bellici, come nella “guerra demografica” tra israeliani e palestinesi, dall’altro politiche di immigrazione incontrollata che spesso trattano gli individui umani come numeri su un grafico non capendo, e non volendo vedere, il rischio insito in questa dematerializzazione umana.

Come scrive il professor Andrea Zhok «è un’illusione immaginare che le persone possano muoversi come tra vasi comunicanti, spostandosi sul pianeta in tempo reale, seguendo le esigenze correnti dell’economia e del sostentamento, in modo simile a come si muovono la moneta elettronica o i titoli azionari da un paese ad un altro: una pericolosa illusione».

La demografia sembra essere ontologicamente non neutrale alle sorti del mondo, da tempo immemore il pendolo dell’opinione dotta è oscillato tra quelle che il Professor Scipione Guarracino ha chiamato la paura del “deserto” e del “formicaio”: le popolazioni umane sono sempre state considerate troppo numerose e prolifiche o troppo poco dense e fertili. Queste paure, più o meno fondate, si sono concretizzate storicamente in azioni politiche determinate che vanno dal popolazionismo degli Asburgo nel diciassettesimo secolo a quello dell’Italia fascista, dalle distopie dell’eugenetica alla politica del figlio unico cinese.

Ad inizio XXI secolo, però, una coscienza dei limiti planetari rende oggettivamente irrazionali politiche di incentivo alla crescita demografica in un pianeta sempre più “stretto” nella morsa di una feroce monocultura umana. La Terra da un punto di vista termodinamico non è un sistema chiuso e nemmeno isolato, ma finito. Perciò, seppure grazie al Sole possa garantirsi una omeostasi energetica, non possiede risorse illimitate e, di conseguenza, una condizione di Netherlands fallacy a livello globale sarebbe tautologicamente impossibile.

Terminata la corsa al land grabbing e raggiunto un livello di EROEI (Energy returned on energy invested) negativo dei combustibili fossili per il quale il petrolio non sarà più un bonus energetico, sfamare l’intera umanità diventerà un compito prometeico, qualcosa al di là delle possibilità dell’umano. Seppur esistano molteplici soluzioni auspicabili di efficienza energetica e di gestione degli sprechi, che non aver già intrapreso è un vero crimine contro l’umanità e l’intelligenza, queste dovranno scontrarsi con una realtà ecologica drammaticamente cangiante. La pesante macchina economica non potrà solo attuare un tardivo greenwashing basato su energie rinnovabili e tecnologie a presunto “impatto zero”, ma dovrà fronteggiare i costi che la manutenzione di una biosfera danneggiata porterà seco. Dunque all’investimento nella transizione energetica, obiettivo forse dell’industria 4.0., si dovrà aggiungere un pedaggio di cui il global warming è solo l’aspetto più “ chiacchierato”.

Alla cupa luce di queste allarmanti considerazioni occorrerebbe ridefinire il concetto di “virtuosismo demografico” slegandolo dai binari di una economia il cui fine è un dismorfico accrescimento del PIL per armonizzarlo al canovaccio di futuribili prosperi sostituendo ad una cronica crescita malata un’idea di sviluppo del benessere all’interno di un oikos florido e resiliente.