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venerdì 23 settembre 2016

LA CASCOLA DEL CAPITALE



La cascola è un fenomeno ben conosciuto dai contadini: si dice così quando gli alberi lasciano cadere i frutti ancora acerbi o addirittura i fiori.   Questo avviene quando all'inizio della fioritura le condizioni sono ideali: clima mite, acqua abbondante, terreno fertile, pochi parassiti, ecc.   Poi, in un momento qualunque prima della maturazione, tutta o buona parte della produzione cade a terra, precipitando il proprietario in depressione.    A maggior ragione perché, di solito, questo avviene proprio negli anni in cui tutto lasciava sperare un eccellente raccolto.

Di volta in volta la causa diretta è diversa.   Può trattarsi di un improvviso colpo di freddo o di caldo, dell’arrivo di un parassita, di una siccità (come questo anno) e molto altro ancora.   Ma dietro tutto ciò vi è sempre lo stesso identico fenomeno termodinamico: un flusso di energia insufficiente a mantenere tutti i tessuti prodotti dalla pianta.

Quando le condizioni sono favorevoli, le piante sfruttano infatti l’occasione per crescere il più possibile e, se è stagione di fioriture, per mettere in cantiere una gran massa di frutti.   Ma se le condizioni peggiorano prima della maturazione, la pianta si trova a non poter portare avanti una tale massa di tessuti in crescita.

Seccare i piccioli per lasciare cadere le frutta è quindi l’unica strategia che le consente di sopravvivere.   E se le condizioni continuano a peggiorare, lo stesso avviene con le foglie.   In altre parole, la pianta riduce il proprio capitale per riportarlo in equilibrio con il flusso di energia disponibile.

Più in generale, un qualunque sistema complesso posto in difficoltà comincia a sacrificare la propria periferia per salvaguardare il cuore del sistema.   Nel caso degli alberi, la ceppaia dal colletto in giù.   Quando muore anche quella è davvero finita.   Ma fenomeni riconducibili alla medesima dinamica si ritrovano anche negli animali, che ingrassano e dimagriscono.   Durante le carestie possono abortire e, in certi casi, addirittura mangiare i propri cuccioli. Lo stesso accade a livello di popolazioni, che solitamente crescono ai limiti del possibile nei momenti favorevoli, per poi diminuire in modo più o meno drammatico quando le condizioni si fanno avverse.

Tutti questi non sono che casi particolari di un unico fenomeno che possiamo definire “eccesso di capitale” sotto forma di individui, tessuti, semi, eccetera.   In termini sistemici, si tratta di uno sbilanciamento tra flussi e riserve.   Non può durare e si bilancia aumentando i flussi, riducendo le riserve o una combinazione dei due.   Ma una simile condizione di disequilibrio non può durare, inevitabilmente accadrà qualcosa che riporta il sistema in pari.

Qualcosa di strettamente analogo accade alle società umane nel loro complesso. Quando le condizioni sono favorevoli, le società accumulano capitale.   Non necessariamente sotto forma di denaro.   Anzi, questo accumulo prende soprattutto la forma di persone, costruzioni, opere d’arte e dell’ingegno, ricerche scientifiche, e qualunque altra cosa possa essere accumulata sotto forma di materia e/o informazione.

Ma man mano che il capitale cresce, crescono le quantità di energia che devono essere devolute al suo mantenimento perché qualunque cosa ha bisogno di manutenzione e la manutenzione si fa comunque dissipando energia.   Così, quando le condizioni si fanno meno favorevoli, la società si trova a non potersi più permettere di mantenere tutto quello che con grande soddisfazione aveva accumulato.

A livello individuale, quanta gente acquista la casa più bella e più grande che può, per poi doverla rivendere o lasciare andare in malora se le sue entrate diminuiscono e le spese aumentano?  

Qualcosa di strettamente analogo succede a livello collettivo con l’accumulo di infrastrutture ed oggetti, ma anche con l’accumulo di informazione sotto tutte le forma possibili.   E non dimentichiamo che il “capitale umano” è anch'esso parte integrante del capitale di una società.   In fondo, il denaro è di gran lunga la meno importante fra tutte le forme di capitale.

Oggi si parla molto e molto a proposito della riduzione della disponibilità di energia netta.   Una riduzione che secondo alcuni è già in corso e secondo altri avverrà più o meno a breve.   Solo i più sfrenati ottimisti si immaginano un futuro con flussi di energia netta costanti o addirittura in aumento. Possibile?   Penso di no, ma se anche fosse non cambierebbe molto perché, in questo caso, aumenteremmo il nostro capitale fino a raggiungere comunque un punto di crisi.
In ogni caso, l’altra faccia della diminuzione del flusso di energia netta è l’eccesso di capitale in tutte le sue forme.   Troppa gente, troppi oggetti, troppe infrastrutture, forse perfino troppe conoscenze.   Troppo di tutto.
La pasciona petrolifera ci ha consentito di accumulare in un secolo più di quanto avessimo fatto nell'intera nostra storia, da quando Homo sapiens esiste.   Che il picco dell’energia sia ora o fra 10 anni, che lo sviluppo del fotovoltaico galoppi o meno, qualunque cosa faremo, non potremo permetterci di mantenere tutto questo.   E questo significa fare delle scelte difficili.   Spesso dolorose, ma necessarie.

Le piante scelgono e lasciano cadere i frutti, ma conservano almeno parte delle foglie, i rami e le radici principali.    Gli animali digeriscono prima il loro grassi e solo dopo il tessuto muscolare.   Se necessario, uccidono i cuccioli (che morirebbero comunque), non gli adulti (che potranno fare altri cuccioli).
Anche noi, a livello collettivo, stiamo facendo esattamente questo.   Senza dirlo, ma stiamo scegliendo cosa abbandonare e cosa mantenere.   Guardatevi intorno e guardate i bilanci.   Ci sono tagli un po’ dappertutto, ma non nella medesima percentuale.

Ci sono settori che sono in via di rapido e totale smantellamento; altri sottoposti a cure dimagranti più o meno dure, mentre su alcuni settori convergono i fondi così liberati.   La scelta non ha niente di casuale, riflette semplicemente la scala delle priorità dei decisori.   Una scala che, al di là delle lamentele, la maggior parte delle persone sostanzialmente condividono.  

A esempio, fra sovvenzionare le aree protette oppure la sanità, fra sostenere i musei o le attività economiche praticamente nessuno ha dei dubbi.   Altri casi sono più controversi, ma comunque il fenomeno riguarda anche gli averi e la vita delle persone.

In questa fase, il cuore finanziario del sistema globale sta lasciando cadere le classi lavoratrici e medie per mantenersi in vita e, si spera,  generare nuova frutta quando le condizioni torneranno a migliorare.   Una promessa cui, bene o male, la maggior parte di noi continua sotto sotto a voler credere.   Ed è proprio questo che tiene la nostra società inchiodata sul binario morto dove si trova.

Nella scelta obbligata fra cosa conservare e cosa sacrificare continuiamo a scegliere ciò che pensiamo ci possa servire per restare ancora un poco sul ramo, anziché cosa potrà servire ai semi caduti per germinare e dare in futuro nuovi alberi.



martedì 7 giugno 2016

Bye bye BRICS?

Post già apparso sul blog "Crisis, What Crisis?  il 23/05/2016.


BRICS
“ BRICS ” : parola magica capace di far sognare ad un tempo sia i più fanatici sostenitori del turbo-capitalismo, sia molti che lo odiano.   Mistero dell’opinione pubblica.

 

di Jacopo Simonetta

Nascita dei BRICS


L’acronimo è nato nel 2001 nel cuore del capitalismo d’alto bordo:  nientedimeno che in casa Goldman Sachs, ad opera di Jim O'Neill, uno dei suoi uomini più brillanti.   In effetti, in origine era solo BRIC, cioè Brasile, Russia, India e Cina che, garantiva mr. O’Neill, erano i “mattoni” su cui sarebbe stata fondata l’incredibile prosperità economica del XXI secolo.   In seguito fu aggiunto il Sudafrica.  Tutti avevano gli ingredienti per vincere: grandi territori Ed una rapida crescita del PIL, oltre che della popolazione (Russia esclusa).
Ancora nel 2014 i “magnifici 5 BRICS ” avevano fatto frullare le prime pagine dei giornali economici annunciando che erano stufi dell’obsoleto e razzista Fondo Monetario Internazionale (all’interno del quale sono comunque ben  presenti).   Avrebbero quindi fondato una banca mondiale alternativa che avrebbe davvero finanziato la crescita dei paesi emergenti: la New Development Bank.   Nuova ondata di entusiasmo bi-partisan sia dei fautori che dei detrattori del BAU (Business As Usual = globalizzazione), sia pure per motivi opposti.
Qualche scettico cronico, tipo il sottoscritto, sostenne che dietro lo smalto si vedevano già delle belle crepe in tutti e cinque i BRICS, ma nessun commentatore di rilievo, che io sappia, fece osservazioni analoghe.   In fondo siamo comunque umani e ci piace sognare.

I BRICS oggi.

A solo 15 anni dal loro battesimo in casa (o chiesa?) Goldman Sachs, che ne è dei cinque “enfant prodige” della crescita economica?   Diamogli un’occhiata.

Brasile.


crisi BRICS
Il PIL del Brasile
Nel medesimo fatidico 2014 in cui i BRICS annunciavano la loro nuova super-banca, si giocavano i mondiali di calcio in Brasile.    Mondiali destinati a passare alla storia per le spese iperboliche mai recuperate, la realizzazione di mega-stadi, alcuni dei quali subito abbandonati, e per le sommosse popolari contro tutto questo.    N.B.:  Sommosse contro il campionato di pallone in Brasile!

E per colmo di sventura, vinse la Germania.
Di per sé tutto ciò sarebbe trascurabile, ma qui ci interessa perché era un sintomo evidente di quello che stava per accadere: la peggiore recessione della storia brasiliana, il caos politico con il Presidente sotto processo, le alte sfere travolte dagli scandali ed in arrivo le olimpiadi più disastrate e disastrose della storia.   Per non farsi mancare nulla, siccità ed incendi stanno mettendo in ginocchio la rete elettrica nazionale e, di conseguenza, buona parte dell’industria.   Mentre San Paolo (la città più grande del l’emisfero australe) sta restando a corto di acqua.  Davvero Zika è l’ultimo dei loro problemi.

Russia

Crisi BRICS - svalutazione rublo
Svalutazione del Rublo
Già di partenza era una presenza anomala.   Gli altri erano infatti “Paesi emergenti” e ruggenti (nel 2001), mentre la Russia era una super potenza sconfitta che aveva faticosamente recuperato un equilibrio e rimesso in piedi un’economia.   Soprattutto basandosi sull’esportazione di energia: petrolio sul mercato globale e gas su quello europeo.   In pratica quindi, un fornitore di materia prima per l’eventuale sviluppo altrui.    Non era un gran che, ma era il meglio che si  potesse fare e Putin lo aveva fatto, fermando il completo collasso del paese scatenato dalla sconfitta, ma soprattutto dalla disastrosa gestione del governo Eltsin.

Il problema è che non appena sono entrate in crisi le economie clienti, la Russia si è trovata di colpo con le spalle al muro.   Né la prospettiva di uno sviluppo delle forniture verso la Cina pare avere molte prospettive, sia per i tempi e gli investimenti necessari, sia per la crisi che nel frattempo ha raggiunto la Cina.   Anche in questo caso, il disastro ambientale contribuisce.  Molti tratti dei previsti metanodotti e delle strade di servizio dovrebbero infatti appoggiare sul permafrost che si sta sciogliendo. Certo la Russia rimane la seconda forza armata a livello planetario e, di conseguenza, un attore politico di primo piano.   Ma le prospettive economiche rimangono quanto mai fosche.

India

siccità in india
Siccità in India
Per l’India, i dati ufficiali parlano di una crescita economica intorno al 7% ma intanto calore estremo e siccità stanno letteralmente distruggendo buona parte del paese.   La gente fugge in città per sopravvivere e per rifornire d'acqua le città si finiscono di prosciugare le campagne, i fiumi e le falde freatiche.  I tassi di inquinamento sono fra i più alti del mondo, con i conseguenti costi sanitari e sociali.

Più di tutto, l’India ha una popolazione di quasi 1,3 miliardi in rapida crescita (1,38%) ed un terzo della popolazione ha meno di 30 anni.   Sono impressionanti i livelli di violenza di tutti i tipi: da quella domestica e sulle donne a quella religiosa, passando per quella politica e dalla criminalità comune.   L’affermarsi di partiti nazionalisti e oltranzisti non è che un ulteriore indice di crisi strutturale e non potrà che aggravare la situazione.

Cina

Importazioni cinesi
Importazioni cinesi
E’ il pezzo forte della collezione.   Il paese più popoloso e più inquinante del mondo è adesso anche la seconda economia e la terza forza armata a livello mondiale.    Sul piano economico, i dati ufficiali proclamano una crescita fra il 6 ed il 7% negli anni peggiori, ma analizzando l’import/export (verificabile dai dati di tutti gli altri paesi) risulta evidente che non è vero.   La Cina è in recessione o, perlomeno, in stagnazione.  E si sta tirando dietro tutte le economie dell'est asiatico: dalla Corea del sud a Singapore.   Del resto, la crescente aggressività internazionale, ad esempio con le ricorrenti crisi militar-diplomatiche per il possesso di scogli inabitabili sparsi in giro, sono un indizio pesante di crisi grave.
Esportazioni cinesi
Esportazioni cinesi
Sul piano politico, il Partito Comunista continua ad avere un saldo controllo e l’opposizione pare limitata a pochi intellettuali, ambientalisti e minoranze etniche marginalizzate.  Ma i licenziamenti di massa in programma e la fine (o perlomeno il drastico rallentamento) della crescita economica potrebbero cambiare il quadro.   Così come il debito, esploso al 300% del PIL in pochi anni.    Anche i folli livelli di inquinamento, la desertificazione di vasti territori e la cronica mancanza d’acqua non mancheranno di avere effetti sul futuro del paese.

Sudafrica.

Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Andamento della crescita del PIL e della disoccupazione.
Passata la sbornia del dopo-apartheid, si cominciano a fare i conti con l’oste.   Al di la dei tecnicismi e dei trucchi contabili, la crisi cinese ha trascinato anche il Sudafrica in una crisi economica senza precedenti, assieme a tutti gli altri paesi esportatori di materie prime.  I titoli governativi e di molte imprese sono classificati “Junk” o quasi, l’inflazione galoppa ed il debito esplode.

La delinquenza aumenta, in particolare il bracconaggio che sta spazzando via buona parte della mega-fauna in questo, come in tutti gli altri paesi africani.    Ed intanto il presidente Zuma (quello dello storico accodo del 2014) è coinvolto in una serie di scandali per corruzione e simili.
A far le spese di tutto ciò, innanzitutto gli immigrati dai paesi circostanti che sono fuggiti in massa dopo una serie di attacchi xenofobi che hanno fatto diversi morti e molti feriti.

E’ la fine dei BRICS ?

Prima di sparare pronostici, è sempre bene dare un’occhiata al contesto.   E il contesto è di impatto globale contro i limiti dello sviluppo.    Una cosa di cui si parla da 40 anni, ma cui ancora molti non vogliono credere.
Se davvero la crisi attuale non è un incidente, ma l’inizio della fine del BAU, è ben difficile che 5  paesi fra i “più BAU” del mondo possano uscire dal pantano in cui si sono cacciati.   Tuttavia non si può far d’ogni erba un fascio.  Se come blocco politico-economico i BRICS sono probabilmente finiti per sempre (ammesso che siano mai esistiti!), non è affatto detto che lo siano singolarmente.   Soprattutto non in un contesto in cui l’Europa sta facendo di tutto per suicidarsi e gli USA sembrano precipitare in una voragine di stupidità.
A mio  modesto avviso, quelli messi peggio sono il Sudafrica e l’India, sia per la pressione demografica che per la rapida evoluzione del clima.  Segue il Brasile che, pur avendo una popolazione relativamente modesta rispetto al territorio, ha fatto della sistematica distruzione di questo il suo settore trainante.   Inoltre, sia il Brasile che il Sudafrica sono, fondamentalmente, fornitori della Cina.   Se questa sprofonderà li trascinerà con sé, mentre se la Cina riprenderà fiato ricomincerà a comprare, ma ciò non farà che accelerare il tasso di distruzione delle risorse ed il degrado del territorio dei suoi fornitori.
La Russia è un caso a parte.   Se sul piano strettamente economico non può far molto altro che sperare che il prezzo dell’energia torni a salire, sul piano politico ha parecchie frecce al suo arco.  Finora ne ha scoccata qualcuna giusta e qualcuna sbagliata.   Se saprà giocare bene le sue carte, potrebbe cavarsela meno peggio di altri, anche grazie alla bassa densità di popolazione (tendente alla diminuzione) ed al vasto territorio.   Anche il fatto che la maggior parte dei russi siano abituati a cavarsela con poco potrebbe aiutare questo paese ad essere fra quelli che cadranno in cima e non in fondo al cumulo di macerie della civiltà industriale.   Se, invece, opterà per diventare una periferia cinese, farà la fine di tutte le periferie di tutti gli imperi in declino.
In ultimo l’Impero Cinese.     Direi che è sicuramente troppo presto per darlo per spacciato.   Anche se la tendenza globale è verso la fine dell’economia industriale, la Cina ha ancora molti margini di manovra sul piano politico e militare.  Ed ha una popolazione relativamente stabile, anche se malsana.    Il rischio che una potenza in crisi cerchi la scappatoia attraverso l’avventura militare è sempre presente.  Del resto USA e Russia stanno facendo esattamente questo.   Lo farà anche la Cina?   Non possiamo saperlo, ma diciamo che è abbastanza probabile.   Il contesto ed i mezzi sono però molto diversi e non è prevedibile come possa finire. In sintesi, credo che finché il sistema partito-esercito rimarrà saldo e coeso, la Cina potrà attraversare crisi terribili al suo interno e scatenarne di ancor peggiori fuori, ma non si disintegrerà.
Un’ultima osservazione.   Il destino di questi paesi è in gran parte nelle nostre mani.   Più stupidaggini faremo noi, più si apriranno spazi di manovra per loro.   Personalmente, credo che la strategia migliore sarebbe cercare (se possibile) un accordo strategico con la Russia per tenere sotto controllo la Cina.   Non che l’Europa abbia molto da fidarsi della Russia, né la Russia dell’Europa, ma credo che una sospettosa alleanza gioverebbe ad entrambi.   Noi abbiamo urgente bisogno di prendere pacificamente le distanze dagli USA e loro stanno rischiando di diventare una colonia cinese.

Forse, potremmo darci una mano l'un l'altro per farsi il meno male possibile rotolando giù per la parte discendente del "Picco di tutto".

martedì 9 febbraio 2016

Il rumore del picco del petrolio

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR



Cari lettori,

questo 2016 è stato segnato da una notizia che ha occupato una parte apprezzabile del sempre conteso spazio mediatico: la volatilità della borsa cinese. Nell'Impero di Mezzo si sono vissuti giorni di grande ribasso, fino al punto che si è dovuta sospendere la sessione per un paio di giorni, essendo il ribasso oltre il 7%. La borsa cinese aveva avuto un'evoluzione abbastanza mediocre nel 2015 e a quello che sembra tutti i problemi accumulati sono sempre più evidenti nel 2016. Le borse occidentali hanno accusato l'impatto con diminuzioni accumulate che ammontano alla metà di quelle cinesi, ma dimostrano che l'evoluzione del gigante asiatico ha molta influenza in ciò che avviene nel mondo.

Ma che succede alla Cina? Semplicemente che la Cina, la fabbrica del mondo, sta accusando con forza la diminuzione della domanda mondiale di ogni tipo di bene. Cosa logica, se si tiene conto del fatto che la riduzione della leva finanziaria del debito iniziata nel 2008 è andata a minare progressivamente la rendita disponibile delle classi medie (tramite la diminuzione delle prestazioni ed il degrado della qualità del lavoro salariato). E quella classe media, sempre più impoverita, compra meno cose e consuma di meno.

lunedì 11 agosto 2014

venerdì 18 luglio 2014

Italia: come ci si adatta al collasso

Da “Resource crisis”. Traduzione di MR


Il nuovo centro commerciale San Lorenzo a Firenze. Un'area all'americana progettata principalmente con in mente il turismo internazionale. E' un esempio del tentativo dell'economia italiana di adattarsi al collasso in corso dei sui settori produttivi tradizionali, cercando di sfruttare nuove risorse di guadagno. Finora, questa modalità nuova modalità sembra aver avuto successo. Sfortunatamente, tuttavia, persino i turisti stranieri potrebbero essere una risorsa insostenibile. 

Se vi capita di visitare Firenze, in questi giorni, potreste notare il centro commerciale nuovo di zecca al piano superiore del vecchio mercato centrale. E' una grande ristrutturazione di ciò che era una volta un mercato ortofrutticolo, che veniva frequentato principalmente dalla gente del posto. Ora è una una “zona ristorante” tipicamente americana con molti ristoranti diversi che condividono gli stessi tavoli. Per la mia esperienza personale, posso dirvi che il cibo in questo luogo è di qualità media; troppo caro, ma non terribilment. E' il tipo di cibo che i turisti stranieri sono giunti ad attendersi a Firenze, lo chiamerei cibo misto con una vena fiorentina. Notate che non ho intenzione di scoraggiarvi dal provare questo posto. Al contrario, perlomeno è un modo di evitare le molte abominevoli trappole per turisti che in cui potreste imbattervi a Firenze se siete abbastanza sfortunati (vi potrebbe piacere anche dare un'occhiata ad alcune mie osservazioni sull'antica cucina fiorentina). Volevo solo osservare come la nuova zona ristorante sia un esempio delle tendenze attuali dell'economia italiana.


Ho già discusso del collasso italiano in post precedenti (uno e due). Il collasso continua a procedere e gli ultimi risultati provenienti dall'ISTAT indicano che l'Italia ha perso il 25% della propria produzione industriale dopo il 2008, senza nessun segno di miglioramento in vista. I politici blaterano di “far ripartire la crescita”, ma c'è poco che si possa fare di fronte a un tale disastro. La cosa migliore che sembrano in grado di concepire è di truccare le statistiche per creare l'apparenza di una ripresa inesistente.

Il collasso è il risultato principalmente del fardello sempre più pesante dei beni minerali importati sull'economia italiana. Questo fardello supplementare ha distrutto la competitività dell'industria manifatturiera italiana. Di conseguenza, il sistema economico italiano si sta attivamente riadattando, cercando di trovare nuove risorse. Deve trovare mercati di nicchia “leggeri”, aree in cui non servono grandi quantità di energia e di minerali perché vengano gestite. Li sta trovando principalmente nelle industrie della moda e e in quella alimentare.

Se vivete in Italia, specialmente a Firenze, non potete evitare di notare come stia prosperando l'industria della moda; lo potete vedere anche da iniziative fortemente discutibili come il "vestimento" del Battistero a Firenze come se fosse un gigantesco foulard. I tradizionali centri manifatturieri sono andati e con loro se ne è andato gran parte del tradizionale potere finanziario italiano. Il Monte dei Paschi è sopravvissuto alla Morte Nera nel Medio Evo, ma potrebbe non sopravvivere al picco del petrolio! Persino il celebrato nuovo Primo Ministro italiano, Matteo Renzi, è una conseguenza del nuovo equilibrio del potere economico in Italia.

Anche il turismo sta rapidamente guadagnando un nuovo status di risorsa fondamentale nell'economia italiana. Il turismo è sempre stato un'industria tradizionale in Italia, ma ora sta diventando qualcosa di nuovo: con gli italiani impoveriti che viaggiano sempre meno, il turismo internazionale sta diventando dominante. Ma non è più il tempo in cui i visitatori internazionali rimanevano in Italia per mesi o anni, per esplorare l'antica cultura ed il paesaggio. Ora i turisti restano pochi giorni al massimo ed hanno poco interesse o nessuno nel visitare altre cose rispetto alle visite guidate nelle città d'arte: Venezia, Firenze e Roma. Il risultato è la concentrazione del turismo in aree in cui può essere sfruttato efficientemente da iniziative come l'area ristorante a Firenze di cui parlavo. Al di fuori di questi centri il turismo è a sua volta in pericolo.

Finora, le economie in espansione di alcuni paesi, principalmente la Cina, stanno fornendo un flusso di turisti in aumento verso le principali mete turistiche italiane. Tuttavia, ci vuole poco ad esporre la fragilità di questo piccolo boom economico in Italia. Pensate alla possibilità di una nuova crisi finanziaria, come quella del 2008, e potete immaginare cosa succederà. Il piano superiore di San Lorenzo tornerà ad essere quello che era? Forse, e la mia impressione che abbiamo davvero perso qualcosa smantellando il vecchio mercato ortofrutticolo.



martedì 25 marzo 2014

Il picco degli investimenti segnala l'imminente collasso della produzione petrolifera

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Questo di Turiel è un post molto importante che va letto insieme a quello di Gail Tverberg sullo stesso argomento. In sostanza, stiamo vedendo un momento epocale nella storia planetaria del petrolio: sebbene la produzione totale di liquidi riesca ancora a mantenersi costante o anche in leggero aumento, l'industria non ce la fa più a reggere i tremendi costi necessari. Siamo al "picco degli investimenti" - preludio dell'inevitabile declino (o collasso produttivo). E ora che facciamo? Beh, il primo passo è capire qual'è la verità. (U.B.)


di Antonio Turiel

Cari lettori,

l'inquietante articolo di Gail Tverberg sull'attuale tendenza delle grandi compagnie petrolifere a disinvestire nel cosiddetto upstream, cioè nell'esplorazione e lo sviluppo di nuovi giacimenti porta ad una riflessione profonda sul futuro immediato della nostra società. Nel momento più critico della crisi energetica, le compagnie petrolifere gettano la spugna. Non è una sorpresa. Quattro anni fa, su questo stesso blog, spiegavamo come alcune di queste compagnie stessero abbandonando l'investimento sull'upstream.

Il miraggio del fracking (soprattutto nella ricerca di petrolio leggero di roccia compatta, LTO nell'acronimo inglese) è stato l'ultimo tentativo di continuare in questo busisness. Come diceva recentemente un analista del mondo del petrolio, gli Stati Uniti avevano la necessità di cercare una risorsa da sfruttare perché non potevano permettersi il lusso di lasciare all'industria dell'estrazione degli idrocarburi più potente del mondo senza lavoro, visto che le conseguenze sociali ed economiche sarebbero inaccettabili. Così, si sono inventati il miracolo del fracking e con questa chimera hanno mantenuto l'illusione che si potesse continuare ad andare avanti sulla stessa strada per questi quattro anni; grazie alle sabbie bituminose del Canada, ai petroli ultrapesanti del Venezuela e al LTO, la produzione di petrolio si è potuta mantenere stabile intorno ai 76 milioni di barili al giorno (Mb/g) per tre anni e quella di tutti i liquidi del petrolio (che comprende i liquidi del gas naturale, PG nei grafici che seguono) intorno ai 90 Mb/g, come mostrano i seguenti grafici di un file di Burbuja.info:



Tuttavia, gli stessi grafici mostrano che il petrolio convenzionale, dopo un lungo plateau di produzione di poco più di 70 Mb/g di media all'anno iniziata verso il 2004 e con forti saliscendi che hanno seguito il ciclo economico, sembra aver già iniziato la sua inesorabile discesa. Niente di nuovo: il plateau produttivo risulta già dal rapporto del 2010 della IEA (che tende ad essere un po' più ottimista della EIA) e nel rapporto del 2012 si riconosce l'inizio del declino del petrolio convenzionale. Peggio ancora, come abbiamo già spiegato analizzando il rapporto del 2013 la IEA avverte che se non si producono gli investimenti in tempo, la produzione di petrolio può scendere rapidissimamente, creando problemi seri.

E qual è la reazione a questo avvertimento? Comincia ad essere evidente persino per il mondo degli affari il LTO da fracking sta arrivando alla sua fine e questa era l'ultima scommessa. Fine. Non c'è nient'altro; siamo realmente rimasti senza opzioni.

Naturalmente continuerà la ripetizione assurda degli stessi meme, le stesse chimere (gli idrati di metano un giorno, gli scisti bituminosi un altro, il petrolio Artico o persino quello Antartico, i giacimenti pre-sale in Brasile, le sue controparti sull'altro lato dell'Atlantico... la stessa cosa che si va dicendo da un paio di decenni o più) mentre altri sognano che le rinnovabili ci tireranno fuori dalla buca (cosa poco verosimile alla luce dei problemi che abbiamo discusso nella serie di post “I limiti delle rinnovabili”), o con i reattori nucleari a fusione (che probabilmente non saranno mai fattibili, che sia per la via ITER o per confinamento inerziale – diffidate dei comunicati stampa falsificati!), o quelli di quarta generazione (sui quali si sperimenta da 70 anni senza che si siano risolti i problemi cruciali che li affliggono) o con l'uso del gas naturale per autotrazione (che richiederebbe un investimento ingente non per la motorizzazione, ma per la distribuzione, quando il picco del gas è a sua volta dietro l'angolo), o con qualsiasi altra distrazione che paresse avere a che fare con l'energia (che siano tecnologie per batterie, grafene, magnesio o concentratori di energia infrarossa). Il fatto è che le aziende petrolifere sono esauste, come si spiegava nel post precedente ed hanno cominciato un'aggressiva politica di disinvestimento (guardate, per esempio, questa presentazione della Shell che riassume i suoi risultati del 2013 e le sue strategie per il 2014) Nel post di Gail Tverberg si mostrava il grafico di Steve Kopits che sintetizza la previsione di diminuzione dell'investimento delle compagnie multinazionali:


Nel grafico sopra, la linea grigia orizzontale rappresenta l'investimento in beni di capitale delle compagnie petrolifere private che si prevedeva di recente, a ottobre dello scorso anno, appena sei mesi fa; la linea grigia che scende, rappresenta la revisione fatta questo stesso mese, la linea nera tratteggiata, la previsione attuale e la rossa punteggiata quella che indicano le ultime dichiarazioni delle compagnie multinazionali: una caduta totale di circa un 30% in un solo anno. Pensate che in realtà, per conservare lo status quo, l'investimento in beni comuni dovrebbe crescere col tempo, visto che le risorse che rimangono sono sempre peggiori e richiedono uno sforzo maggiore, così che una caduta di un 30% dell'investimento anticipa una caduta molto più grande della nuova produzione. E non dimenticate che i giacimenti attualmente in produzione diminuiscono già di un 6% all'anno (come riconosceva a novembre la stessa IEA). Qualche specialista di energia furbo si è precipitato a dire che qui non succede niente, che il disinvestimento è frutto di un ciclo di sovra-investimento. Questa interpretazione ha un errore fondamentale, come evidenziava l'altro giorno Juan Carlos Barba: quando si produce un eccesso di investimento in un'attività produttiva (perché gli investitori vedono un buon affare e lo fanno crescere troppo in fretta) la produzione sale molto, più di quello che in realtà chiede il mercato, pertanto alla fine il prezzo scende. In quel momento gli investitori escono dall'affare e crolla l'investimento finché la cosa non sis tabilizza. Tuttavia, quello che succede qui è che mentre l'investimento saliva e saliva, la produzione è caduta e il prezzo è rimasto stabile.

Pertanto, spiegazione volgare secondo la quale si tratta di un normale ciclo di sovra-investimento non sta in piedi. Non preoccupatevi: sicuramente i nostri analisti economici di punta troveranno una qualche spiegazione contorta per giustificare la loro visione aprioristica; Qualsiasi cosa pur di non accettare che il picco del petrolio è già qui, perché il picco del petrolio era questo in realtà, che semplicemente è questa la puzza che fa il picco del petrolio. Certamente stiamo parlando del disinvestimento delle compagnie private e queste coprono solo un terzo del mercato mondiale del petrolio, ma le compagnie nazionali che forniscono gli altri due terzi hanno bisogno delle multinazionali per rilanciare la propria produzione, visto che hanno perdite più che significative (per esempio la messicana Pemex o la norvegese Statoil, ma è un fenomeno generalizzato – pensate a questa curiosa notizia sull'Arabia Saudita). E la ricetta per uscire da questo pantano, la stessa che viene ripetuta insistentemente in tutti i paesi con problemi di produzione di petrolio, che sia il Messico, il Venezuela, il Brasile, l'Argentina, il Bahrein, la Libia, l'Iran o la Norvegia, è quella di aprire all'investimento straniero. Naturalmente, chi proverà a investire in questa pletora di nuove e dubbie opportunità? Gli investitori naturali sarebbero le grandi multinazionali del petrolio, ma proprio queste stanno scappando dai giacimenti di dubbia redditività e concentrandosi sui benefici e sul buttare i dividendi, nel continuare ad aumentare la propria redditività ad ogni costo, anche a costo di diminuire l propria dimensione. Peggio ancora, queste si stanno disfacendo dei loro beni più problematici. Tanti giacimenti in vendita da un lato insieme a tanti paesi che cercano l'investimento per le proprie estrazioni nazionali dall'altro formano un eccesso di offerta che proietta più dubbi sulla redditività e scaccia la maggior parte degli investitori. E' pertanto ovvio che i problemi delle multinazionali del petrolio vanno a causare una forte diminuzione nel petrolio su scala mondiale tanto nel settore privato quanto in quello pubblico.

La conseguenza più diretta di tutto questo a breve termine è che non ci sarà un quarto ciclo di investimento come si ipotizzava nel post del mio amico Antonio García-Olivares: siccome la società non può tollerare prezzi più alti, le compagnie non possono andare avanti nell'estrazione delle risorse più care. Pertanto, se non cambia la tendenza attuale di disinvestimento non ci sarà un plateau di produzione di petrolio fino al 2040 come diceva Antonio García-Olivares (per quanto sarebbe un male già quello), ma il declino della produzione di tutti i liquidi del petrolio (non solo il petrolio convenzionale) comincerà subito. Di fatto, se non si agisce rapidamente, la perdita di investimento che stanno già applicando le compagnie multinazionali ed i movimenti prevedibili che faranno quelle nazionali possono condurre ad un crollo della produzione di tutti i liquidi del petrolio fra i 5 e i 10 milioni di barili al giorno (fino ad un 11% di quello che si produce adesso) in un lasso di tempo inferiore ai due anni. Se un crollo così rapido di questa dimensione si materializza, gli effetti sull'economia possono essere devastanti e la capacità di adattamento dei diversi paesi dipenderà dalla loro capacità di mettere mano ad altre risorse.

Se tutto questo fosse poco, c'è un altro problema: la forte dipendenza dal petrolio dell'estrazione di altre risorse naturali, energetiche e non. Alcuni dei giacimenti più estremi di carbone, gas e uranio richiedono l'uso di un'ingente quantità di carburanti per spostare tutti i macchinari necessari. E siccome il carbone, il gas e l'uranio a buon mercato si stanno a loro volta esaurendo, il peso del combustibile sui costi di produzione sta salendo: pensate per esempio che proprio ora il costo del diesel usato nell'estrazione rappresenta il 10% del prezzo dell'uranio. E questo senza entrare nel merito dell'impatto sul settore agricolo, fortemente dipendente dal petrolio, che colpisce non solo la redditività nulla dei biocombustibili, ma l'alimentazione umana. Per quanto riguarda l'estrazione dei minerali in generale, i costi crescenti di produzione (riflesso del maggior consumo di combustibile nella misura in cui i filoni rimanenti hanno concentrazioni di minerale più povere) compromettono la fattibilità dello sfruttamento di molti minerali (come mostra questo articolo, le miniere d'oro potrebbero chiudere in sei mesi se non sale il prezzo).

Alicia Valero ha scritto una tesi estesa e dettagliata qualche anno fa che a volte cito in questo blog, la quale usa un'approssimazione interessante per affrontare il problema della scarsità di materie prime, che siano energetiche o meno. L'idea consiste nel calcolare l'exergia di qualsiasi materia, quantificata come la quantità di lavoro utile che rappresenta per la società. Questa approssimazione exergetica permette di trattare il picco del rame o dell'oro allo stesso modo che il picco del petrolio o del carbone. Essenzialmente, il nostro problema non è solo che l'energia utile che ci arriva dal petrolio e dall'uranio sta già diminuendo e che quelle del carbone e del gas sono dietro l'angolo, ma che inoltre l'exergia di molte materie prime fondamentali per la nostra società (che sia rame, neodimio, acciaio o cemento) sta già diminuendo o non è lontana dal farlo.

L'approssimazione economicistica che domina la visione della nostra società, tanto lontana dalla Termodinamica, vede solo i costi monetari e i cicli di investimento ed è incapace di riconoscere che i tetti di produzione si stanno abbassando. Credono semplicemente che con più investimenti si potrebbe ottenere un aumento della produzione, senza comprendere che un mucchio di banconote verdi non afferrano la pirite o un pezzo di carbone dal fondo di una miniera. Nel momento in cui la diminuzione della produzione sia evidentemente minore dei livelli attuali i guru di questo credo che chiamiamo Economia tireranno fuori qualche loro assurda teoria ad hoc, riedizioni della vecchia falsità del Peak Demand, e ci diranno che i gusti della società sono diventati più austeri e che abbiamo deciso di usare meno di tutto per coscienza ecologica o altri motivi, come se la penuria fosse una scelta. Niente di nuovo dai tempi di Esopo, insomma.

Lasciando da parte questo pensiero sociopatico e ignorante della realtà fisica, lo scenario che si profila per il nostro futuro immediato è quello della Grande Scarsità. Se non si agisce subito, la probabilità di sperimentare nei prossimi anni, persino nell'arco di non troppi mesi, una transizione fortemente non lineare è molto elevata. Il livello di stress del sistema  ora è altissimo. In tutto il mondo stanno scoppiando conflitti in cui l'energia, anche senza essere sempre il fattore fondamentale, è uno dei fattori importanti. Ciò aumenta il rischio di un crollo repentino del flusso di energia e materiali; pensate, per esempio, cosa succederebbe se aumentassero le ostilità con la Russia, paese che si alterna con l'Arabia saudita al primo posto della produzione mondiale di petrolio e che fornisce il 26% del gas naturale e più del 40% del petrolio che si consuma in Europa. Pensate cosa succederebbe se l'instabilità attuale e crescente in Bahrein o in Yemen finissero per degenerare ion guerre civili e contagiassero un'Arabia Saudita in cui i costi di produzione crescono con l'invecchiare dei suoi giacimenti, compromettendo la sua stabilità di bilancio e la pace sociale. O se l'Iran, il Venezuela o l'Algeria finissero in una guerra civile. Oltre alla tragedia nei paesi disgraziati che soccombessero, vi immaginate dove finirà il benessere dell'occidente quando questi smettono di mandarci puntualmente il loro petrolio e il loro gas naturale?

Questo è un punto di non ritorno nella Storia dell'Umanità. Le contraddizioni del nostro sistema economico non possono essere ignorate ancora per molto, ma i nostri leader continuano a sognare l'uscita dalla crisi e al ritorno alla crescita economica. Ma in pochissimo tempo dovranno prendere misure d'urgenza per evitare che la società collassi. E' facile prevedere che nel momento in cui nostri governanti si rendono conto che il petrolio necessario sta smettendo di arrivare, a causa del disinvestimento delle grandi compagnie, gli Stati entrino nel capitale di queste imprese per prendersi in carico i progetti meno redditizi. Tale misura garantirà un flusso minimo di base per l'attività economica, ma sarà possibile a costo di mettere tasse molto superiori a quelle attuali, per cui questa ultima intenzione di mantenere lo status quo allargherà rapidamente la povertà e la miseria nella società. In aggiunta, dato il costo eccessivo che implicherà questo intervento per ogni paese, il commercio del petrolio soffrirà, poiché i paesi saranno riluttanti a condividere una materia tanto essenziale e che costa loro tanti sacrifici.

Ora guardatevi attorno. Su che risorse può contare il vostro paese? Quale sforzo sociale implicherà il loro sfruttamento autarchico? Come vi condizionerà la miseria che viene, che potenziale avete per resistere alla prossima onda?

Si può tratteggiare il caso della Spagna come un caso tipo. Se si conserva la modalità di reazione dimostrata durante questi primi anni di crisi energetica, nel prossimo decennio la Spagna si appoggerebbe al proprio carbone autoctono. Le centrali elettriche in attività sarebbero principalmente quelle idroelettriche, eoliche e termiche a carbone, le quali permetteranno di mantenere un livello di fornitura non molto inferiore all'attuale, anche se il consumo crollerebbe considerevolmente, per cui non ci si dovrebbero aspettare grandi cadute della rete durante i prossimi decenni. Il problema è, come abbiamo ripetuto tante volte, che l'elettricità è solo il 21% del consumo di energia finale nella Spagna di oggi. Per il resto degli usi energetici si convertirebbe il carbone nazionale in idrocarburo liquido usando il processo di Fisher-Tropsch anche se si perderebbe per strada il 50% della sua energia. Siccome la produzione sarebbe insufficiente a coprire la domanda attuale, si restringerebbe progressivamente il suo uso, che si concentrerebbe nell'agricoltura, nell'Esercito e nei servizi essenziali e si abbandonerebbe la mobilità privata, alla portata soltanto di più ricchi. Questo farebbe sprofondare la maggior parte dell'attività economica attuale del paese e condannerebbe una gran massa della popolazione alla povertà ed alla sopravvivenza nei limiti più miserabili della società. Un fenomeno che abbiamo già descritto qui: la Grande Esclusione. Col tempo, l'organizzazione sociale potrebbe diventare un nuovo feudalesimo.

Questo è inevitabile? No, perbacco. Non abbiamo motivo di seguire una strada così triste. Non è il nostro destino inesorabile finire schiavizzati, né molto meno, come non lo è nemmeno il collasso della società o l'estinzione della razza umana; sicuramente non deve finire in Apocalisse. Ma se non facciamo attenzione il nostro destino può essere davvero poco brillante. Possiamo ancora evitarlo. Per questo il primo passo è quello di riconoscere la verità, una verità dura che deve essere detta in faccia. E infine passare dall'idea all'azione. Ma alla svelta, non c'è più molto tempo..

Saluti.

AMT


domenica 23 marzo 2014

2°C di riscaldamento:disastro incombente per l'agricoltura

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR (non più online).


Mentre gli agricoltori seminano le colture di quest'anno potrebbero essere distratti dal fatto che dal 2030 – fra poco più di 15 anni – i rendimenti dei raccolti nelle regioni temperate e in quelle tropicali soffriranno in modo significativo a causa del cambiamento climatico. Pubblicato sabato sulla rivista Nature Climate Change, un si possono saggio ha scoperto che, senza adattamento, ci si possono aspettare perdite nella produzione di grano, riso e mais con soli 2°C di riscaldamento. Lo studio inasprirà le scoperte già allarmanti della sezione del Gruppo di Lavoro II del Quinto Rapporto di Valutazione del IPCC, che dev'essere pubblicato alla fine di marzo. Il Gruppo di Lavoro II si concentra sugli impatti ambientali, economici e sociali che il cambiamento climatico avrà e a quale livello di vulnerabilità i diversi settori ecologici e socio-economici saranno soggetti.

Il Quarto Rapporto di Valutazione, nel 2007, ha scoperto che le regioni dal clima temperato come Europa e Nord America avrebbero retto a un paio di gradi di riscaldamento senza un effetto rilevabile sui rendimenti dei raccolti. Alcuni studi pensavano persino che l'aumento delle temperature avrebbe aumentato la produzione. Tuttavia, il nuovo studio, che ha attinto dall'insieme di dati più completo ad oggi sulle risorse delle colture – più del doppio del numero disponibile nel 2007 – ha scoperto che le colture verrebbero influenzate negativamente dal cambiamento climatico molto prima di quanto ci si aspettasse.

“Mentre diventavano disponibili altri dati, abbiamo visto uno spostamento nel consenso che ci dice che gli impatti del cambiamento climatico nelle regioni temperate avverrà prima piuttosto che dopo”, ha detto in una dichiarazione il professor Andy Challinor della Scuola della Terra e dell'Ambiente dell'Università di Leeds e autore principale dello studio. “Inoltre, l'impatto del cambiamento climatico sui raccolti varierà sia di anno in anno sia di luogo in luogo – con la variabilità che diventa maggiore quando il meteo diventa sempre più imprevedibile. Il cambiamento climatico significa un raccolto meno prevedibile, con diversi paesi che vincono e perdono in anni diversi”. Secondo lo studio, a partire dal 2030 i rendimenti dei raccolti sperimenteranno un impatto sempre più negativo con diminuzioni di oltre il 25% che diventano più comuni dalla seconda metà del secolo. Il cambiamento climatico è già una grande preoccupazione per coloro che lavorano in agricoltura in quanto i cambiamenti meteo, della qualità del terreno e della disponibilità d'acqua si ripercuotono in tutto il settore.

I prezzi del cibo delle colture di base come il grano e il mais sono alti quest'anno, in quanto la produzione globale lotta per tenere il passo con l'aumento della domanda. I prezzi delle colture sono soggetti ad impatti molto localizzati e la crisi in Ucraina ha causato un'impennata dei prezzi del mais e del grano, visto che quel paese è uno dei 10 principali esportatori di entrambe le colture. Il cambiamento climatico agirà solo da amplificatore della natura precaria dell'industria. Un altro studio recente ha scoperto che l'effetto medio del cambiamento climatico sul prezzo dei raccolti per il 2050 sarà di un 20% in più, con alcuni prezzi che non cambiano affatto mentre altri aumentano di oltre il 60% a seconda della regione.

In California, dove una siccità record è un indicatore di una normalità più calda e più secca portata dal cambiamento climatico nella regione, quasi 500.000 acri di terra coltivabile – circa il 12% della disponibilità di terra coltivabile dello scorso anno – potrebbe essere esclusa quest'anno, causando miliardi di dollari di danno economico. I prezzi di verdure come carciofi, sedano, broccoli e cavolfiori potrebbe aumentare del 10%. La California produce circa l'80% delle mandorle del mondo, con una produzione che è più che raddoppiata dalle 912 milioni di libbre del 2006 alle 1,88 milioni di libbre dello scorso anno. Con una domanda globale di mandorle in pieno boom, specialmente in Asia, la siccità della California è probabile che abbia un impatto negativo sui prezzi delle mandorle nel mondo. Mentre i mandorli non sono l'ideale per il clima già secco della California e richiedono un'irrigazione significativa, l'industria ha messo radici e sarà costretta ad adattarsi a qualsiasi condizione di coltura ci sarà in futuro.

domenica 9 marzo 2014

La Grande Dissonanza

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Di Antonio Turiel


- Come va? Sei a casa coi bambini, giusto? Ti vedo sempre coi tuoi figli qui in giro, molto bene, tu...

Ci eravamo incontrati uscendo dalla stazione ferroviaria ed entrambi andavamo di fretta, pensando di arrivare a casa e fare le faccende del tardo pomeriggio, probabilmente.

- Quando non lavoro sto sempre coi miei figli – gli ho risposto io.

- Questo è molto bello – mi ha risposto – Sono ancora molto piccoli, no? Ma poi crescono e prima che te ne rendi conto vanno già all'università... 

Ho abbozzato un sorriso fra il triste e lo stanco e gli ho detto:

- Non so se i miei figli andranno all'università.

Deve aver pensato che scherzassi ed ha insistito un po', al che gli ho detto, con un po' più di fermezza:

- Non credo che i miei figli andranno all'università.

Un tale atteggiamento da parte mia è, ovviamente, difforme, dissonante rispetto al sentire sociale, si potrebbe dire. Il fatto che io, che ho una formazione universitaria superiore, non dia per scontato che anche i miei figli avranno una formazione universitaria, è anche peggio di un'eccentricità: è un sovvertimento dell'ordine naturale delle cose ed una barbarie. Tuttavia, il mio modo di vedere le cose è perfettamente coerente con ciò che vedo intorno a me: alti tassi di disoccupazione (26%) che sono alle stelle quando si parla di disoccupazione giovanile (più del 50% dei minori di 25 anni che vogliono un lavoro non riescono a trovarne uno), una situazione economica melmosa, un alto indebitamento pubblico e privato che fanno presagire un recupero economico lento, una diminuzione progressiva dei salari pubblici e privati... e tutto questo senza tenere conto del fatto che la mancanza di risorse garantisce che questa crisi non finirà mai. Non fraintendete le mie parole, non è che io desideri che i miei figli non vadano all'università, è che non so se quando dovranno prendere quella decisione lo considereranno conveniente. Inoltre non so se per allora il mio potere d'acquisto mi permetterà di pagargliela. Più che altro, il fatto è che credo che sarà difficile che accada un cosa del genere. Naturalmente,, se loro vogliono ed io posso ci proveremo, ma nutro molti dubbi su questo possibile futuro. Dubbi fondati nei più di sei anni di crisi che abbiamo alle spalle nella mia conoscenza del nostro inesorabile declino energetico. Declino che non implica necessariamente la distruzione della classe media, ma la nostra mancanza di reazione di fronte ad esso sì che la implica.

Perciò, la mia mancanza di fede in un brillante futuro (mancanza di fede in realtà che motiva lo scrivere questo blog, nella speranza che alla fine mi sbagli riguardo alle mie magre prospettive rispetto alla razza umana e che possiamo invertire la situazione)è una posizione perfettamente logica e razionale. Peggio ancora, è la posizione più logica e razionale che si possa assumere vedendo i dati e la scarsa azione della politica per combattere la crisi che abbiamo visto finora. Pertanto, questo ottimismo implicito che la maggioranza proietta sul futuro (accettando che c'è una crisi, ma nonostante questo fa piani per un futuro in continuità col passato, coi figli che vanno all'università o che si comprano un mini-appartamento), in realtà è una dissonanza cognitiva sociale, collettiva anche se tale dissonanza è curiosamente il comportamento sociale accettabile e il mio quello disadattato.

Questa Dissonanza Cognitiva Collettiva non è, naturalmente, niente di nuovo, ma sta alla base stessa del nostro sistema economico, a cominciare dalla psicopatia della teoria economica convenzionale nelle sue diverse versioni. Che il nostro sistema abbia bisogno di una crescita infinita del proprio consumo di risorse, che non solo sono scarse ma sono per di più esauribili, fino a giungere allo spreco delle stesse come vera essenza del valore economico dei giorni nostri e che la distruzione dell'ecosistema, del nostro habitat e il degrado dell'ambiente in generale sia la cosa socialmente accettabile, mostra non solo il suo carattere lunatico e suicida, ma quanto sia profondamente squilibrato ed ingiusto (visto che molte volte si estenalizzavano ad altri paesi gli squilibri di questo malcostume, fino ad arrivare all'epoca in cui non resta altro rimedio che 'internalizzarle' qui). E nonostante le prove schiaccianti dei fatti, denunciare le barbarie che si commettono in nome del nostro sistema economico è considerato come infantile e persino da disadattati.

La psicopatia che ci inculca il nostro sistema è così profonda che la gente è già giunta ad accettare senza battere ciglio le peggiori aberrazioni possibili, come strappare il futuro ai figli. La predicazione generale è che ci dobbiamo preoccupare soltanto del presente, anche se questo implica essere in competizione coi figli o addirittura distruggere il loro futuro. In alcune occasioni mi trovo che, parlando della gravità del cambiamento climatico o della crisi delle risorse (e particolarmente del picco del petrolio) a volte qualcuno dica, per tranquillizzarsi di fronte a notizie tanto inquietanti: “per fortuna di questo se ne dovranno preoccupare i nostri figli e i nostri nipoti”. Mi corre sempre un brivido lungo la schiena nell'ascoltare cose del genere, perché per me la mia vita sono i miei figli (a volte quando qualcuno mi chiede perché mi complico la vita facendo quello che faccio, dico che ho due buoni motivi). E', di nuovo, un altro aspetto della Grande Dissonanza in cui vive tronfia la nostra società, forse la peggiore: la noncuranza per la discendenza. Nella cultura che ha preceduto questa desolazione morale, limitata ed ignorante com'era, e nella maggior parte delle occasioni atavicamente ingiusta, c'era come valore sociale la conservazione di almeno una parte della discendenza (anche era solo per il proprio interesse). Col progresso materiale e sociale i figli sono passati dall'essere un investimento per il futuro all'essere un vero e proprio motivo di gioia e di continuità della propria esistenza oltre l'inesorabile morte di ognuno. Ma qualcosa è andato storto in questo percorso ed ora siamo giunti alla demenza attuale, per cui per non privarci di un piccolo piacere in più siamo capaci di immolare i nostri propri figli. Prima i genitori davano una spintarella ai propri figli. Anche adesso, ma all'indietro.

Il grado di conformismo alle contraddizioni multiple del nostro sistema economico è talmente elevato che, nonostante l'inutilità di cercare di mantenere un sistema che cresce esponenzialmente nel proprio consumo materiale e di energia in particolare, si pone l'enfasi nel trovare più materia prima e più energia per alimentare la bestia, essendo la crescita per la crescita il fine ultimo, invece di renderci conto che ciò che serve è ripensare il problema.


E così quando parliamo di crisi energetica di solito gli interlocutori informati si concentrano sulla mera ricerca di nuove fonti di energia, ciò non è altro che un'ulteriore forma di Grande Dissonanza: anche se riuscissimo a raddoppiare la nostra disponibilità di energia, se mantenessimo il tasso di crescita del consumo energetico adeguato (il 2,9% all'anno come da media storica) ci ritroveremmo che in soltanto due decenni si ripresenterebbe la scarsità l'energia: praticamente è un sospiro in termini storici, nonostante l'impresa che implicherebbe il duplicare l'energia consumata rispetto ai livelli attuali. E come spiegava Tom Murphy, per poter continuare a crescere a questo ritmo in meno di 400 anni dovremmo assorbire tutta la radiazione che giunge alla Terra dal Sole, in 1300 anni dovremmo assorbire tutta l'energia emessa dal Sole e in 2500 anni (poco meno del tempo trascorso dalla fondazione di Roma) dovremmo assorbire tutta la radiazione di tutte le stelle della nostra galassia. In realtà ci sono limiti invalicabili prima: in “soli” 450 anni il calore dissipato dalle nostre macchine farebbe bollire gli oceani. E' chiaro pertanto che la nostra folle corsa per l'energia illimitata è condannata a finire entro alcune generazioni, costretta da limiti che neanche il più illuso può pensare che siano superabili, tuttavia anche persone molto intelligenti si lasciano prendere dalla Grande Dissonanza Collettiva e sono facile preda della notizia del giorno, di una nuova promessa di energia illimitata ben pubblicizzata da media, esagerazioni che non si traducono mai in pratica (l'ultima delle quali potrebbe essere la notizia di un grande successo nella National Ignition Facility, secondo la quale si sarebbe ottenuto per la prima volta che una reazione di fusione nucleare a confinamento inerziale producesse più energia di quella consumata – niente di più lontano dalla realtà, come si è già spiegato quando l'esperimento era venuto alla luce lo scorso ottobre: in realtà l'energia prodotta è circa l'1% dell'energia consumata dai laser, cosa che pochi media hanno riportato correttamente).

L'Astuzia dell'Idea di Hegel si è trasformata, per nostra disgrazia, nella Stupidità dell'Idea; l'inconscio collettivo è più inconscio che mai. La grande Dissonanza porta a chiudere gli occhi, a volte serrandoli come fanno i bambini, di fronte le realtà scomode e alle decisioni improrogabili. E' molto difficile combattere questa Grande Dissonanza che pervade tutto, che pervade tutti, alla quale siamo stati tutti indottrinati. In questi giorni mi sono sorpreso vedendo come un paio di autori della blogosfera il cui lavoro e sforzo divulgativo nell'ambito della Scienza e dell'Economia, rispettivamente, apprezzo ed ammiro, mi criticano personalmente per la divulgazione che faccio, in qualche occasione con denigrazioni piuttosto gravi ma non per questo meno generiche. Non esiste una cosa come la crisi energetica, mi dicono, esagero, mi lascio trasportare da teorie della cospirazione, non ho nessuna idea di cosa sia la Fisica o la Geologia, i miei dati provengono da fonti dubbie (ma non so quali siano le fonti migliori che hanno loro), che in realtà il fracking sta cambiando il mondo, che gli Stati Uniti producono più petrolio che mai (dipende da cosa chiami petrolio, chiaro) o che i reattori autofertilizzanti ci forniranno energia nucleare infinita (chi se ne frega se in 60 anni di sperimentazione sono stati costruiti solo una decina di prototipi con un'infinità di problemi; questa tecnologia ce l'abbiamo dietro l'angolo, come quella della fusione, come l'auto elettrica...). Ancora e ancora la stessa cecità, la stessa mancanza di prospettiva, la conoscenza sommaria di quello che succede che non resiste alla minima analisi critica che so che queste persone potrebbero fare se solo gli dedicassero un pomeriggio. Ma non solo non si vede, c'è un desiderio inconscio di non vedere, un terrore implicito di quello che si potrebbe vedere, che barcollino le basi delle nostre convinzioni. E' meglio pensare che la scarsità di energia non ha niente a che vedere con l'attuale crisi economica, nonostante che secondo EuroStat nell'Europa dei 28 paesi il consumo di energia primaria è scesa di più del'8% fra il 2006 e il 2012:


E' meglio non guardare troppo nei dettagli e sperare che si troverà una soluzione a tutto. Allo stesso modo, è meglio pensare che del tema del cambiamento climatico se ne stia esagerando l'importanza e credere che le gravi alterazioni climatiche che stiamo vivendo quest'inverno (soprattutto nel Nord Atlantico, negli Stati uniti e in Giappone) non abbiano nulla a che vedere con la destabilizzazione della Corrente a Getto (Jet Stream) polare frutto dell'indebolimento della stessa in conseguenza del riscaldamento dell'Artico (questione che ho sicuramente spiegato nel post un anno senza estate e che mi valse parecchie critiche da parte di molti che mi hanno accusato di dire che nel 2013 non ci sarebbe stata l'estate – e che ovviamente hanno letto solo il titolo).

1. Con un Artico freddo e sano la corrente a getto polare è forte e veloce, ma con l'Artico riscaldato la corrente a getto perde forza.
2. E' quando le ciclogenesi ti mangiano e nevica alle canarie. 
Viñera de Ramón su elpais.com. 17 febbraio 2014

Tornando alla conversazione con la quale ho aperto il post, da qualche tempo ho trovato un modo adeguato di compensare le mie risposte brusche e socialmente inaccettabili.

- L'unica cosa che mi interessa è che i miei figli siano felici.

- – mi ha detto dopo qualche secondo – perché siano felici non c'è nessuna necessità di andare all'università – e dopo una breve pausa – e in realtà è quello che importa.

E' che in un momento di crisi ed incertezza come quello attuale, nel quale in fondo più di uno percepisce dentro di sé che la melodia sociale forse è una cacofonia, una posizione tanto dissonante come la mia si può far accettare solo facendo appello ai valori semplici, primari, fondamentali. La felicità, il benessere non materiale. Una melodia semplice per scappare da tanto frastuono.

Forse ciò di cui abbiamo bisogno non è di complicare i discorsi, ma di semplificarli.

Antonio Turiel, Febbbraio 2014.


giovedì 27 febbraio 2014

Big Oil scommette; noi tutti perdiamo

Da “Recharge” (pdf non in rete). Traduzione di MR


Di Jeremy Leggett

“Stiamo scommettendo la nostra intera vita economica nazionale nella speranza – di fatto nell'aspettativa – che il boom del fracking continuerà fino agli anni 20 inoltrati del 2000 e che, a un tasso e ad un costo che desideriamo, quantità significative di petrolio “ancora da scoprire” saranno in qualche modo trovate per soddisfare la domanda. Se una qualsiasi di queste cose si dimostra sbagliata non abbiamo un piano, nessuna alternativa e non abbiamo pensato per niente a come risponderemmo in un caso simile”.

Chi parla è l'esperto di sicurezza nazionale il Tenente Colonnello Daniel Davis, il veterano di 4 turni di servizio in Iraq e Afghanistan. Non sono un militare, ma ma mi preoccupo della sicurezza energetica del mio paese allo stesso modo in cui lui lo fa del suo. Nel Regno Unito, il governo, il servizio civile e gran parte delle grandi aziende energetiche sembrano perfettamente soddisfatti di replicare il grande azzardo in corso negli Stati Uniti. Il 10 dicembre, il Tenente Comandante Davis ed io abbiamo convocato a Washington e Londra, in collegamento video, incontri di persone che condividono le nostre preoccupazioni sul rischio di una crisi petrolifera globale.

Abbiamo anche invitato persone chiave che non lo sono, ma che erano interessate a provare, al di là della propaganda, che il dibattito sulla politica energetica sembra attrarre in questi giorni. Fra coloro che si sono uniti a noi c'erano militari in pensione, ufficiali militari, esperti di sicurezza, alti dirigenti di un'ampia gamma di industrie e politici di tutti i principali partiti, compresi due ex ministri britannici. Abbiamo cominciato con una presentazione di Mark Lewis, un ex capo della ricerca energetica della Deutsche Bank. Con questo retroterra, ci si potrebbe aspettare che Lewis sia un discepolo della narrazione convenzionale dell'abbondanza di petrolio nei mercati. Molti dei suoi pari lo sono. Ma lui ha suggerito tre grandi segni di avvertimento nell'industria petrolifera che puntano ad una narrazione contraria di problemi incombenti per l'offerta: alti tassi di declino, impennata della spesa di capitale e crollo delle esportazioni. I tassi di declino di tutti i giacimenti di petrolio greggio convenzionale in produzione oggi sono spettacolari; la IEA prevede un crollo della produzione da 69 Mb/g di oggi a soli 28 Mb/g nel 2035. L'attuale produzione totale globale di tutti i tipi di petrolio è di circa 91 Mb/g.

Considerate la spesa necessaria per cercare di compensare quel divario. Gli investimenti per lo sviluppo di giacimenti petroliferi e per l'esplorazione sono quasi triplicati in termini reali dal 2000: da 250 miliardi di dollari a 700 miliardi di dollari nel 2012. L'industria sta spendendo sempre di più per sostenere la produzione e la sua redditività riflette questa tendenza, nonostante il perdurare del prezzo del petrolio alto. Nel frattempo, il consumo vola nei paesi del OPEC. Di conseguenza, le esportazioni globali di petrolio greggio sono declinate dal 2005. E' difficile confondere questi dati e non vedere una crisi petrolifera in arrivo, conclude Lewis. Che dire della recente aggiunta di 2 Mb/g di nuova produzione di petrolio, del boom che è stato lanciato come “ciò che cambia i giochi” e la strada verso“l'Arabia Saudita" da parte dei tifosi dell'industria? Il veterano di Geological Survey of Canada, David Hughes, che ha condotto l'analisi più dettagliata dello scisto Nord Americano al di fuori delle aziende di petrolio e gas, ha offerto alcuni punti di vista che fanno riflettere su questo. I suoi dati mostrano i tassi di declino prematuro spettacolarmente alti nei pozzi di gas e petrolio di scisto (più correttamente conosciuto come tight oil) significano che servono alti ritmi di trivellazione solo per mantenere la produzione. Questo problema è aggravato dal fatto che i “sweet spots” si esauriscono prima nello sviluppo dei giacimenti. Di conseguenza, la produzione di gas di scisto sta già calando in diverse regioni chiave di trivellazione e la produzione del tight oli nelle due regioni principali è probabile che raggiunga il picco fra il 2016 e il 2017. Queste due regioni, in Texas e Nord Dakota, permettono il 74% della produzione totale di tight oil statunitense.

Come Lewis, Hughes crede che l'industria del petrolio e del gas stia tirando per il naso il mondo verso una crisi energetica. Nel mio libro The Energy of Nations, descrivo come i think tank militari hanno avuto la tendenza di fiancheggiare l'industria, come Lewis e Hughes, che diffidano della narrazione cornucopiana della permanenza del petrolio. Uno studio del 2008 dell'esercito tedesco, la mette così: “Le barriere psicologiche fanno sì che fatti incontestabili vengano oscurati e portano quasi istintivamente al rifiuto di guardare in dettaglio all'interno di questo tema difficile. Il picco del petrolio, tuttavia, è inevitabile”. Questo oscuramento si estende ai media mainstream, che hanno entusiasticamente fatto eco ai mantra delle aziende petrolifere, fino al punto che le stesse parole “picco del petrolio” sono state ridotte a simbolo di un allarmismo senza fondamento. Non dovremmo mai dimenticare che nella corsa al collasso del credito, l'incombenza finanziaria ha schierato le stesse tattiche di pubbliche relazioni contro coloro che avvertivano sulla fragilità dei titoli garantiti da ipoteca.


Jeremy Leggett è il fondatore e presidente non esecutivo dell'azienda internazionale di fotovoltaico SolarcenturyIl suo nuovo libro, The Energy of Nations: Risk Blindness and the Road to Renaissanceè pubblicato da Routledge