martedì 21 ottobre 2014

I topi cominciano ad abbandonare la nave del fracking

Da “The Daily Impact”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron)

Di Tom Lewis

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Ecco cosa stanno cominciando a fare le persone al vertice dell'industria
 del petrolio riguardo la rivoluzione del petrolio: abbandonano la nave. 
Il primo segno di una nave condannata si dice sia la fuga improvvisa dei suoi topi. Il primo segno di un incendio in un teatro affollato non è il tipo che grida “al fuoco”, ma diverse persone con un buon olfatto che cominciano ad avviarsi furtivamente ma di proposito verso le uscite. Nel mondo della finta rivoluzione del fracking di petrolio e gas, le narici dei ratti e analogamente coloro che hanno l'olfatto sensibile stanno cominciando a ritirarsi. Vediamo quei nasi. Dobbiamo ancora rivedere qui la propaganda dell'industria? Come la fratturazione idraulica abbia cambiato tutto, come ora l'America abbia gas e petrolio abbondanti, come stiamo superando la Russia e l'Arabia Saudita, come siamo di nuove i numero uno al mondo, come siamo diretti verso l'indipendenza energetica? (Nessuno ha ancora avuto la faccia tosta di prevedere che stiamo per raggiungere l'indipendenza energetica, visto che è matematicamente impossibile, ma non dovrebbero tardare molto ormai, visto che stanno diventando disperati). L'ultima ripetizione della frase dell'industria ggio apparso sul New York Times intitolato “l'abbondanza del petrolio americano”, una canzone di petrolio senza fine, amen. Nel frattempo, uno dei maggiori trader di beni petroliferi del mondo – in altre parole, uno dei grandi topi che hanno giocato nel mercato del petrolio come se fosse un grande casinò, come se nessuno si facesse male con le loro macchinazioni – se ne sta andando in punta di piedi lungo i cavi di ormeggio della rivoluzione del petroli di scisto in cerca di un terreno più sicuro.

Il suo nome è Andrew John Hall e dice che la produzione di petrolio di scisto negli Stati Uniti sta per cadere in un dirupo. Non che gliene freghi granché. E' venerato dai suoi seguaci Masters of the Universe (Sì, venerato – lo chiamano il dio del mercato del petrolio greggio) a causa delle sue capacità all'interno del casinò del petrolio di ottenere 100 milioni di dollari all'anno in bonus dalla City Bank fino all'ultima estinzione di fiamma, quando la Fed li ha sospesi sulla base del fatto che sono stati osceni. Ora, Andrew sta facendo le sue puntate e quelle dei suoi clienti veneranti sul crollo della produzione del fracking negli Stati Uniti entro circa un anno (e sul mancato avvio dello stesso per diverse ragioni in altri paesi) e sul fatto che il petrolio greggio raggiunga quasi immediatamente i 150 dollari al barile.

I trader che possiedono contratti a lungo termine per la consegna di greggio ai prezzi odierni – 100 dollari o poco meno – faranno fortuna. Difficile sapere come li spenderanno, però, visto che i prezzi del petrolio al di sopra dei 100 dollari causano brutte recessioni in tutti i paesi industrializzati. Altri, personaggi del petrolio profondamente coinvolti nell'affare, sembra che si stiano avviando furtivamente verso le uscite, storcendo il naso. La Royal Dutch Shell, uno dei più grandi giocatori nel campo del fracking – ha accumulato almeno 13 miliardi di prestiti in 5 anni, a partire dal 2008 – sembra stia abbandonando l'edificio. Mentre sta rilasciando una cortina di dichiarazioni circa la “ristrutturazione... la ridefinizione... il rinnovato impegno” e cose simili, la compagnia sembra aver abbandonato l'affare dello scisto nordamericano (in cui, cosa interessante, non ha mai messo un soldo). La British Petroleum sembra stia andando similmente in punta di piedi verso la scritta USCITA. Ha arrotolato tutte le sue holding americane dello scisto in una compagnia che non porta neanche il suo nome (quanto si deve scendere in basso prima di essere troppo disonorevoli per essere riconoscibili come BP?) cosa che spesso è una mossa preliminare per un svendita. L'amministratore delegato della BP ora liquida la rivoluzione del fracking come un "affare magro, da margine basso” più adatto ad “operatori indipendenti”, altrimenti conosciuti fra i truffatori come “i più grandi pazzi”. E lui parla con entusiasmo di come farà bene la compagnia coi nuovi pozzi d'alto mare nel Golfo del Messico. Sì, deve andare proprio bene. Difficile vedere cosa potrebbe andare storto in questo.

Fatte molta attenzione ai cavi di ormeggio ed alle uscite nei prossimi mesi. Non vorrete associarvi alle prime persone in fuga (e che lasciano donne e bambini a sé stessi)  ma vorrete seguirne l'esempio. In nome delle vostre donne e bambini.



domenica 19 ottobre 2014

Crescita demografica, povertà e violenza: un commento.

di Jacopo Simonetta

Molti di noi ricorderanno che negli anni ’70 raggiungemmo i 4 miliardi di “bocche da sfamare”, come si diceva allora,  con un tasso di incremento di circa 70 milioni l’anno.    La sovrappopolazione era l’argomento del giorno; perfino nelle scuole se ne parlava come di una minaccia alla sopravvivenza stessa dell’umanità.    Alcuni paesi vararono anche programmi più o meno efficaci per limitare le nascite:  dalla semplice propaganda (come ad es. in Afghanistan), fino alla legge del figlio unico in Cina e le sterilizzazioni obbligatorie che costarono la vita a Sanjay Gandhi.

Poi, gradualmente ed impercettibilmente, il tema è passato nel dimenticatoio, mentre la “teoria della transizione demografica” veniva trasformata da ipotesi scientifica in articolo di fede e, infine, in comodo pretesto per evitare l’argomento; una tendenza proseguita finché dall'oblio siamo passati all'estremo opposto.  

Oggi siamo poco meno del doppio di allora (7,266 miliardi con analogo incremento di circa 70 milioni l’anno), ma da almeno un decennio siamo oggetto di  una campagna perlopiù indiretta, ma martellante a favore di un rilancio della natalità e/o  dell’immigrazione, invocate quale rimedio sovrano per una varietà stravagante di malattie reali e presunte delle nostre società: dalla crisi economica al debito pubblico, con coloriture diverse a seconda della fonte.   Di fatto, se oggi si chiede alla gente per strada quale sia il problema demografico, moltissimi rispondono convinti “che non nascono più bambini!” o “l’invecchiamento della popolazione”.

Solo molto di recente l’argomento sta tornando alla ribalta, ma in ambienti di nicchia e sfidando non pochi fulmini.   Per contribuire in qualche modo a rilanciare questo interessante dibattito, vorrei qui proporre un semplicissimo esercizio che ho personalmente fatto.    Avverto subito che i risultati possono essere inaffidabili se riferiti ai singoli paesi, ognuno dei quali ha una situazione peculiare.   Il mio scopo qui è solamente quello di verificare, a livello globale,  se è possibile che vi sia una correlazione fra natalità, povertà e criminalità.
I parametri che ho utilizzato sono i seguenti:

Povertà.   Ho selezionato i 60 paesi con il PIL pro-capite più basso (dati ONU relativi al 2012). I  limiti di questo parametro economico sono noti ed importanti, ma è l’unico disponibile.

Natalità.  Ho selezionato i 60 paesi con il più alto tasso di natalità  (stima ONU 2010).   Il tasso di crescita demografica può essere anche molto diverso a causa dei movimenti migratori e del diverso tasso di mortalità..

Criminalità.   Ho selezionato i 60 paesi con il più elevato tasso di violenza, valutato con il numero di omicidi per 100.000 abitanti (Dati Geneva declaration on armed violence and development 2011).   Il dato considera solo i morti da criminalità comune, non quelli per cause belliche.   In alcune volte la distinzione è praticamente impossibile, ma anche in questo caso il mio interesse è sulle tendenze generali, non sui casi particolari.






Disegnando i tre insiemi così costituiti risulta evidente che la stragrande maggioranza dei paesi ad elevata natalità sono anche particolarmente poveri ed afflitti da una criminalità particolarmente aggressiva.    Ben 45 stati su 60 ricadono infatti in tutti e tre gli insiemi contemporaneamente.   10 sono particolarmente prolifici e poveri, ma non turbolenti.   8 sono invece turbolenti, ma non particolarmente poveri e prolifici, solo 4 sono poveri e turbolenti, ma non prolifici; 4 sono molto poveri, ma non particolarmente turbolenti e prolifici; 3 sono invece prolifici e turbolenti, ma non poveri  ed, infine, 3 sono molto prolifici, ma né poveri né violenti.

Se riportiamo tutto ciò in una tabella, si evidenzia una gaussiana tipica.   Non sorprende, ma la ripidità della gaussiana suggerisce un grado di correlazione molto stretto fra tutti e tre questi fattori.


Si dovrebbe allora cercare di capire quali sono le relazioni tra di essi.
Tra natalità e violenza la correlazione è sicuramente indiretta, mediata dalla povertà dal momento che gli assassini sono prevalentemente maschi giovani; più raramente padri di famiglia ed eccezionalmente donne, men che meno mamme.    Viceversa, che la povertà sia una concausa importante della criminalità credo che si possa dare per assodato, anche se certamente vi giocano anche altri fattori sociali e culturali.

Dunque la chiave del sistema dovrebbe essere il rapporto fra natalità e povertà, indagare il quale è molto complesso sia per l’ingombrante presenza di teorie probabilmente superate (ma profondamente radicate e politicamente molto comode), sia perché non è affatto detto che tutte le società si comportino allo stesso modo.

Nelle sue linee generali, la “teoria della transizione demografica” fu concepita da  Adolphe Landry,  un economista corso legato agli ideali socialisti e “natalista” convinto.    Negli anni ’60 e ’70 l’effettiva evoluzione demografica dell’”emisfero occidentale” parve confermarne sperimentalmente la validità.   Da allora è divenuta e permane un elemento basilare per la cultura amministrativa ed per buona parte di quella accademica mondiale.   Uno di quei capisaldi che solo mettere in dubbio provoca reazioni variabili dal sorrisetto condiscendente all’ira funesta.

Eppure, se ad esempio, osserviamo quello che è avvenuto in Russia, troviamo una dinamica più complessa.

Fra il 1950 ed il 1970 circa, la natalità è rapidamente diminuita, in linea con quanto contemporaneamente accadeva al di qua dalla cortina di ferro.    Poi è tornata a crescere parallelamente ad un incremento della mortalità, indice di un progressivo peggioramento delle condizioni di vita.

Fin qui dunque la teoria di Landry risulta confermata.   Ma a cavallo del 1990 il collasso dell’economia ha prodotto sia un brusco aumento della mortalità, sia un precipizio della natalità che è poi tornata a crescere, mentre la mortalità diminuiva, man mano che la situazione socio-economica ritrovava un nuovo equilibrio e le condizioni di vita medie tornavano a migliorare.   Una dinamica simile è stata rilevata in tutti i paesi del blocco sovietico e qualcosa di simile, anche se meno traumatico, sta succedendo  in occidente.  Ad esempio, in Italia la natalità ha toccato un minimo alla metà degli anni '90, per poi risalire lievemente, in parte per la crescente presenza di immigrati (più prolifici), in parte in risposta alla citata campagna di propaganda,  Dal 2008, con la progressiva erosione degli standard medi di vita, la natalità avrebbe dovuto teoricamente aumentare, mentre è tornata flettere.

Figli per donna in Italia fra il 1945 ed il 2012.
Se passiamo ad osservare la più semplice dinamica delle popolazioni animali, troviamo che è sostanzialmente quella modellizzata da Lotka e Volterra.   In presenza di abbondanza di risorse la popolazione aumenta; aumentando erode le proprie risorse e degrada il proprio ambiente finché non si genera una situazione di penuria.   A questo punto la popolazione in questione si riduce, permettendo un recupero delle risorse e dell’habitat.    Certamente la demografia umana è più complessa sia per fattori culturali, sia per la possibilità odierna di spostare immani quantità di risorse da una parte all'altra del pianeta, ma le dinamiche storicamente riscontrate sono strutturalmente simili a quelle degli altri animali.

In sintesi dunque, la teoria della transizione demografica descrive bene alcuni fenomeni effettivamente accaduti, ma non altri.   L'idea che suggerisco è che il discrimine fra dinamiche simili a quella descritta da Landry ad alte più vicine al modello di Lotka-Volterra sia la prossimità od il superamento del limite di capacità di carico del territorio di riferimento.

Tornando alla nostra gaussiana, quello che qui suggerisco, senza alcuna pretesa di averlo dimostrato, è che, in prossimità od oltre la capacità di carico del territorio, l’elevata natalità  divenga la causa principale di povertà e, indirettamente, di criminalità.   In prospettiva, contribuisce quindi alla disintegrazione delle strutture sociali ed al collasso degli stati.
Un argomento complesso e criticabile sotto molti aspetti che, a mio avviso, richiederebbe una molto maggiore attenzione da parte di quelle istituzioni che hanno il personale, le informazioni ed i mezzi per affrontarli in modo approfondito.   Ma è improbabile che accada poiché "E' difficile far capire qualcosa ad un uomo il cui stipendio dipende dal fatto che non la capisca" (Upton Sinclair, "La storia segreta della guerra al cancro", 2007).


venerdì 17 ottobre 2014

Il barile costa sempre meno, ma non è una buona notizia

Originariamente pubblicato su "Greenreport"

La grande discesa: Petrolio, il prezzo non è giusto: il barile costa sempre meno, ma non è una buona notizia

Da sola, l'Italia in 5 anni ha perso il 25% dei propri consumi petroliferi

 [14 ottobre 2014]

di Ugo Bardi

Grande fermento nel mondo del petrolio: dopo cinque anni di prezzi relativamente stabili, il mitico “barile” sta scendendo da oltre i 100 dollari a sotto i 90, e la discesa sembra continuare. Cosa sta succedendo? Qualcuno ha trovato nuove grandi risorse? Oppure è l’Arabia Saudita che sta usando “l’arma del petrolio” per far cadere la Russia, l’erede del vecchio “impero del male” sovietico?

In realtà, non è niente di tutto questo. Non ci sono grandi nuove scoperte e le armi petrolifere dell’Arabia Saudita sono molto più spuntate di quanto non si legga sui giornali. Ma allora, perché i prezzi si abbassano? Ci sono delle buone ragioni, ma bisogna spiegarle e, soprattutto, spiegare perché il probabile abbassamento dei prezzi petroliferi che ci aspetta NON sarebbe una cosa buona; anzi sarebbe un disastro planetario.

Il petrolio è una risorsa limitata, ma soggiace anch’esso alle leggi della domanda e dell’offerta, come tutto quello che si compra e si vende su questo pianeta e che si trova sotto il controllo di quell’entità che chiamiamo “il mercato”.

Per il petrolio, ci sono due tendenze in contrasto. Una è il graduale esaurimento delle risorse cosiddette “convenzionali”; ovvero quel petrolio liquido che si estrae a costi relativamente bassi dai pozzi che lo contengono. L’altra è la crescita produttiva del petrolio “non convenzionale”, ovvero liquidi combustibili che si ottengono, per esempio, trattando le sabbie bituminose, oppure biocombustibili, oppure il “petrolio di scisto”, quello che si ottiene mediante il “fracking.” Lo sviluppo rapido e impetuoso della produzione di petrolio non convenzionalesoprattutto petrolio di scisto negli Stati Uniti – ha compensato fino ad oggi il declino mondiale nella produzione del petrolio convenzionale; anzi, ha creato un moderato eccesso di offerta. Allo stesso tempo, molte delle economie più importanti sono in recessione e stanno riducendo i consumi.

L’Italia, per esempio, ha perso il 25% dei suoi consumi petroliferi negli ultimi cinque anni, e la discesa continua. Altre economie, come quella della Germania, sono in difficoltà, anche se non ancora in recessione. Questo causa una diminuzione della domanda. Quindi, i due fattori – aumento dell’offerta e diminuzione della domanda – vanno nella stessa direzione: il mercato vuole che il prezzo del petrolio si abbassi (e in effetti si abbassa). Teniamo conto che questi fenomeni sono spesso fortemente influenzati dalla percezione degli operatori finanziari: se tutti pensano che il prezzo del petrolio debba calare, allora giocheranno al ribasso e questo farà calare sempre di più il prezzo.

In pratica, rischiamo di vedere non soltanto un calo dei prezzi, ma addirittura un tracollo, come quello del 2008-2009. Molta gente pensa che l’abbassamento dei prezzi del petrolio sia una cosa buona. In realtà, non è affatto così e se vedremo ripetersi lo scenario del 2008-2009, sarà un vero disastro (come già lo era stato allora). Il problema è che le risorse petrolifere non sono tutte uguali: produrre certi tipi di petrolio costa molto caro. Tirar fuori petrolio dalle sabbie o dagli scisti bituminosi, per esempio, costa più caro che tirarlo fuori dai pozzi tradizionali.

Allora, cosa succede se i prezzi si abbassano? Beh, succede che estrarre e mettere sul mercato certi tipi di petrolio non è più conveniente. Ne consegue che non lo si produce più. Chi mai vorrebbe produrre in perdita? In pratica, se i prezzi si abbassano, la produzione mondiale diminuisce: avete sentito parlare del “picco del petrolio”? E' proprio questo: il “picco” non vuol dire che il petrolio finisce; assolutamente no. Vuol dire solo che non conviene più produrne tanto come se ne produceva prima – e quindi se ne produce di meno.

Ed è esattamente quello che può succedere nel prossimo futuro. Il petrolio a oltre 100 dollari al barile consentiva all’industria di mantenere la produzione abbastanza costante – anzi, di aumentarla leggermente. Il petrolio a prezzi più bassi non lo consente più, e forza l’industria a ridurre la produzione. Questo porta, fra altre cose, alla chiusura di molte raffinerie, come sta accadendo qui in Italia.

Alla fine dei conti, il petrolio costerà di meno, ma sarà un’abbondanza soltanto apparente perché ma non avremo i soldi per pagarlo. Che ci volete fare? È il mercato! Ma, soprattutto, è la nostra insipienza a farci continuare a credere che il petrolio possa durare per sempre. Non può. Cominciamo a pensarci già ora.


Per approfondire: “Il crollo dei consumi petroliferi in Italia” http://ugobardi.blogspot.it/2014/01/laltro-lato-del-picco-il-collasso-del.html

“Le armi spuntate dell’Arabia Saudita contro la Russia” http://ugobardi.blogspot.it/2014/10/scatenare-larma-del-petrolio-contro-la.html -

See more at: http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/petrolio-prezzo-non-giusto-barile-costa-sempre-meno-non-buona-notizia/#sthash.C8bfApQY.dpuf

giovedì 16 ottobre 2014

Il Picco del Petrolio è qui: il punto di vista di Barbastro

DaResource Crisis”. Traduzione di MR


Antonio Turiel, famoso per il suo blog “The Oil Crash”, parla all'incontro internazionale “Oltre il Picco del Petrolio” organizzato a Barbastro dall'UNED.  Sembra che stiamo fissando proprio la brutta faccia del picco.

Di Ugo Bardi

Quando ho cominciato a lavorare sul picco del petrolio, intorno al 2001, si trattava di un gioco intellettuale che giocavo insieme ad altri interessati allo stesso tema. Abbiamo elencato risorse e riserve, abbiamo fatto modelli, disegnato curve, estrapolato dati ed altre cose del genere. Ma il picco era sempre nel futuro. Alcuni modelli lo prevedevano in pochi anni, altri in un decennio o più, E' vero, non era mai un futuro remoto, ma non era nemmeno nel presente. Sapevamo che il picco avrebbe portato un sacco di problemi, ma non eravamo davvero in grado di visualizzarli.

Poi abbiamo scoperto che il petrolio non era la sola risorse destinata al picco. Abbiamo scoperto che il meccanismo del picco è molto generale e colpisce qualsiasi cosa possa essere sovra-sfruttata. C'era un picco del gas, del carbone, dell'uranio e, col tempo – il “picco dei minerali”, che è stata l'origine del mio libro “Extracted”. In qualche modo, il picco del petrolio è tornato ad essere solo uno dei tanti picchi previsti per il futuro. Ancora importante, certamente, ma non proprio così fondamentale come avevamo pensato all'inizio. Non ho mai perso interesse per il picco del petrolio, ma in qualche modo è passato da una posizione centrale ad una di retrovie fra i miei interessi.

Ma le cose cambiano, e rapidamente. Due giorni di conferenze a Barbastro sono state un duro reminder del fatto che il petrolio è ancora la risorsa più importante del mondo. Alla conferenza, diversi oratori notevoli si sono susseguiti per mostrare i loro dati e i loro modelli sul picco del petrolio Antonio Turiel, Kjell Aleklett, David Hughes, Gail Tverberg, Michael Hook, Pedro Prieto. Da ciò che hanno detto, è chiaro che il futuro non si tratta più di discutere di risorse e riserve, mettendo in fila barili di petrolio come se fossero pedine con cui giocare su una gigantesca scacchiera. Non si tratta più di disegnare curve e di estrapolare dati. No: si tratta di soldi. Non stiamo finendo il petrolio, stiamo finendo le risorse finanziarie necessarie ad estrarlo.

Durante gli anni passati, l'industria petrolifera ha speso enormi quantità di denaro per fare uno sforzo immenso nello sviluppo di nuove risorse. Fino ad ora, queste risorse, in aprticolare il petrolio e il gas di scisto, hanno retto il gioco, crescendo abbastanza velocemente da compensare il declino delle risorse convenzionali. Come ha detto Arthur Berman, “La produzione da scisto non è una rivoluzione; è una festa di pensionamento”. Oggi, non c'è niente all'orizzonte che possa ripetere il piccolo miracolo del petrolio e del gas di scisto, che sono riusciti a posticipare il picco di alcuni anni. La festa potrebbe davvero essere finita.

Ciò che svela il gioco sono i dati che mostrano che le spese di capitale (“capex”) nei nuovi progetti stanno crollando e che l'industria si sta tirando fuori da gran parte dei progetti costosi. E' un gioco in cui non si può vincere: più si estrae, più servono soldi per continuare ad estrarre. Ma di più soldi si ha bisogno, minori sono i profitti. E quando il  grande mercato finanziario si rende conto che i profitti stanno crollando, a quel punto è la fine del gioco: niente soldi, niente petrolio.

Quindi il picco del petrolio è qui, di fronte a noi. Potrebbe essere quest'anno o il prossimo o forse anche un po' più tardi. Ma non è più un gioco intellettuale astratto: sta colpendo direttamente le nostre vite. Guardate il mondo intorno a noi: non pensate che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nel tessuto stesso di quella che a volte chiamiamo “civiltà”? Quel qualcosa potrebbe proprio essere il picco del petrolio.

Abbiamo cominciato a lavorare sul picco del petrolio pensando che se fossimo riusciti ad avvertire il mondo del pericolo che abbiamo di fronte, qualcosa sarebbe stato fatto per risolvere il problema. Non ci siamo riusciti: qualcosa è stato fatto, ma troppo poco e troppo tardi. Ora stiamo attraversando il picco e guardando l'altro lato. Ciò che vediamo non è bello. Possiamo solo sperare che non sia peggiore di quanto sembri.

Vorrei ringraziare David Lafarga Santorroman e tutto lo staff della UNED per il loro entusiasmo e dedizione nell'organizzazione del secondo incontro sul picco del petrolio a Barbastro. Per una descrizione dettagliata dell'incontro, vedi questo post di Antonio Turiel . 


lunedì 13 ottobre 2014

Scatenare l'arma del petrolio contro la Russia: come distruggere un grande impero

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

La Pitonessa dell'oracolo di Delfi  disse al Re Creso che se avesse attaccato la Persia “un grande Impero verrà distrutto”. Creso ha fatto esattamente questo, ma il grande impero che è caduto non è stato quello Persiano, ma il suo. 
di Ugo Bardi


Ricordate la vecchia Unione Sovietica? Denominata “L'impero del male” da Ronald Reagan nel 1983, è scomparsa in uno sbuffo di fumo nel 1991, schiacciata da una montagna di debiti. Le origini del collasso finanziario dell'Unione Sovietica sono piuttosto ben conosciute: erano collegate alla diminuzione dei prezzi del petrolio che, nel 1985, sono scesi dall'equivalente di più di 100 dollari (di oggi) a barile del 1980 a circa 30 dollari (di oggi) e sono rimasti bassi per più di un decennio. L'Unione Sovietica si affidava alle esportazioni di petrolio per la sua economia e, in aggiunta, era appesantita da enormi spese militari. Semplicemente non poteva prendere una goccia di più di un fattore tre dei suoi proventi petroliferi.

Esiste una leggenda persistente secondo la quale la caduta dell'Unione Sovietica era stata progettata da un accordo segreto fra le Potenze Occidentali e il governo saudita che si sono accordati per aprire i rubinetti dei loro giacimenti petroliferi per abbassare i prezzi del petrolio. Questa è, in effetti, nient'altro che una leggenda. Non solo non abbiamo prove che un tale accordo segreto sia mai esistito, ma non è neanche vero che i sauditi abbiano giocato il ruolo attribuito loro. Negli anni 80, l'Arabia Saudita, in realtà, ha fortemente cercato di evitare il crollo dei prezzi del petrolio riducendo (piuttosto che aumentando) la sua produzione di petrolio. Senza molto successo. (Immagine a destra da Wikipedia).


E' vero, tuttavia, che dopo la prima grande crisi petrolifera degli anni 70, la produzione mondiale
di petrolio ha ripreso a crescere intorno al 1985. Le ragioni di questa ripresa non possono essere attribuite al lavoro di un gruppo di cospiratori seduti in una stanza fumosa. Piuttosto, è stata il risultato di diversi giacimenti petroliferi che iniziavano la loro fase di produzione, principalmente in Alaska e nel Mare del Nord. E' stata questa l'origine della diminuzione dei prezzi e, indirettamente, della caduta dell'Unione Sovietica. (Immagine a sinistra daWikipedia).


Oggi, la produzione di petrolio russa si è ripresa dal crollo dei tempi sovietici e l'economia russa dipende fortemente dalle esportazioni di petrolio, proprio come è stato per la vecchia URRS. Data la situazione politica con la crisi ucraina, ci sono speculazioni secondo le quali l'Occidente stia cercando di far cadere la Russia ripetendo lo stesso trucco che è sembrato avere successo nel far cadere il vecchio “Impero del male”. Infatti, stiamo vedendo che i prezzi del petrolio stanno scendendo al di sotto dei 90 dollari al barile dopo anni di stabilità intorno ai 100 dollari. E' una fluttuazione o una tendenza? Difficile a dirsi, ma viene interpretata come lo scatenamento dell'”arma del petrolio” contro la Russia da parte dell'Arabia Saudita.

Tuttavia. Il mondo di oggi non è il mondo degli anni 80. Un problema è che l'Arabia Saudita ha mostrato diverse volte di essere in grado di abbassare la produzione, ma mai di aumentarla significativamente più in alto degli attuali livelli. Si potrebbe anche discutere sul fatto che saranno in grado di mantenerli in futuro. Quindi, non c'è niente oggi che potrebbe giocare il ruolo che i giacimenti dell'Alaska e del Mare del Nord hanno giocato negli anni 80. E' stato detto molte volte che ci servirebbe “una nuova Arabia Saudita” (o più di una) per compensare il declino dei giacimenti petroliferi mondiali, ma non l'abbiamo mai trovata.

Eppure, ci sono buone ragioni per pensare che potremmo assistere ad una diminuzione dei prezzi del petrolio nel prossimo futuro. Un fattore è il crollo di diverse grandi economie mondiali (vedi l'Italia). Questo potrebbe portare ad un crollo della domanda di petrolio e, di conseguenza, a prezzi più bassi (una cosa simile è avvenuta con la crisi finanziaria del 2008). Un altro fattore potrebbe essere la rapida crescita della produzione di petrolio non convenzionale (in gran parte sotto forma di “petrolio di scisto”) rappresentata dagli Stati Uniti. Questo petrolio non viene esportato in grandi quantità, ma ha ridotto la domanda statunitense di petrolio nel mercato mondiale. Mettendo insieme questi due fattori, potremmo facilmente assistere ad una diminuzione considerevole dei prezzi del petrolio nel prossimo futuro, anche se difficilmente duratura. Così, sarebbe questa l'”Arma del petrolio” che metterà in ginocchio la Russia? Forse, ma, come con tutte le armi, ci sono effetti collaterali da considerare.

Come abbiamo detto, il petrolio non convenzionale sta giocando un ruolo importante nel mantenimento della produzione mondiale. Il problema è che il petrolio non convenzionale è spesso una risorsa costosa. Inoltre, nel caso del petrolio di scisto, il tasso di declino dei pozzi è molto rapido: l'arco di vita di un pozzo è solo di pochi anni. Così, l'industria dello scisto necessita di un continuo afflusso di investimenti per continuare a produrre ed è molto sensibile ai prezzi del petrolio. La sua recente ascesa è stata il risultato dei prezzi alti; i prezzi bassi potrebbero causarne la morte. Al contrario, i giacimenti di petrolio convenzionale hanno un arco di vita di decenni e sono relativamente immuni dalle variazioni a breve termine dei prezzi. Se guardiamo la situazione in questi termini, potremmo legittimamente chiederci contro chi è puntata l'arma petrolifera. L'industria non convenzionale statunitense potrebbe esserne la prima vittima.

La storia, come sappiamo tutti, non si ripete mai, ma fa rima. Il re Creso, ai suoi tempi, ha creduto all'oracolo di Delfi quando gli ha detto che avrebbe potuto far crollare un grande impero se avesse attaccato la Persia. Non si è reso conto che stava per distruggere il suo stesso impero. Per noi potrebbe esserci in serbo qualcosa di simile nei prossimi anni: una diminuzione dei prezzi del petrolio potrebbe far cadere un grande impero. Quale, tuttavia, è tutto da vedere.




sabato 11 ottobre 2014

Herman Daly: tre limiti alla crescita.

Di Herman Daly
Articolo pubblicato la prima volta su Center for the Advancement of the Steady State Economy.   
Traduzione e commento di Jacopo Simonetta


Sostanzialmente, quest’articolo riassume gli stessi concetti espressi in un altro, precedentemente tradotto su questo blog.    In un periodo in cui siamo quotidianamente assillati dalla necessità di rilanciare la crescita, forse non è male ricordarsi che la crescita del PIL può generare sia ricchezza che povertà, a seconda del contesto in cui si verifica.

In questo articolo vi è anche un’osservazione circa gli effetti della tecnologia che l’illustre autore discute, ma senza trarne le conclusioni.   Per questo motivo, alla fine dell’articolo mi permetterò un commento alla traduzione.

Man mano che la produzione (PIL) cresce, il suo margine utile declina perché si soddisfano prima i bisogni più importanti.   Allo stesso modo, i costi inflitti dalla crescita aumentano perché, via via che l’economia si espande all’interno dell’ecosfera, sacrifichiamo per primi i meno importanti fra i servizi ecologici (entro i limiti in cui li conosciamo).   L’aumento dei costi e la riduzione dei vantaggi connessi con la crescita è schematizzata nel diagramma seguente.


Nel diagramma possiamo distinguere tre diversi concetti di limite alla crescita.
  
1 – Il “limite della futilità” si raggiunge quando l’utilità marginale della produzione raggiunge lo zero-   Anche in assenza di costi di produzione, c’è un limite a quanto possiamo consumare e goderne.   C’è un limite a quanti beni possiamo utilizzare in un dato tempo così come ci sono limiti al nostro stomaco ed alle capacità sensoriali del nostro sistema nervoso.    In un mondo con molta povertà, ed in cui il povero osserva il ricco che apparentemente gode sempre più della sua ricchezza , il limite della futilità si pensa che sia molto lontano, non solo per i poveri, ma per tutti.   Mediante il postulato di “non sazietà” l’economia neoclassica nega formalmente il concetto di limite della futilità.   Ciò nondimeno, studi dimostrano che al di là di una soglia, la felicità auto-valutata (utilità completa) cessa di crescere con il PIL, rafforzando la rilevanza di questo limite.
  
2 – Il “Limite della catastrofe ecologica”  è rappresentato da una ripida crescita tendente alla verticale della curva dei costi marginali.   Qualche attività umana, o nuova combinazione di attività, può indurre una reazione a catena, od il superamento di un punto critico, ed il collasso della nostra nicchia ecologica.   Il principale candidato per il limite della catastrofe attualmente è il cambiamento climatico indotto dai gas-serra emessi per perseguire la crescita economica.   Dove questo limite si situa lungo l’asse orizzontale rimane incerto, ma devo rimarcare che il presumere un graduale continuo aumento della curva dei costi marginali è assolutamente ottimistico.     Data la nostra scarsa comprensione di come funziona l’ecosistema, non possiamo essere sicuri di avere correttamente sequenziato il sacrificio dei servizi ecologici dai meno ai più importanti.   Perseguendo la crescita, possiamo ignorantemente sacrificare un servizio ecosistemico vitale al posto di uno banale.    Quindi la curva dei costi marginali in realtà cresce zigzagando in modo discontinuo.   Ciò rende difficile separare il limite della catastrofe dal terzo e più importante limite: il limite economico.
  
3 - Il “ Limite economico” è definito dalla parità fra costi e benefici marginali e conseguente massimizzazione del beneficio netto.   La buona notizia con il limite economico è che dovrebbe essere il primo limite che si incontra.    Certamente arriva prima del limite di futilità e facilmente prima del limite della catastrofe anche se ciò, come già osservato, non è certo.   Al peggio, il limite della catastrofe può coincidere con il limite economico.   Perciò è molto importante stimare i rischi di catastrofe ed includerli il più possibile nella curva dei costi.   

Dal grafico risulta evidente che l’incremento di produzione e consumo si può chiamare correttamente “crescita economica” fino al limite economico.   Oltre questo punto diviene crescita anti-economica perché fa crescere i costi più rapidamente dei vantaggi rendendoci sempre più poveri, non sempre più ricchi.   Disgraziatamente pare che perseveriamo a chiamarla “crescita economica”!   Difatti non troverete il termine “Crescita anti-economica” in nessun testo di macroeconomia.   Ogni aumento del PIL è chiamato “crescita economica” anche se fa crescere i costi più rapidamente dei benefici.

Gli economisti noteranno che la logica appena utilizzata è familiare in microeconomia – La parità fra costi marginali e benefici marginali definisce la dimensione ottimale di un’unità microeconomica, sia questa un’azienda od una famiglia.   Questa logica non è tuttavia applicata in macroeconomia il cui obbiettivo è il tutto e non le sue parti.   Quando una parte si espande all'interno di un Tutto delimitato, impone dei costi alle altre Parti che devono stringersi per fargli spazio.   Viceversa, quando il Tutto stesso si espande, si pensa che non imponga costi aggiuntivi in quanto non sposta niente, espandendosi nel vuoto.   Ma il sistema macroeconomico non è il Tutto.    Anch'esso è una parte, una parte di una più grande economia della natura, l’ecosfera, e la sua crescita infligge dei costi al Tutto delimitato che devono essere presi in conto.   Ignorare questo fatto conduce molti economisti a ritenere che la crescita del PIL non possa mai essere antieconomica.
Economisti standard possono accettare questo diagramma come una rappresentazione statica, ma argomentano che in un mondo dinamico la tecnologia sposterà la curva dei benefici marginali verso l’alto e quella dei costi verso il basso, spostando l’intersezione (limite economica) sempre verso destra, cosicché la crescita continua rimane sia desiderabile che possibile.   Tuttavia i sostenitore dello slittamento delle curve macroeconomiche dovrebbero ricordare tre cose.   

Primo, la crescita fisica  della macroeconomica è comunque limitata dalla sua dislocazione di un’ecosfera delimitata e dalla natura entropica della sua produzione.  Secondo, La temporalità delle nuove tecnologie è incerta.   La tecnologia attesa potrebbe non essere inventata o divenire disponibile solo dopo che abbiamo superato il limite economico.   Dobbiamo allora sopportare una crescita antieconomica aspettando e sperando che le curve slittino?    Terzo, ricordiamoci che le curve possono slittare anche in senso contrario, spostando il limite economico verso sinistra.   Lo sviluppo tecnologico del piombo tetraetile e dei clorofluorocarbonati ha spostato la curva dei costi verso l’alto o verso il basso?   E che dire dell’energia nucleare?    

L’adozione di un’economia stazionaria ci consente di evitare di essere spinti al di là del limite economico.   Ci consente di valutare con calma la nuova tecnologia  piuttosto che lasciarla  spingere ciecamente una crescita che potrebbe essere antieconomica.   E la stazionarietà ci assicura contro il rischio di catastrofe ecologica che aumenta con la crescita e l’impazienza tecnologica.


A chiosa dell’articolo di Daly, vorrei osservare che, curiosamente, l'illustre autore non evidenzia il maggiore fra i rischi connessi con lo “slittamento” del limite economico indotto dal progresso tecnologico.   Così facendo, infatti, la tecnologia inevitabilmente avvicina il limite economico a quello di catastrofe, rendendo il superamento di questo sempre più probabile man mano che la tecnologia diviene più potente.

Catastrofi locali indotte da imprese industriali ne sono avvenute e ne stanno avvenendo molte.   Le tar sands canadesi ed il marmo apuano sono due esempi tipici in cui una tecnologia molto avanzata sta mantenendo il limite economico ben oltre il limite della catastrofe.

Catastrofi globali indotte dalla tecnologia non ne abbiamo ancora viste, ma esempi catastrofi di portata regionale in cui intere civiltà sono collassate a cause del superamento dei limiti ecologici ne abbiamo invece a bizzeffe.   Questo è un altro fra i numerosi argomenti che inducono a temere che la tecnologia possa essere in realtà proprio la causa principale delle ricorrenti tragedie che hanno caratterizzato la storia dell’umanità.    Un’ipotesi certamente discutibile, ma che la maggior parte delle persone si rifiuta anche di prendere in considerazione.   

Perfino nel caleidoscopico dell’ambientalismo, del “picchismo” ed affini la fiducia nel potere taumaturgico della tecnologia è profondissimamente radicata. 
Non potrebbe essere altrimenti.    L’uomo, come specie, si è evoluto esattamente sviluppando la capacità di produrre tecnologia.   E’ questa la principale caratteristica distintiva ed identitaria della nostra specie; chiedere ad un umano di diffidare della tecnologia è come dire ad un gatto che i suoi artigli ricurvi potrebbero condurlo in perdizione.   Oppure come diffidare un coniglio dal saltare.   Eppure, se osserviamo i processi che conducono all’estinzione delle specie troviamo che sono proprio le specie più mirabilmente adattate ad una determinata condizione ambientale le prime a scomparire quando l’ambiente cambia.

Che l’ambiente globale stia cambiando molto rapidamente ed irreversibilmente è un fatto su cui non si può che concordare, ma quando si passa a discutere sulla strategia evolutiva da adottare, non esistono due persone che la pensano esattamente allo stesso modo.   Ciò non significa che l’evoluzione non ci sarà.   

Ci sarà, anzi è già in corso, solo che non potremo pianificarla come ci piacerebbe; bensì dovremo procedere per tentativi ed errori, come abbiamo sempre fatto fin dai tempi dei nostri antenati procarioti.