domenica 7 dicembre 2014

Discorso felice sul clima

DaClub Orlov”. Traduzione di MR


Mathiole
[Aggiornamento per tutti gli altri: ho avuto insetti che si sono spiaccicati sul mio parabrezza e che sono più intelligenti di questi negazionisti climatici i cui commenti non mi metto nemmeno a leggere. Ignorateli più che potete.]

[Aggiornamento per negazionisti climatici: risparmiatemi per favore il disturbo di segnalare i vostri commenti come spam. Questo blog non è per l'ignorante ostinato o per l'illetterato scientifico, quindi un cordiale addio a tutti voi].

Il patto climatico non vincolante che Stati Uniti e Cina hanno appena firmato permetterà alle concentrazioni atmosferiche di CO2 della Terra di arrivare alle 500 ppm ed oltre per la fine del secolo, ben al di là dell'attuale concentrazione di 400 ppm. Storicamente, questa concentrazione è stata sufficiente per produrre un Artico senza ghiaccio, livelli dell'oceano significativamente più alti e un ambiente che è improbabile sia in grado di sostenere grandi popolazioni umane.

Secondo uno studio del novembre 2011 pubblicato su Science, “Nella nostra attuale direzione delle emissioni, i livelli di CO2 nel 2100 toccheranno livelli visti per l'ultima volta quando la Terra era più calda di 26°F (16°C)”. Gli scienziati che fanno parte del IPCC hanno avvertito che solo un aumento di 4°C significherà che “le persone non saranno in grado di farcela, lasciamo stare il fatto di lavorare produttivamente, nella parte più calda dell'anno”.

In breve, questo accordo non fa niente per prevenire un disastro completo, totale e non mitigato che è probabile che significhi la fine dell'agricoltura, della civiltà urbana e potrebbe condannare gli esseri umani, insieme a gran parte delle altre specie di grandi vertebrati, all'estinzione.

Allo stesso tempo, May Boeve, direttrice esecutiva di 350.org, aveva questo da dire: “Non è una coincidenza che dopo la più grande mobilitazione per il clima della storia, i capi mondiali stiano intensificando la loro ambizione sull'azione climatica. Questo annuncio è un segno che il Presidente Obama sta prendendo seriamente la sua eredità climatica ed è disposto a resistere ai grandi inquinatori”.

Forse è il momento di rinominare 350.org in qualcosa di più vicino alla realtà. Questa organizzazione ha ovviamente perso la propria battaglia per limitare le concentrazioni di CO2 a 350 ppm e il fatto che i suoi capi stiano cantando vittoria e vogliano continuare la battaglia può significare solo una cosa: non c'è mai stata una battaglia, solo qualche solito ed inutile politichese.

Naturalmente, la Casa Bianca è stata anche veloce a prendersi il merito, dichiarando che “il nuovo obbiettivo degli Stati Uniti raddoppierà il ritmo delle riduzione dell'inquinamento da carbonio dal 1,2% all'anno in media durante il periodo 2005-2020 al 2,3-2,8% all'anno in media fra il 2020 e il 2025”.


Su questo sfondo di inconfondibile fallimento dell'ambientalismo, ci sono riduzioni reali delle emissioni di biossido di carbonio che hanno luogo negli Stati Uniti – sicuramente troppo piccole per salvarci, ma ciononostante reali. La ragione per cui hanno luogo è che l'economia statunitense sta diventando sempre più svuotata. A questo tasso, agli Stati Uniti non rimarrà gran parte dell'economia industriale rimasta all'interno del quadro temporale affrontato in questo accordo climatico. La disponibilità di Obama di formare denota, fra le altre cose, un riconoscimento del collasso economico in atto ed un'ipotesi per la quale questo potrà soltanto accelerare. Il suo “2,3-2,8% all'anno in media” stabilisce un limite superiore ottimistico sulla lentezza con la quale gli Stati Uniti collasseranno.

La situazione della Cina è piuttosto diversa. Firmando l'accordo climatico, il governo cinese ha fatto buon gioco rispetto ad un pubblico sempre più irritato dalla devastazione ambientale che non può ignorare, compresa l'aria sporca, i fiumi pieni di maiali morti ed altri miracoli del genere. Allo stesso tempo, la leadership cinese vede ancora la crescita economica come qualcosa che serve per mantenere la stabilità politica e la crescita economica a sua volta richiede di bruciare più combustibili fossili.

Sì, si parlava di “rinnovabili” come l'eolico e il solare, ma le installazioni di eolico e solare vengono costruite e mantenute usando una base industriale che va a combustibili fossili. Fornisco energia solo quando è soleggiato e/o ventoso e sono incapaci di fornire il carico di base costante che una società industriale richiede. Si è parlato anche di fonti di energia “zero carbon” come il nucleare e il piano richiede che la Cina costruisca un terawatt aggiuntivo di generazione di energia nucleare, ma si deve tenere a mente che le centrali nucleari consumano una prodigiosa quantità di energia da combustibili fossili durante la loro fase di costruzione decennale, per poi ripagarla quando entrano in funzione, ma continuano poi a consumare energia da combustibili fossili per un futuro indefinito – o fondono come Fukushima Daiichi in Giappone.

A differenza degli Stati Uniti che, una volta che l'attuale bonaccia dalla vita breve del fracking sia finita, torneranno a destreggiarsi fra esaurimento delle risorse e collasso economico, la Cina sta costruendo due enormi gasdotti per collegarsi alle abbondanti riserve russe che, a differenza del molto costoso “tight gas” prodotto negli Stati Uniti col fracking, può essere prodotto in modo molto conveniente. Ciò potrebbe permettere all'economia cinese di continuare a crescere per un po' e di placare la sua popolazione riducendo il problema dello smog urbano riducendo la propria dipendenza dal carbone.

Così, questo accordo climatico sembra significare le seguenti cose:

1. Gli Stati Uniti continueranno a collassare, persino l'amministrazione Obama dà questo per scontato ed ha stabilito un limite di sicurezza superiore su quanto lentamente si dipanerà questo collasso.

2. La Cina continuerà a crescere, divorando ancora più riserve, finché non si romperà qualcosa (cosa che succederà).

3. Gli attivisti del clima negli Stati uniti continueranno a vantarsi, aspettandosi che abbiano ottenuto qualcosa di diverso dalla sconfitta.

sabato 6 dicembre 2014

Pausa? Quale Pausa?




Addio "pausa": è probabile che il 2014 sarà l'anno più caldo mai registrato

Gli ultimi dati indicano che il 2014 forse non ce la farà per un pelo a fare il record di caldo di tutti i tempi. Comunque, ci è andato molto vicino e la famosa "pausa" del riscaldamento globale si rivela sempre di più una bella bufala. (UB)


Da “Skeptikal Science”. Traduzione di MR

L'analisi globale mensile di ottobre è stata pubblicata al Centro Nazionale dei Dati Climatici del NOAA (NCDC) e rivela che la temperatura globale di superficie di ottobre 2014 è la più calda in 134 anni di registrazioni. Questo a seguito del secondo aprile più caldo e il maggio, giugno, agosto e settembre più caldi mai registrati. Di fatto i primi 10 mesi del 2014, da gennaio ad ottobre, sono i più caldi di tale periodo mai registrati ed è molto probabile che il 2014 finisca per essere l'anno più caldo – soffiando il titolo al precedente anno record, il 2010. Altri gruppi di dati di superficie, come quelli del NASAGISTEMP e della Agenzia Meteorologica del Giappone, dicono a loro volta che il 2014 è sulla strada per infrangere il record annuale.


Figura 1 – Anomalie della temperatura globale di superficie da gennaio ad ottobre dal 1880 al 2014. Come indicato, il 2014 ora è il gennaio-ottobre più caldo mai registrato – che batte il 1998 e il 2010 (insieme) di 0,02°C. Immagine dal NCDC del NOAA.

Con ancora due mesi interi di dati che ci devono pervenire, potrebbe sembrare prematuro dichiarare che il 2014 sia un probabile anno record, ma il 2014 è diverso nella temperatura di superficie dal 2010, il precedente detentore del record. Gli anni di caldo record sono solitamente associati allo sviluppo di eventi di El Niño, mentre nel 2014 El Niño non è ancora nemmeno apparso. El Niño è un fenomeno periodico e che avviene naturalmente nell'Oceano Pacifico, un periodo in cui il calore anomalo viene scaricato dall'oceano tropicale in risposta al rilassamento temporaneo degli alisei. El Niño accumula tipicamente a metà anno, raggiunge il picco a dicembre-gennaio e poi si abbassa l'anno successivo. Il record del 2010 è avvenuto durante il secondo anno di calendario di un evento di El Niño e le temperature di superficie sono diminuite in quell'anno dopo aprile maggio. In confronto, il 2014 ha visto un riscaldamento da marzo in poi. Il 2014 e il 2010 sono su due traiettorie contrastanti: una tendenza prevalentemente al raffreddamento nel 2010 ed una tendenza generale al riscaldamento nel 2014.



Figura 2 – Confronto della anomalia della temperatura di superficie a questa data del 2014 (o, se preferite, la corsa equestre) degli attuali 5 anni più caldi mai registrati. Il 2010, il precedente anno record, qui è l'area chiave di interesse – il 2014 ora ha il naso avanti. Immagine adattate dal NCDC del NOAA.

Così, la ragione principale per cui il 2014 è probabile che infranga il record è che El Niño potrebbe essere appena in via di formazione e pertanto ci si aspetta che le temperature di superficie rimangano alte. Anche se El Niño non prende piede, una notevole onda Kelvin si sta dirigendo verso est attraverso la sub-superficie dell'Oceano Pacifico. Quando questo blob di acqua più calda del normale raggiunge la superficie dell'oceano nel Pacifico orientale, è probabile che mantenga le temperature di superficie elevate su un'area grande.


Figura 3 – Anomalie di volume dell'acqua calda equatoriale dell'Oceano Pacifico del novembre 2010 (quadro superiore) e novembre 2014 (quadro inferiore). A differenza del 2010, quando intensi alisei mantenevano il calore sepolto nella sub-superficie oceanica del Pacifico occidentale tropicale, il novembre/dicembre 2014 sembra assicurato di un incremento del riscaldamento, visto che un bacino di acqua calda (Onda Kelvin) si dirige ad est verso il continente americano e le superfici. Notate che queste sono anomalie (deviazioni dalla norma), non temperature assolute, quindi l'acqua più calda è ancora alla superficie. Immagine adattata dall'Ufficio del Progetto TAO del NOAA

Le emissioni in corso di gas serra che riscaldano il pianeta, come il biossido di carbonio, assicurano che il riscaldamento globale continuerà per decenni in futuro, quindi il (probabile) regno del 2014 come anno più caldo mai registrato avrà vita breve – come è stato per il regno del 2010. La sola questione in sospeso è il margine con cui il 2014 sorpassa il 2010. Per questo dovremo aspettare a vedere.

giovedì 4 dicembre 2014

Il Picco del sapere?

di Jacopo Simonetta

“L’entropia è il prezzo della struttura”, questa famosa frase di Ilya Prigogine  schiude come un vaso di Pandora l’origine di gran parte dei mali che si stanno abbattendo su di un’umanità che credeva di aver oramai acquisito il controllo del Pianeta.  

Perché?   Perché tutte le grandi conquiste di cui andiamo (in molti casi giustamente) orgogliosi sono il prodotto di processi fisici: abbiamo dissipato dell’energia per ottenere un incremento del nostro capitale complessivo.   Che si tratti del numero di persone (popolazione), di infrastrutture ed oggetti materiali di ogni genere (capitale materiale), di denaro (capitale finanziario) di conoscenze (capitale culturale) e quant'altro, la fisica del sistema non cambia: si dissipa energia per aumentare la quantità di informazione contenuta in una parte del meta-sistema, scaricando l’entropia corrispondente su altri sotto sistemi.   Da quando Claude. Shannon  dimostrò  la corrispondenza inversa fra informazione ed entropia, sappiamo che qualcuno o qualcosa deve pagare affinché qualcun altro possa acquisire conoscenze supplementari, così come qualcuno o qualcosa deve pagare perché altri possano realizzare strumenti, case, oggetti e quant'altro.
Perlomeno entro certi limiti, possiamo decidere a chi far pagare questa “bolletta”.   L’entropia può essere infatti scaricata in vario modo su altri territori ed altri popoli, su altre classi sociali, sui propri discendenti o combinazioni fra queste, ma comunque qualcuno perde   Dunque, il progresso culturale di cui andiamo tanto orgogliosi ha un prezzo che può prendere la forma di povertà, consumo di suoli o di biodiversità, inquinamento, disparità sociale e tantissime altre, ma non è mai privo di “effetti collaterali” , come ampiamente documentato da Nicholas Georgescu-Roegen negli anni '70.
Eppure, si potrebbe facilmente obbiettare, proprio il progresso culturale è stata la peculiarità che ha reso la nostra specie così straordinariamente dinamica e vincente; perfino troppo vincente, secondo alcuni.   Anzi, persone intelligenti ed informate sostengono che il progresso tecnologico (quindi la crescita dell’informazione) sia proprio  la chiave che può evitare il cupo futuro pronosticato da “picchisti” e “decrescisti”  (si veda qui per un esempio divulgativo di buon livello). 

Hanno ragione?   Sarebbe bello, ma probabilmente no.

Per quanto ne sappiamo, la cultura in senso attuale compare con la nostra specie non prima di 40.000 anni fa circa.   Molto prima si sapevano fare oggetti utili ed anche accendere il fuoco, ma per quanto possiamo arguire non esistevano forme di arte e dunque non c’erano artisti; tantomeno scienziati e filosofi.   Viceversa, coloro che 17 o 18.000 anni fa dipinsero la grotta di Lascaux erano certamente degli straordinari professionisti che avevano dedicato la loro intera vita a raffinare la propria arte, mentre altri si preoccupavano di provvedere alle loro necessità.   E sicuramente già da molto prima esistevano poeti, musicisti e danzatori.
Molto più costosa è sempre stata la scienza.   E’ probabile che la prima branca scientifica ad essere affrontata da professionisti sia stata la medicina, già nel paleolitico.   La seconda, all'inizio del neolitico, fu l’astronomia, come testimoniato all'antichità e dalla diffusione di imponenti costruzioni che hanno tutta l’aria di essere, in buona sostanza, degli osservatori astronomici.   Non prima, probabilmente perché all’epoca della fioritura delle civiltà del tardo paleolitico la nostra base energetica era costituita dalla mega fauna (elefanti, rinoceronti, uri, bisonti, cavalli) e dunque conoscere il comportamento degli animali era molto più importante che osservare nel dettaglio i movimenti degli astri.   L’estinzione della megafauna e l’avvento dell’agricoltura cambiarono tutto questo in maniera irreversibile.
  
Per costruire strutture come Stonehenge, l’intera popolazione di una vasta zona dovette sobbarcarsi una mole notevole di lavoro supplementare e rinunciare a più di un buon pasto per nutrire i cavatori e gli studiosi.   Parecchia gente è morta per realizzare le meraviglie archeologiche che troviamo sparse in tutto il mondo.   Perché affrontare simili sacrifici?   Per la follia di un sacerdote o di un despota fanatico?   Assai improbabile.   Gli osservatori astronomici consentivano la realizzazione di calendari e di prevedere i movimenti degli astri il che, a sua volta, consentiva di realizzare raccolti mediamente migliori, come ogni buon contadino ancora oggi sa bene.   Un vantaggio che, nel tempo, ripagava ampiamente i sacrifici necessari.
Lo stesso, in ultima analisi, vale ancora oggi: l’arte e la scienza sono degli accumuli di informazione che per essere generati e conservati necessitano di un corrispondente aumento di entropia di cui la società si fa carico sapendo, o sperando, di esserne ripagata.  
Non a caso, l’astronomia costituisce un caso speciale.   Finché le uniche fonti di energia disponibili furono il cibo ed il legname, i campi più battuti rimasero quelli della speculazione logica, della letteratura, della musica e della danza proprio perché consentivano risultati notevoli (in molti casi straordinari) al solo prezzo di mantenere un certo numero di distinti signori in grado di studiare e pensare, anziché lavorare e combattere.   C’erano, è vero, anche attività molto più energivore come la scultura, l’architettura e l’astronomia che, però, davano evidentemente dei risultati tali da essere comunque sviluppate.   Almeno nei periodi di fioritura delle civiltà, per essere poi abbandonate nei periodi di decadenza delle medesime.
La nostra civiltà attuale funziona sostanzialmente alla stessa maniera di quelle che la hanno preceduta, ma ha alcune caratteristiche uniche, a cominciare dalla quantità di energia che è stata in grado di mobilitare a proprio favore.   Questo ha consentito un accumulo di informazione assolutamente senza precedenti e non si tratta solo informazione inedita, sconosciuta alle precedenti civiltà.  

L’archeologia, la storia, il restauro dei monumenti, il recupero e la pubblicazione di documenti antichi sono solo alcuni dei lussi estremi che l’opulenza della società occidentale ha reso possibile nei suoi due secoli di fioritura.   Un fatto questo senza precedenti, se si eccettuano piccole collezioni private, alcune biblioteche e poco più.
Quando sono nate le principali istituzioni scientifiche, i maggiori musei, le grandi biblioteche contemporanee?    Praticamente fra la metà del XIX e la metà del XX secolo, talvolta da zero e talvolta da istituzioni precedenti, molto più modeste.   Un accumulo di informazione stupefacente e giustamente entusiasmante, ma che rischia un drastico ridimensionamento nel giro di pochi decenni, forse di anni.   Disfattismo?   Me lo auguro, ma i segnali di allarme, in questo come in molti altri casi, suonano da un pezzo.
Prendiamo ad esempio l’Università italiana, per non andare lontano.   La “riforma Ruberti” è del 1990.    Sostanzialmente, con la scusa dell’efficienza produttiva, si tagliavano i fondi alla ricerca di base dicendo ai ricercatori che dovevano arrangiarsi a trovare dei finanziatori privati che ritenessero interessanti i loro progetti.   Destino analogo hanno avuto altri cosiddetti “enti esperti” come l’ENEA e, più recentemente, lo stesso CNR.    Cosa significa tutto ciò?   Semplicemente che la struttura sociale in cui queste attività si svolgono comincia a pensare che non vale più la pena di farsene carico o, perlomeno, non completamente.
Non è che non ci siano più mezzi a disposizione; semplicemente non ce ne sono più abbastanza per tutto e si comincia ad abbandonare alcuni settori per rilanciarne altri.   Ma anche in materia di accumulo di informazione vale la fatale legge dei “Ritorni Decrescenti”.   Per fare un esempio, uno dei campi attualmente più avanzati e robustamente finanziati è la fisica delle particelle; penso che un confronto a colpo d’occhio fra l’apparecchio usato da Joseph John Thomson  nel 1896 per dimostrare l'esistenza e valutare la massa dell'elettrone con l’apparecchio utilizzato nel 2012 per dimostrare l’esistenza del Bosone di Higgs sia più convincente di qualunque discorso.    Oppure pensiamo a quello che la società ha investito per consentire a Mendel di zappare il suo orto e riflettere, in confronto con il progetto “Genoma Umano” che è costato circa 3 miliardi di dollari ed ha coinvolto migliaia di ricercatori in 7 paesi diversi.

Molto meno spettacolari, ma dello stesso segno, sono i confronti che si possono fare in tutti gli altri campi della scienza, tranne forse le applicazione dell’informatica.   Semplicemente, quello che poteva essere scoperto con determinati mezzi è stato trovato; per scoprire altro è necessario impiegare mezzi più potenti e dunque dissipare una maggiore quantità di energia.     Si potrebbe ben dire che i “giacimenti di misteri” sono ancora ricchissimi, ma sempre più difficili e costosi da raggiungere.   Vi ricorda niente?  
Sarebbe interessante tentare di calcolare qualcosa come l’ “EROEI  dell’informazione” poiché maggiore è l’energia necessaria per acquisirla e conservarla, maggiore è l’entropia che va a scardinare qualche altra parte del sistema globale.   Probabilmente non sarà possibile farlo, ma anche in termini meramente monetari, sia la ricerca di dati di base, sia la conservazione di buona parte delle informazioni che abbiamo finora acquisito stanno progressivamente mettendo in difficoltà musei, ministeri, università ed istituzioni culturali di ogni ordine e grado, dalla NASA fino alla biblioteca parrocchiale di Qualcheposto di sopra.   E non è questo l’unico pericolo che incombe.

Negli anni fra il 1939 ed il 1945 tutti i paesi coinvolti nella guerra, nei limiti del possibile,  si preoccuparono di proteggere il loro patrimonio culturale: monumenti furono coperti con sacchi di sabbia, collezioni e biblioteche furono spostate in zone rurali o nascoste in tunnel, ecc.   Fra il 1941 ed il 1942 Albert Speer fece costruire una serie di vere e proprie fortezze antiaeree che protessero efficacemente sia alcuni centri storici, che buona parte delle raccolte dei musei di Berlino, Amburgo e Vienna.
Le guerre attuali sono molto diverse, ma abbiamo ben visto quali conseguenze abbiano sul patrimonio culturale dei paesi coinvolti, dall’Afghanistan al Mali, passando per l’Iraq.   Possiamo anche trastullarci con l’idea che sono paesi lontani e turbolenti e che qui non succederà niente del genere, ma le conseguenze sociali ed economiche del prevedibile aggravarsi della crisi in corso stanno aumentando rapidamente il grado di turbolenza in tutto il mondo.  

A quando delleprimavere europee”?    Si spera mai, ma possiamo esserne sicuri?   Fra l’altro, più tempo passa prima che cose del genere accadano in casa nostra, minori saranno i fondi ed i mezzi disponibili per farvi fronte.   
A questo genere di discorsi mi si risponde spesso che Internet può risolvere il problema perché de localizza l’informazione sul mondo intero.   Il che è vero, ma chi la pensa in questo modo non tiene conto di almeno due fattori: il primo è che una parte immensa del nostro patrimonio culturale è fatto di roccia, di legno ed altri materiali solidi che non possono essere delocalizzati in rete.    La seconda è che la rete esiste come prodotto di punta di quella civiltà industriale dal cui collasso ci dovrebbe proteggere.   Si stima che internet oggi assorba circa il 2% dei consumi mondiali di energia, mentre l’intero comparto minerario globale ne assorbe fra il 5 ed il 10% .   

Per non parlare delle infrastrutture (centrali e reti elettriche,  server, ripetitori, ecc.) che devono essere manutenute ed alimentate per consentirci di leggere questo semplice articolo.   Possiamo pensare che duri ancora a lungo?   Solo se pensiamo che non ci sarà nessuna grave crisi del sistema socio-economico, ma se questa fosse la prospettiva, non ci sarebbe nessun bisogno di proteggere il nostro patrimonio culturale.   Anzi lo vedremmo continuare a svilupparsi, come vagheggiano icrescisti”.

A mio avviso, finché ci sono un minimo di mezzi a disposizione, sarebbe bene cominciare a prendere dei provvedimenti pratici del tipo “meglio aver paura che buscarne”, per citare un antico adagio.   Qui mi sento di suggerirne di tre tipi:

- Seppellire le  zone archeologiche.   Non tutte e non subito, naturalmente, ma già oggi l’incuria sta distruggendo oggetti che sottoterra erano rimasti integri per centinaia od anche migliaia di anni. Coprirli con un telo di geotessile e rimetterci sopra la terra li proteggerebbe sia dalle intemperie che dalla violenza. Magari in futuro altri archeologi le riscopriranno per la felicità dei nostri discendenti.

- Predisporre il trasferimento, di parte delle collezioni dei musei in luoghi segreti e protetti.   Molti dei tesori di arte che contribuiscono alla nostra attuale cultura sono giunti a noi perché i loro proprietari del passato ebbero cura di nasconderli.

- Stampare e diffondere il meglio della nostra cultura letteraria, artistica e scientifica su dei supporti resistenti all'usura ed al fuoco, oltre che utilizzabili senza ricorrere a tecnologie che non è affatto certo che in futuro siano disponibili. Quanto del nostro passato oggi sappiamo grazie alle  pergamene?

Ovviamente non sarà fatto niente di tutto ciò. Solo pensare che il futuro potrebbe essere irreparabilmente più povero e meno tecnologico del presente è un’eresia  che pochi condividono, anche nella variopinta “blogsfera” ambientalista e picchista.   L'archetipo di base continua ad essere quello del progresso, come brillantemente illustrato da Ray Kurzweil, teorico dei “Ritorni accelerati”.  
Ritorni decrescenti    versus Ritorni accelerati:    chi arriverà prima?   Il progresso dell’informatica e delle altre tecnologie d’avanguardia riuscirà ad invertire la tendenza attuale prima che il decrescere quali/quantitativo delle risorse ed il crescere della popolazione ne blocchino lo sviluppo?   Il pianeta sopravvivrà ad un ulteriore crescita dell'informazione?   Questioni su cui non ci sarà bisogno di aspettare l’ardua sentenza dei posteri.   Su di una cosa sola, infatti,  simo tutti d'accordo: fra 10, massimo 20 anni il mondo sarà un posto molto diverso da come è adesso.










 

mercoledì 3 dicembre 2014

Il prezzo del petrolio evidenzia il reale stato dell'economia

DaThe Automatic Earth”. Traduzione di MR

(quello che fa impressione nella foto qui sotto è come gli americani erano magri 60 anni fa. Cosa diavolo è successo che li hanno fatti diventare una nazione di balenottere spiaggiate? Forse la spiegazione si trova nel menu di questo ristorante per camionisti? - UB)


Jack Delano: bar alla stazione di servizio per camionisti sulla Statale 1, Washington DC, giugno 1940

Dovremmo essere grati del fatto che il prezzo del petrolio sia crollato in questo modo (perdendo un altro 6% oggi proprio mentre sto scrivendo). Non perché rende la benzina nelle nostre auto un po' meno cara, questo è niente in confronto all'altro servizio che ci fornisce il crollo del prezzo. Cioè, che ci permette di vedere in che stato si trova realmente l'economia, senza il velo multistrato della propaganda, le invenzioni, i dati aggiustati, i salvataggi e le dispense al sistema bancario. Ci mostra l'enorme misura in cui sta crollando la spesa al consumo, quanto la gente sia diventata più povera, mentre le borse stabiliscono nuovi record. Ci mostra anche quanto siano diventate disperate le nazioni produttrici, che hanno visto un terzo di quella che spesso è la loro principale fonte di introito svanire in pochi mesi. La Nigeria è stata la prima della fila a svalutare la propria valuta, altre seguiranno presto. L'OPEC oggi ha deciso di non tagliare la produzione, ma a qualsiasi decisione fossero giunti, niente avrebbe fatto la minima differenza. Solo il fatto che i prezzi hanno cominciato a scendere di nuovo dopo che è stata resa pubblica mostra quanto siano diventati insensati i mercati finanziari, storditi dai soldi facili per i quali non serve nemmeno un neurone funzionante. L'OPEC è diventata una piece teatrale e nel mondo reale là fuori le cose si stanno complicando. Le nazioni produttrici di petrolio non possono permettersi di tagliare la propria produzione in un vago tentativo, con risultati molto incerti, di aumentare i prezzi. Il solo modo di compensare le proprie perdite è quello di aumentare la produzione, quando e dove ciò è possibile. E alcune non possono nemmeno farlo.

L'Arabia Saudita ha aumentato la produzione nel 1986 per abbassare i prezzi. Tutto ciò che deve fare oggi per ottenere la stessa cosa è non tagliare la produzione. Ma i sauditi hanno perso molto peso, insieme all'OPEC; non è più il 1986. Ciò è dovuto in una certa misura al petrolio di scisto americano, ma la crisi finanziaria globale è un fattore molto più importante. Solo adesso stiamo veramente cominciando a vedere quanto quella crisi abbia già colpito duramente il miracolo delle esportazioni cinesi e la sua domanda di risorse, un motivo importante del collasso del petrolio. Quest'anno gli Stati Uniti hanno importato meno petrolio dai membri dell'OPEC di quanto abbia fatto nei precedenti 30 anni, mentre gli americani guidano per distanze pro capite molto inferiori e lo scisto vive il suo salto temporaneo finanziato dal debito. Ora tutti i produttori di petrolio, non solo i trivellatori dello scisto, si trasformano in Regine Rosse, cercando semplicemente di compensare le perdite con sempre maggiore difficoltà. Nel frattempo, l'industria americana dello scisto è un camion senza autista, coi freni rotti, alimentato da capitale speculativo a basso costo. La questione alla base è che lo scisto statunitense non ha più a che fare con ciò che è fattibile, ma con ciò che può essere ancora finanziato domani. E la stampa si sta svegliando solo adesso riguardo al carattere da schema Ponzi dell'industria. In un pezzo piuttosto consistente della scorsa settimana, John Dizard del Financial Times (FT) ha concluso dicendo:

Anche la gente che è nell'industria petrolifera da molto tempo è in grado di ricordare un ciclo di sovra-investimento che duri quanto quello in risorse non convenzionali statunitensi. Non sono solo gli ingegneri degli idrocarburi ad aver creato questa bolla; ci sono gli ingegneri finanziari che hanno inventato nuovi modi per pagarla.

Mentre la Reuters il 10 novembre (h/t Yves di NC) ha parlato di enormi problemi dal fondo KKR dello scisto:

La KKR, che ha condotto l'acquisizione del produttore di petrolio e gas Samson per 7,2 milioni di dollari nel 2011 ed ha già venduto metà dei suoi possedimenti terrieri per affrontare i prezzi dell'energia più bassi, pianifica di vendere il suo deposito di petrolio di Bakken in Nord Dakota, che vale meno di 500 milioni di dollari, come parte di un piano di ridimensionamento. 

Le obbligazioni della Samson sono scambiate intorno ai 70 centesimo di dollaro, indicando che il patrimonio netto della KKR e dei suoi partner nella società saranno probabilmente spazzati via se l'intera società venisse venduta adesso. I guai finanziari della Samson sottolineano come la storia d'amore fra i patrimoni privati e la rivoluzione dello scisto del Nord America porta dei rischi. La posta in gioco sono è particolarmente alta per la KKR, che ha visto svanire una scommessa di 45 milioni di dollari sui prezzi del gas naturale quando l'azienda elettrica texana Energy Future Holdings ha presentato istanza di fallimento quest'anno.

Ed oggi, Tracy Alloway del FT menziona le grandi banche e le loro perdite legate all'energia:

Le banche, compresa Barclays e wells Fargo, stanno affrontando forti perdite potenziali  su un prestito di 850 milioni di dollari fatto a due società del gas, segno di quanto la drammatica scivolata del prezzo del petrolio cominci a ripercuotersi nell'economia più allargata. [..] se Barclays e Wells tentassero di sindacare il prestito da 850 milioni di dollari adesso, questo varrebbe 60 centesimi di dollaro.

E questo è un solo prestito. A 60 centesimi di dollaro, una perdita di 340 milioni di dollari. Chi può dire quanti prestiti del genere, o più grandi, ci siano in giro? Messe insieme, queste storie che filtrano lentamente dalla congiuntura fra energia e finanza, danno a chi è disposto ad ascoltare un accenno di idea delle perdite in cui è incorsa l'economia globale e dai grandi finanziatori. C'è un bagno di sangue che fermenta nell'ombra. I paesi possono vedersi tagliati i propri introiti di un terzo e andare avanti, magari con nuovi leader, ma molte società non possono perdere tanto introito e andare avanti, di certo non quando sono pesantemente sotto pressione. I sauditi rifiutano di tagliare la produzione e dicono: che tagli l'America. Ma i produttori americani di petrolio non possono tagliare nemmeno se volessero, ciò farebbe emergere i loro carichi di debito e metterebbe fine alla loro esistenza. Inoltre, la storia dell l'indipendenza energetica gioca naturalmente un grande ruolo. Ma coi prezzi che continuano a cadere, gran parte di quell'industria andrà a gambe all'aria perché il credito viene revocato. La quantità di soldi persi nel 'ciclo di sovra-investimento' sarà stupefacente e non c'è bisogno di chiedersi chi lo pagherà. Indicare i rischi delle bolle petrolifere del passato rischia di tralasciare il punto che il tipo di leva e di credito a buon mercato ammucchiato sul petrolio e il gas di scisto, come dice anche Dizard, è senza precedenti. Come ha scritto Wolf Richter all'inizio dell'anno, l'industria ha perso oltre 100 milioni di dollari in tre anni di esercizio. Non perché non vendesse, ma perché i costi sono stati – e sono – davvero formidabili.

C'è più debito che va sotto terra che petrolio che ne esce. Lo scisto era una proposta in perdita anche a 100 dollari (al barile, ndT). Ma ciò è rimasto nascosto dietro alle scommessa sostenute da prestiti allo 0,5% che hanno alimentato la speculazione terriera su cui era basata dall'inizio. Il WTI è sceso sotto i 70 dollari oggi. Potete far fare i conti ai vostri figli di 3 anni da desso in poi. Mi chiedo quante persone si gratteranno la testa mentre riempiranno i loro serbatoi questa settimana e si chiedano quanto questa benzina a buon mercato sia croce o delizia. Dovrebbero. Dovrebbero chiedersi come, perché e quanto la caduta del prezzo della benzina sia il riflesso del reale stato dell'economia globale e ciò che questo dice sul loro futuro. Godetevi il tacchino.



martedì 2 dicembre 2014

Inversione di tendenza: l'OPEC mostra ai produttori degli Stati Uniti chi è il boss

DaResource insight”. Traduzione di MR

Di Kurt Cobb

Parafrasando Mark Twain: le voci della morte dell'OPEC sono state ampiamente esagerate. La copertura mediatica asfissiante dell'ascesa della produzione petrolifera statunitense negli ultimi anni ha portato alcuni a dichiarare che il potere dell'OPEC nel mercato del petrolio ora stia diventando irrilevante in quanto l'America probabilmente si sta avviando verso l'indipendenza energetica. Questa copertura mediatica, tuttavia, ha oscurato il fatto che quasi tutto l'aumento della produzione è venuto da tight oil ad alto costo trovato in profondi depositi di scisto. L'ipotesi piuttosto stupida è stata che i prezzi del petrolio avrebbero continuato ad aggirarsi al di sopra dei 100 dollari al barile a tempo indeterminato, rendendo l'estrazione di quel tight oil redditizia a tempo indeterminato. Chiunque abbia capito l'economia di questo tipo di produzione e le dinamiche del mercato del petrolio ne aveva una migliore percezione. Ed ora, la narrazione super pubblicizzata dell'autosufficienza petrolifera americana sta per ricevere un duro colpo. Dopo settimane di speculazione sui veri motivi che stanno dietro alla decisione dell'OPEC di mantenere la produzione di fronte al declino della domanda mondiale – che ha portato ad un grande calo dei prezzi del petrolio – il cartello petrolifero ha dichiarato, durante il suo recente incontro, che sta cercando di distruggere la produzione di tight oil statunitense rendendolo non redditizio.

Una delle cose che può fare un cartello – se controlla una fetta sufficiente di mercato – è distruggere la competizione attraverso una guerra dei prezzi. In qualche modo il pubblico e  i decisori politici si sono fissati sulla capacità dell'OPEC di ridurre la produzione in modo da aumentare i prezzi ed ha dimenticato la sua capacità di inondare il mercato mondiale di petrolio, non solo di stabilizzare i prezzi, ma di causarne il crollo. L'industria sostiene che gran parte dei giacimenti di tight oil statunitense siano redditizi al di sotto degli 80 dollari. E i trivellatori dicono che stanno abbassando i costi e che possono sostenere prezzi inferiori. La mossa dell'OPEC ora metterà alla prova queste dichiarazioni. L'attuale riferimento americano dei prezzi di circa 65 dollari al barile suggerisce che l'OPEC ha preso in considerazione i punti di pareggio citati nell'articolo linkato sopra. E' in gran parte l'Arabia Saudita che permette all'OPEC di avere una flessibilità di produzione, visto che il suo regno conserva una significativa capacità di riserva, che si dichara sia fra gli 1,5 e i 2 milioni di barili al giorno (Mb/g). L'OPEC dice, ne suo “World Oil Outlook 2014” che tutta l'OPEC ha circa 4 MB7g di capacità di riserva, anche se un analista di recente a fissato la cifra a 3,3 Mb/g. Qualsiasi sia il numero preciso, in termini pratici l'Arabia Saudita è la Walmart del mercato mondiale del petrolio, capace di condizionare un calo del prezzo girando qualche valvola o non chiudendole di fronte al calo della domanda. In questo caso, il paese non ha chiuso nessuna delle proprie produzioni in risposta all'indebolimento della domanda mondiale. Né lo hanno fatto gli altri membri dell'OPEC. Avendo incrociato braccia sufficienti nel recente incontro dell'OPEC, l'Arabia Saudita l'ha avuta vinta con un impegno dei membri dell'OPEC a mantenere la produzione stabile, mettendo così ulteriore pressione sul prezzo del petrolio sull'onda del calo della domanda. Entrambi i principali contratti future sono scesi del 7% dopo l'annuncio.

L'effetto in Nord Dakota è stato di gran lunga maggiore di quanto l'attuale calo dei prezzi dei future del petrolio indichi. Quello stato, che è al centro del boom del tight oil statunitense, è lontano da raffinerie ed oleodotti. I produttori di petrolio usano trasporti ferroviari costosi per portare il loro petrolio sul mercato. Il risultato è che i produttori del Nord Dakota sono di fronte ad una diminuzione significativa alla bocca di pozzo. In ottobre, la diminuzione media è stata di 15,40 dollari a barile al di sotto del riferimento statunitense dei prezzi dei future del greggio leggero. Se prendiamo quella diminuzione e la applichiamo alla chiusura dello scorso venerdì, ciò implicherebbe che i produttori del Nord Dakota ora ricevono 50,59 dollari a barile – un livello che è improbabile che sia redditizio eccetto che per i pozzi più prolifici. Se i prezzi rimangono bassi, l'OPEC raggiungerà quasi sicuramente il proprio obbiettivo di impedire un investimento significativo in nuova produzione nello stato. Un'altra grande produzione di tight oil si trova in Texas, vicino agli oleodotti e quindi non soggetta a diminuzioni di questa grandezza. Tuttavia, con il petrolio intorno ai 65 dollari al barile, è probabile che la produzione aumenterà pochissimo in Texas nei giacimenti di tight oil, sempre che aumenti. I i depositi che non siano “sweet spots” che vengono attualmente trivellati sono quasi sicuramente antieconomici con dei prezzi del genere. Se un prolungato prezzo basso del petrolio porta a perdite dolorose e permanenti per i possessori di azioni ed obbligazioni dei trivellatori del tight oil – e per quelli investiti direttamente in pozzi veri e propri – ci sarà meno appetito fra gli investitori a gettarsi nella mischia anche quando il prezzo del petrolio recupera. E' esattamente ciò su cui conta l'OPEC. Sa che il flusso libero di contanti (il contante guadagnato da operazioni meno le spese di capitale) dei trivellatori indipendenti è stato fortemente negativo dal 2010. Le trivellazioni forsennate degli ultimi anni sono state finanziate in gran parte da emissione di titoli e debito, piuttosto che dai guadagni dei pozzi precedenti.

Con questi nuovi prezzi bassi del petrolio, è improbabile che molti investitori saranno disposti a mettere più soldi per lavorare nei depositi di tight oil americani. Ciò renderò arduo per i trivellatori finanziare nuove trivellazioni, visto che non hanno contante sufficiente generato dalle attuali operazioni. In aggiunta, coi prezzi del petrolio significativamente bassi, molti trivellatori indipendenti potrebbero avere difficoltà a ripagare i loro debiti, a parte pagare i costi di trivellare un gran numero di nuovi pozzi. E coi tassi di declino annuali della produzione nelle aree di tight oil di circa il 40% - che significa semplicemente che non trivellare per un anno avrebbe come conseguenza un declino del 40% - i trivellatori devono trivellare un gran numero di pozzi solo per compensare i declini di produzione dei pozzi esistenti PRIMA che ottengano nuovi pozzi che si aggiungano realmente al tasso generale di produzione. Un calo significativo del tasso di trivellazioni nei giacimenti di tight oil statunitensi potrebbe in effetti risultare in una produzione complessiva generale più bassa. Prezzi del petrolio più bassi tendono ad aumentare la domanda di petrolio, in quanto le persone si possono permettere più energia a scopo industriale e di consumo. Così, l'OPEC  si aspetta in pieno l'aumento della domanda e quindi l'aumento dei prezzi sul medio termine – ma no, spera, sufficientemente presto da salvare i trivellatori di petrolio. Se le cose restano come sono, prezzi del petrolio bassi tendono ad aumentare l'attività economica e potrebbero aiutare l'Europa e l'Asia ad evitare la recessione abbassandone i costi energetici in modo significativo. Ma le cose potrebbero non rimanere come sono, visto che almeno un analista crede che rotta nei mercati petroliferi potrebbe portare a dei default a cascata che cominciano con i titoli spazzatura del debito dei trivellatori e passano attraverso le banche pesantemente coinvolte nel debito delle compagnie petrolifere. Questo, a sua volta, potrebbe causare un collasso generale delle borse. Così, anziché promuovere la crescita economica, i bassi prezzi del petrolio sarebbero la causa del prossimo crollo in borsa e della prossima recessione mondiale. Una tale recessione farebbe ulteriormente sprofondare i prezzi del petrolio, mettendo un'estrema pressione finanziaria sui membri dell'OPEC meno ben forniti dell'Arabia Saudita. E sconvolgerebbe il programma dell'OPEC per il ritorno a prezzi e profitti più alti – ritardandolo forse per anni. Metterebbe anche un altro chiodo sulla bara della storia dell'indipendenza economica americana – di quelli che persino il sempre ottimista Dipartimento per l'Energia degli Stati Uniti non avrebbe mai pensato coi prezzi alti – spostando molti dei giacimenti di petrolio statunitensi precedentemente ritenuti praticabili nella categoria degli antieconomici.

lunedì 1 dicembre 2014

La spirale

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Di Antonio Turiel

Cari lettori,

durante le ultime settimane si è verificata una forte discesa del prezzo del petrolio, che si muoveva da più di due anni in una gamma relativamente stretta di prezzi abbastanza alti.


Nel post di questa settimana analizzerò in dettaglio ciò che sta succedendo col prezzo del petrolio. Si tratta di un post abbastanza lungo, quindi l'ho organizzato in sezioni: Introduzione, Volatilità e Recessione, Gli eventi del 2008 e del 2011, Fondamentali, Conseguenze e Conclusione.

Introduzione

Se ci concentriamo sul prezzo del barile di petrolio di tipo Brent (quello di riferimento in Europa), vediamo che dagli inizi del 2011 era valutato al di sopra dei 100 dollari, con un paio di picchi al di sopra dei 120 all'inizio del 2011 e del 2012 e un paio di flirt con la linea dei 100 dollari, che ha agito da prezzo di riferimento o linea da non oltrepassare verso il basso. Ora: venerdì scorso il barile di Brent era valutato 86 dollari ed era arrivato qualche dollaro in meno i giorni precedenti. La forte volatilità dei prezzi del petrolio è uno dei sintomi di problemi di fornitura di questa materia prima fondamentale. Lo abbiamo spiegato infinite volte in questo blog: quando l'attività economica è vigorosa, la domanda sale ma la produzione non riesce a tenere il ritmo, quindi il prezzo sale fino al punto di danneggiare l'attività economica. Allora si chiudono le imprese e si lasciano persone nella disoccupazione, la domanda diminuisce, il prezzo scende bruscamente e questo permette che poco dopo cominci la ripresa economica, la domanda torna a salire e torniamo al punto di partenza. Mentre la produzione di petrolio sale lentamente o addirittura ristagna c'è da aspettarsi che si riproducano periodicamente questi cicli di ripresa e caduta. Tuttavia, nella misura in cui la produzione di petrolio diminuisce (cosa che non è ancora successa se consideriamo tutti gli idrocarburi liquidi, che è già una cosa discutibile di per sé) la cosa che ci si può aspettare è che la sequenza di salite e discese acceleri, a volte con cambiamenti di enormemente bruschi che spingono il prezzo del petrolio verso l'alto o verso il basso al punto che interi paesi collassano (verso l'alto se il paese che collassa è un paese produttore o verso il basso se il paese che collassa è un paese consumatore).

Come spiegherò in questo post, l'attuale abbassamento dei prezzi è un sintomo terribile di gravi ed imminenti problemi economici e di produzione di petrolio, conseguenza di molte tensioni accumulate durante anni di fuga in avanti. E per quello risulterebbe abbastanza comico, se non fosse tanto triste e tanto sintomatico della nostra cecità come società, vedere che di fronte ad un momento tanto preoccupante e critico come quello attuale, sono emerse voci che hanno detto “questa cosa del picco del petrolio” non è certo causata da questa riduzione dei prezzi. C'è persino chi dice che questo non lo avevamo previsto e che tutte le analisi che facciamo in questo ed in altri luoghi sono pura spazzatura, perché in realtà il picco del petrolio si allontana sempre di più (sono arrivato persino a leggere un tweet di un famoso gestore di azioni collegate al petrolio che affermava che la caduta del prezzo del petrolio era segno di abbondanza di offerta).

Volatilità e recessione

Niente di più lontano dalla realtà, naturalmente. Soffermarsi esclusivamente sul prezzo del petrolio per descrivere il picco è un errore e ancora di più lo è pensare che i problemi di fornitura di petrolio generino semplicemente prezzi persistentemente più alti: in realtà, ciò che genera il picco del petrolio è un'enorme volatilità (salite e discese del prezzo selvagge). Abbiamo insistito su quest'idea dal principio, in realtà. Una delle cose che mi ha spinto a fare divulgazione del problema del picco del petrolio è stata proprio il fatto di vedere che dopo del chiaro segnale del 2008 (lo stesso anno il barile valeva 147 dollari a luglio e 36 a dicembre), non si è verificata una reazione razionale ai problemi che erano già evidenti. Mente chi dice che non lo stiamo dicendo da anni e nel mio caso proprio dall'inizio: il quinto post che ho pubblicato su questo blog, il 3 di febbraio del 2010, si chiamava “Previsione dei prezzi del petrolio per i prossimi 10 anni” e illustrava il problema della ipervolatilità del prezzo con un disegno fatto anni fa da Dave Cohen:


Un anno dopo, mi chiedevo se l'aumento repentino dei prezzi, non molto lontani dai 130 dollari al barile, indicasse che ci trovavamo in un altro di questi picchi di volatilità e se si stesse verificando l'ondata recessiva del 2011. Ed ora, nel 2014, siamo sul punto di un'altra recessione mondiale, a quanto pare. Permettete che vi citi due paragrafi del mio post “Previsione dei prezzi del petrolio per i prossimi 10 anni”, pubblicato quattro anni e mezzo fa:

“Prevedere il valore del picco è più o meno impossibile, ma possiamo invece prevedere che l'economia indebolita non potrà mantenere prezzi crescenti fino a valori tanto alti come 150 dollari, per cui probabilmente il prossimo picco sarà più basso. Mentre perdura la situazione di plateau del petrolio, l'unica cosa che possiamo azzardare è la cadenza dei picchi, ipotizzando che dopo il picco il prezzo si stabilizza ad un valore di circa 40 dollari”.

Ed anche

“Da qui si conclude anche che i tempi di ricorrenza degli shock petroliferi saranno ogni tre anni, sempre il luglio: 2008, 2011, 2014, 2017, 2020, ecc. Cioè, in questo decennio ci aspettano 4 shock petroliferi, sempre quando se ipotizziamo di essere sul plateau del petrolio”. 

Il modello che ho usato in quel post era di una banalità offensiva e la realtà è stata naturalmente molto più complessa (io stesso affermavo già nel post stesso che le cose sarebbero state molto più complicate). E' tuttavia curioso vedere che, effettivamente, i picchi successivi dei prezzi non sono stati alti come i quasi 150 dollari del luglio 2008 e che le date ipotizzate per la maggior volatilità del prezzo del petrolio (2008, 2011, 2014...) non sono state tanto lontane e sembrano segnare le date delle successive “Grandi Recessioni, ora che si comincia a riconoscere che potremmo trovarci alle porte della terza. Ma sicuramente la dinamica del prezzo e dell'offerta di petrolio si sta rivelando assai più complicata. Per la parte dei prezzi, proprio qualche mese fa qualcuno mi rinfacciava che non si sarebbe verificato con la volatilità che ho sempre definito come sintomo dei problemi di offerta di petrolio, di fronte a cui ho scritto un post in cui si toccavano diversi temi e in quanto a questo, ho indicato il seguente grafico, sovrapponendo il disegno di Cohen all'evoluzione reale del prezzo del barile di petrolio:


Il modello di Dave Cohen è questo, un modello, ma nonostante la sua semplicità si direbbe comunque che stia cogliendo qualcosa di quello che succede, specialmente se ora alla fine del 2014 il prezzo sta collassando. Prime di entrare nell'analisi in maggiore profondità cosa spieghi queste deviazioni osservate rispetto al modello semplice del comportamento del prezzo, lasciate che vi dica che questa visione secondo cui i problemi del petrolio non comportano semplicemente prezzi alti ma volatilità non la mia personale, ma è condivisa praticamente da tutta la comunità dei picchisti. In particolare, vi raccomando un eccellente articolo di Gail Tverberg perché possiate farvi un'idea più certa di cosa stia succedendo. Così quelli che criticano i picchisti per l'abbassamento repentino del prezzo del barile di greggio si allaccino le cinture, perché ora arrivano le curve e anche molto pericolose. E leggano, per esempio ciò che dice ASPO sul fenomeno.

Gli eventi del 2008 e del 2011

Telecomunista, un'eminenza nel trattamento dei dati e delle diverse agenzie pubbliche, ha pubblicato poche settimane fa su burbuja.info il seguente grafico.


Se guardate il grafico con attenzione, vedrete che ci sono state due volate della produzione di “tutti i liquidi del petrolio (petrolio greggio convenzionale + greggi non convenzionali + alcuni succedanei più o meno assimilabili) proprio dopo due plateau di produzione. La prima volata si verifica dopo la crisi del 2008 e si sostiene coi biocombustibili. Purtroppo, i biocombustibili in realtà non apportano energia netta, per cui nella realtà la cosa non richiede tempo. I governi americano ed europeo, che hanno reso obbligatorio che parte della miscela delle loro benzine e gasoli avessero una parte di biocombustibile, hanno perso interesse per questi combustibili, nel momento in cui hanno verificato che non riducono la dipendenza esterna ed hanno cominciato a ritirare i sussidi al suo consumo, cosa che ha portato alla stagnazione della loro produzione:



In pratica, ciò che è successo è che il prezzo del petrolio non è aumentato perché la mancanza di sufficiente petrolio nel mercato è stata compensata dai biocombustibili, che oltre a causare le guerre della fame non erano né energeticamente né commercialmente redditizi e che pertanto sono stati sussidiati con ulteriore debito degli Stati. Cioè, per mantenere il meccanismo mondiale in funzione è stata sfruttata una risorsa che non doveva essere prodotta e che fondamentalmente trasforma l'austerità e le sanzioni alla propria popolazione e ad altre in idrocarburi liquidi. Ma già nel 2011, essendo già ovvio il fiasco dei biocombustibili, e con una nuova recessione in marcia, era necessario cercare qualcosa di più con cui dare impulso alla produzione di petrolio ed è qui che emerge con forza il fracking, come evidenza la fascia di colore viola del grafico di Telecomunista più in alto. Senza l'apporto dei condensati e del petrolio leggero di roccia compatta (light tight oil) americano, la produzione totale di idrocarburi liquidi sarebbe diminuita di 3 milioni di barili al giorno. Sfortunatamente, qui succede una cosa simile a quella dei biocombustibili: le compagnie che estraggono queste risorse si stanno rovinando (come evidenziano i sempre più numerosi articoli che avvertono di questo sulla stampa economica) e quella montagna di debito inevitabilmente scoppierà prima o poi. E tarderà meno a scoppiare se il prezzo del barile diminuisce troppo per un periodo sufficientemente lungo. Alla fine, data l'importanza cruciale e strategica del petrolio, gli stati riscatteranno queste compagnie, addossando ancora una volta il costo ai cittadini e di nuovo trasformando sofferenza sociale in idrocarburi liquidi. Non è proprio una sciocchezza. 

Fondamentali

I movimenti coi biocombustibili e con gli idrocarburi e con i combustibili liquidi derivati dal fracking spiegano perché il prezzo si è mantenuto alto senza grandi alti e bassi (eccetto nel momento in cui si rinuncia a continuare a dare impulso ai biocombustibili come grande soluzione nel 2011, cosa che si abbina perfettamente col piccolo picco dei prezzi di quell'anno e la conseguente ondata recessiva). Ma cosa sta succedendo ora? Il prezzo si è mantenuto stabile al di sopra dei 100 dollari negli ultimi 3 anni e di colpo ha cominciato a scendere, anche al di sotto di questa barriera dei 100 dollari al barile. Se si studiano i fondamentali del mercato, si trovano tre possibili fattori nell'offerta ed uno nella domanda. I tre fattori nell'offerta sono: 


In quanto alla domanda, c'è un unico fattore che appare in tutte le analisi: la domanda mondiale è debole. Da mesi si accumulano gli indizi negativi in molti paesi (caduta delle esportazioni tedesche, scarsa creazione di impiego negli Stati Uniti, malessere in Francia e delusione nei confronti del presidente Hollande, l'Italia che non solleva la testa nonostante l'elezione come presidente del presunto riformista Renzi...), ma sono particolarmente importanti quelli che arrivano dalla Cina, poiché oggigiorno è la fabbrica del mondo e la sua evoluzione è molto segnata dall'evoluzione della domanda, soprattutto in Occidente. E dalla Cina non vengono dati buoni: l'indice PMI è piuttosto basso e molti indicatori sono in ribasso (per esempio, la forte caduta della domanda di acciaio in quel paese). Insomma, si prefigura una recessione globale, cosa che quadra bene con il concomitante crollo delle borse mondiali. Un modo per cercare di capire cosa sta succedendo è guardare i rapporti sulla congiuntura del mercato del petrolio pubblicati mensilmente dalla IEA, gli Oil Market Report. Seguendo la stessa metodologia che ho usato due anni fa nel post “Quando la domanda supera l'offerta”, ho calcolato i grafici trimestrali di offerta (in verde) e domanda (in rosso) di tutti gli idrocarburi liquidi del mondo. Ho separato due periodi: fino al 2005 e a partire dal 2005. Vediamo il primo di questi grafici. L'asse verticale rappresenta la produzione media di tutti i liquidi del petrolio durante questo trimestre ed è espressa in milioni di barili al giorno. 


Fino al 2020 si osserva un chiaro andamento stagionale, con più domanda di petrolio in inverno ed autunno e meno in primavera ed estate. L'offerta cerca di adeguarsi alla domanda in modo leggermente anticiclica: avviene nell'ambito della domanda nei mesi di maggior domanda ma viene compensata da un'offerta maggiore alla domanda nei mesi di minor domanda. Per questo vediamo incroci molteplici fra le due curve e le scorte che conserva l'industria nei propri depositi servono a compensare le fluttuazioni (sei compra di più nei momenti di minor consumo e si compra di meno in quelli di maggior consumo). A partire dal 2003 (se guardate il grafico di Telecomunista, è più o meno quando la produzione di petrolio greggio smette di crescere significativamente) comincia una corsa fra offerta e domanda, che procedono più unite, e resta resta meno spazio fra le due curve. Cosa succede a partire dal 2005? Di tutto.


Nel 2005 e 2006 la curva dell'offerta supera per la maggior parte del tempo, e ampiamente, quella della domanda. Ciò dovrebbe significare che il mercato è rifornito più che bene, ma non dimenticate che una parte sempre maggiore di quanto prodotto sono liquidi del gas naturale, che sostituiscono il petrolio per per alcune funzioni (per esempio, per la sintesi del propilene). Così probabilmente, in termini di ciò che il mercato chiedeva realmente (benzina, gasolio, kerosene), l'offerta combaciava sufficientemente e questo spiegherebbe perché in quegli anni il prezzo è aumentato con estrema rapidità. Sfortunatamente, l'introduzione dell'annotazione “tutti i liquidi del petrolio” da parte della IEA fa sì che questi dettagli non possano essere percepiti nei grafici. 

Arriva il 2008 e il consumo, che generalmente oscillava di circa 2 milioni di barili al giorno (Mb/g) ogni anno, cala di quasi 4 Mb/g. Il prezzo crolla in quell'anno e l'offerta tenta di inseguire la domanda, rimanendo sempre più alta per tutto quell'anno. Di nuovo, l'inclusione nello stesso paniere di “tutti i liquidi del petrolio” rende incomprensibile l'evoluzione del prezzo del petrolio, visto che secondo questo grafico l'offerta è sempre stata maggiore della domanda per tutto il 2008, compreso in luglio quando il prezzo è arrivato a quasi 150 dollari al barile. Verso il 2009 la domanda comincia a recuperare, anche se non recupera le sue oscillazioni annuali caratteristiche fino al 2010. E alla fine del 2011 torniamo a vedere il paradosso di avere un'offerta che eccede di molto la domanda e così il prezzo sale ancora. Presumibilmente, perché è il momento in cui si comincia a vedere che i biocombustibili non diminuiscono la dipendenza energetica del mondo. Naturalmente gli economisti non capiscono il perché, che non è altro che il suo EROEI basso, cioè, che non stanno producendo energia netta sfruttabile. E in questo momento emerge con forza il petrolio leggero di roccia compatta e i condensati di alcune piattaforme di gas di scisto degli Stati Uniti, tutti estratti col fracking. Il petrolio leggero di roccia compatta è sì petrolio, anche se essendo leggero non funziona per distillare il gasolio, ma fornisce un sollievo alla domanda di combustibili fossili del pianeta e pertanto la situazione comincia a normalizzarsi nel 2012 e nel 2013... fino ad ora. I grafici finiscono nel secondo trimestre del 2014. Le linee sottili che vengono dopo sono le proiezioni che si deducono dall'ultimo (a proposito, ho corretto un errore sciocco nelle tavole). Come vedete, la IEA sta facendo una previsione basata su qualcosa di molto semplice: semplicemente scommette che torniamo a cominciare un ciclo normale in cui l'offerta si va ad incrociare con la domanda durante l'anno: ora bisogna che la domanda comincia ad aumentare e che l'offerta lo faccia più moderatamente durante l'inverno e logicamente si spera che succederà il contrario durante la primavera e l'estate. 

Ma cosa sta succedendo in realtà? Come vedete, non c'è niente di spettacolare nell'offerta prevista e l'ultimo aumento della produzione non è niente di completamente pazzesco, soprattutto se si tiene conto che i Libia ancora si produce solo la metà del petrolio che era arrivata a produrre quotidianamente e che i problemi con lo Stato Islamico rendono qualsiasi proiezione sulle esportazioni irachene sia molto speculativa. Sembra piuttosto che il problema principale si stia originando con la domanda, che non sta seguendo il modello del 2008 e del 2011, dove l'offerta ha superato la domanda nei momenti in cui dovrebbe succedere il contrario. Il problema è che comprendere tutto ciò che assimiliamo al petrolio nello stesso grafico impedisce di distinguere con chiarezza che tutto questo è realmente ciò che chiede il mercato. La IEA dovrebbe considerare seriamente di separare il mercato del greggio dal resto dei mercati degli idrocarburi liquidi nelle sue analisi, visto che non sono assolutamente fruibili ed equivalenti (come abbiamo discusso parlando del picco del diesel). 

Conseguenze

E' ancora presto per sapere se il crollo della domanda continuerà durante i prossimi mesi, causato da una possibile interruzione dell'attività globale. Sebbene stiamo realmente entrando in un processo recessivo, i Governi possono prendere molte misure per attenuare il problema e di fatto sembra che il Governo nordamericano abbia intrapreso una nuova campagna per stampare più soldi per tentare di scongiurare questo pericolo. L'efficacia di tale misura verrà verificata nelle prossime settimane. Tuttavia, ciò che ha evidenziato la forte diminuzione del prezzo del petrolio è un gran nervosismo in molti dei paesi produttori. Alcuni analisti si sono affrettati a dichiarare che, in realtà, questa diminuzione dei prezzi è il risultato di una sporca manovra dell'Arabia Saudita, alla quale gli autoproclamati esperti attribuiscono consensualmente la capacità eterna di controllare il mercato. Secondo loro, l'Arabia Saudita starebbe inondando il mercato di petrolio per far abbassare i prezzi. La cosa in cui questi esperti non si mettono d'accordo è con quale fine il regno saudita faccia questo. Alcuni opinano che lo facciano per favorire l'affossamento della ribelle Russia, altri che vorrebbe distruggere l'affare dello scisto negli Stati Uniti, altri ancora credono che l'Arabia Saudita stia tentando di strangolare economicamente lo Stato Islamico in Iraq... 

Ma, come abbiamo visto, non è l'Arabia saudita quella che sta aumentando la propria produzione, ma principalmente la Libia e gli aumenti osservati non eccedono rispetto alle quantità più o meno abituali per questo periodo dell'anno. Inoltre, come abbiamo commentato qualche mese fa, tutto indica che la produzione di greggio abbia iniziato il proprio declino. E in quanto all'Arabia Saudita non sembra possibile che possa aumentare sensibilmente la propria produzione di petrolio, piuttosto questa comincerà presto a diminuire. Perciò è possibile negare alla grande: non si stanno producendo grandi quantità di petrolio extra nel mercato con il fine di affossare i prezzi e men che meno è l'Arabia Saudita colei che sta provocando questa abbondanza immaginaria. Quello che invece sta succedendo con tutta probabilità è che la terza recessione sta già avanzando, la domanda crolla e con essa il prezzo. La Deutsche Bank ha pubblicato recentemente un'analisi sul prezzo minimo al quale ogni paese deve vendere il barile di petrolio, onde evitare di entrare in gravi deficit fiscali che potrebbero compromettere la loro stabilità:


Come vedete, i grandi produttori (Russia e Arabia Saudita) sarebbero già adesso in deficit mentre altri paesi che si trascinano problemi da tempo risulta che si trovavano già in una situazione di deficit fiscale. Non è nulla di nuovo: un anno e mezzo fa lo abbiamo spiegato su questo stesso blog. Il problema è molto più grave di quanto alcuni “esperti” proclamano. Non si tratta, no, di garantire un appartamentino ed un lavoro ad ogni coppietta o di ostentare ricchezza: si tratta di conservare la pace sociale in paesi che soffrono gravi squilibri. L'Arabia Saudita ha certamente abbastanza soldi per mantenere questa situazione per molti mesi, ma la maggior parte degli altri produttori si troverebbero in problemi gravi solo nel giro di settimane. Il sistema globale è malamente puntellato e potrebbe sgretolarsi con una rapidità inusitata se non si reagisce in fretta. 

Non solo i paesi sono a rischio. Abbiamo già visto che le 127 maggiori compagnie di gas e petrolio del mondo si sono indebitate irrazionalmente per mantenere la finzione di un mondo in espasione (arrivando all'assurdità di richiedere credito per distribuire i dividendi, cosa che ha sicuramente fatto in Spagna la società elettrica Endesa). Queste compagnie si sono impantanate in progetti di petrolio e gas non convenzionali che hanno dimostrato di avere un rendimento nullo o negativo. Ciò include i biocombustibili, le sabbia bituminose del Canada e il resto dei petroli extra pesanti, le acque ultraprofonde e, naturalmente, gli idrocarburi estratti mediante fracking. Come abbiamo già spiegato, dagli inizi di quest'anno le compagnie più grandi hanno cominciato a disinvestire fortemente nei giacimenti meno rettitizi, concentrandosi su un volume di affari inferiore ma di maggior rendimento e la pressione per aumentare questo disinvestimento va aumentando. Se l'attuale diminuzione dei prezzi va avanti ed è sufficientemente duratura, se si abbandoneranno altri progetti e questo farà sì che nel giro di un paio di anni quel petrolio che si sarebbe dovuto cominciare a mettere in produzione semplicemente non ci sarà. 

I nervi dei produttori sono a fior di pelle, mentre i loro consumatori abituali sono esangui. Praticamente non c'è tempo per reagire. Senza dubbio l'OPEC ridurrà leggermente la produzione per tentare di contenere la caduta del prezzo del greggio, ma questa strategia ha un raggio corto: se si taglia molto l'esportazione, il prezzo al barile di cui ogni paese ha bisogno sale, per cui dovrebbero tagliare ancora di più l'esportazione ed il prezzo necessario per equilibrare i conti salirebbe ancora di più. Davvero in quel senso non c'è molto margine. Prima o poi i paesi produttori si renderanno conto che ciò cui sono interessati è che qualcuno di loro affondi perché gli altri possano sopravvivere. In questo gioco folle, in questa assurda fuga in avanti, l'Iraq è fra quelli che hanno le carte peggiori, insieme ad altri paesi come Siria e Yemen.

Conclusione

Apparentemente, siamo già alle porte della Terza Grande Recessione. Sono mesi che ci sono gli indizi del suo arrivo e il crollo in poco tempo degli indici di borsa e dei prezzi di molte materie prime sono il risultato previsto del crollo della domanda associata alla crisi economica. La diminuzione del prezzo del petrolio in particolare è molto pericolosa, poiché compromette la sostenibilità finanziaria di numerose imprese di molti paesi che dipendono dagli introiti delle proprie esportazioni petrolifere per garantire la pace sociale, impegnate in modo del tutto irrazionale nell'estrazione di idrocarburi non convenzionali. 

Al livello degli 85 dollari al barile in cui si stanno stabilizzando i prezzi in questo momento, i rischi sono minori e sarebbe sopportabile se questo livello di prezzi non durasse troppo a lungo. Tuttavia, se la diminuzione dei prezzi prosegue, si potrebbe scatenare tutta una serie di conseguenze a valanga molto sgradevoli: il fallimento delle compagnie petrolifere o l'abbandono in massa dei giacimenti e delle estrazioni meno redditizie obbligherà gli Stati (in particolare gli Stati Uniti) ad intervenire, sottraendo risorse ad altre cose e probabilmente aggravando i propri problemi economici e sociali. Dall'altra parte, nei paesi produttori più deboli ci si possono attendere rivolte e guerre civili. Tutto ciò comporterebbe un crollo repentino della produzione di petrolio, che scatenerebbe problemi di fornitura e porterebbe immediatamente a prezzi del petrolio e di altre materie prime estremamente  alti che farebbero sprofondare le economie occidentali in una recessione ancora più profonda e questa ad un crollo ancora maggiore della domanda, ricominciando tutto il ciclo in una spirale oscura: recessione – distruzione della domanda e conseguente abbassamento del prezzo – crollo della produzione per fallimenti, rivolte e guerre e di conseguenza prezzi alti – di nuovo recessione, eccetera. L'instabilità accumulata nel sistema economico e produttivo globale è tale che una volta che si innesca la spirale sarà difficile fermarla e quando alla fine si fermerà potremmo trovarci molto più in basso di quando l'abbiamo fatta partire. Ci troviamo di fronte ad un abisso che nella nostra irresponsabilità collettiva, nella nostra irrefrenabile fuga in avanti, abbiamo contribuito a scavare. Ed ora stiamo allungando la gamba, allegramente, verso il vuoto che abbiamo davanti. 

Saluti.
AMT