domenica 19 novembre 2017

Pelagus. Il Mare al tempo dell'Antropocene.








Un post di Max Strata


Sono nato e cresciuto in una città di mare.

La mia casa si trovava a meno di un chilometro dalla spiaggia e fin da bambino, ogni giorno ed in ogni stagione, con il sole o con la pioggia, nell'afa estiva o sotto l'umido vento autunnale, potevo passeggiare lungo l'interminabile lido sabbioso e guardare i colori cangianti del Mediterraneo, le nuvole bianche e sottili, i grigi e turbolenti cumulonembi, il profilo aguzzo delle montagne che si trovano a poca distanza.

Nei miei ricordi più lontani ho bene impresso l'odore che il mare aveva e il sapore sapido e pulito dei frangenti. Ricordo che nelle pozze che si formavano sulla spiaggia dopo una mareggiata, potevo trovare decine di cavallucci marini (Hippocampus ramulosus) e una grande quantità di granchi, mentre dalla sabbia bagnata, scavando solo un po’, uscivano arenicole (Arenicola marina) lunghe fino 20 centimetri. Il mare era la città e la città aveva il sapore del mare. Il pesce era abbondante, la sabbia ed il sale si sentivano nelle piazze, nelle strade, nei cortili e ricorrevano nei discorsi della gente. Com'era il mare ieri, com'è oggi, come sarà domani e una certezza era condivisa: io ci sarò, ti nutrirò, ti fornirò aria buona e un clima mite. 

Oggi, a distanza di qualche decennio, quel mare è cambiato e le modificazioni ambientali che sono intervenute in questo lasso di tempo ne hanno fisicamente mutato le caratteristiche e la percezione sia a livello locale che a livello globale. Sulla costa dove sono nato e cresciuto perfino il suo colore e il suo odore non sono più gli stessi. L'innalzamento della temperatura delle acque di superficie e la quantità di nutrienti sversati dalle attività produttive e dai depuratori, ne hanno provocato un progressivo intorbidimento connesso a ripetute fioriture algali: un processo che è stato definito "fertilizzazione degli oceani". Con la maggiore quantità di calore prodotta dal cambiamento climatico (in estate fino a 4-5 gradi sopra la media) e l'intorbidimento delle acque costiere, ampi tratti di costa vengono interessati da “blooms” che sprigionano pericolose tossine. Pfiesteria piscida, Fibrocapsa japonica, Ostreopsis ovata e altre specie, oltre a recare danni alla pesca ed alla molluschicoltura sono in grado di provocare un serio impatto sanitario. La massiccia liberazione di tossine algali può infatti avere conseguenze sulla salute umana, in quanto l'inalazione per aerosol o peggio la loro ingestione, accidentale o mediante il consumo di molluschi bivalvi contaminati, può provocare, a seconda dei casi, irritazione, dispnea, intorpidimento, intossicazione epatica, paralisi e perdita della memoria fino al coma o addirittura alla morte.





Ai fenomeni di inquinamento diffuso, all'urbanizzazione delle coste, alla distruzione delle paludi costiere, al traffico navale e ai mutamenti climatici in corso, si aggiunge una pesca intensiva che in pochi anni ha decimato gli stock ittici e continua ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo impressionante. E' stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero a circa 90 milioni di tonnellate l'anno, mentre la F.A.O. ha dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a rischio di estinzione. 

Alcuni studi mirati indicano come negli oceani lo zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo. Come scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma”, "Il pescatore che ha catturato l'ultimo grande banco di merluzzo nell'area del George's Bank al largo della costa settentrionale degli Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino all'orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca".

Nel caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli stock ittici risultano sovrasfruttati.



L'ecologia ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo definite specie chiave) che hanno riflessi sull'intero sistema. Il fatto, oramai accertato, che gli ecosistemi possono transitare in modo estremamente veloce e irreversibile da uno stato ad un altro quando una specie chiave viene meno o perché sono forzati ad attraversare una soglia critica spinti da una potente sollecitazione esterna, deve farci seriamente riflettere.

Quella che è tramontata è l'idea stessa della intangibilità del mare, della sua purezza e della sua presunta totale capacità di auto depurazione, della sua resistenza agli “agenti esterni”. Il mare, che da sempre, nella concezione comune, è il luogo dove tutto si perde, si diluisce e poi scompare, è cambiato e ha mostrato la sua fragilità.

Gli oceani ospitano anche una notevole quantità di rifiuti nucleari. Inizialmente affondati al largo della baia di San Francisco negli Stati Uniti e poi in altri luoghi del mondo, vi è stata immersa una quantità non definita di scorie radioattive, compresi i reattori nucleari smantellati e armi chimiche con gas altamente velenosi. Recentemente, nelle acque prospicienti alcuni impianti di rigenerazione e smaltimento delle scorie derivate dall'utilizzo del nucleare per la produzione di energia elettrica, i sommozzatori di Greenpeace hanno rilevato valori di radioattività fino a diciassette milioni di volte superiori a quelli registrati nelle zone non soggette agli scarichi. Sulle coste norvegesi, ad esempio, funghi e gamberi sono risultati contaminati da tecnezio, una sostanza radioattiva che il centro per la radioprotezione norvegese ha identificato come proveniente dall'impianto nucleare inglese di Sellafield, situato a centinaia di chilometri di distanza nel mare d'Irlanda. 

Non esiste una quantificazione su scala globale dei rifiuti liquidi e degli scarichi urbani e industriali che ogni anno veicolano in mare composti chimici tossici a più livelli. In tutto il mondo, migliaia di analisi chimiche su specie di pesci, molluschi e crostacei destinati al consumo umano hanno evidenziato contaminazioni da metalli pesanti, da P.C.B., da bisfenolo A, e da Tributilstagno (T.B.T.), quest'ultima, una sostanza usata come biocida nelle vernici antivegetative per le imbarcazioni, causa l'imposex, il fenomeno che impone caratteri sessuali secondari maschili (pene, vaso deferente e ghiandola prostatica) negli esemplari femmine. Al triste elenco non mancano i P.B.D.E., appartenenti alla categoria dei contaminanti organici persistenti (P.O.P.), che pur essendo riconosciuti come sostanza pericolosa, vengono ampiamente utilizzati nella fabbricazione di molti prodotti industriali tessili ed elettronici, negli imballaggi plastici e nel materiale edile, e proprio a causa di questo loro ampio utilizzo sono diventati ubiquitari, tant'è che la loro presenza è stata riscontrata anche negli uccelli, nei mammiferi marini, nel latte materno, nel tessuto adiposo, nel sangue e nel siero umano. 

Ultimi della fila gli ftalati, ormai onnipresenti in pellicole per alimenti, contenitori per farmaci e cosmetici, giocattoli, prodotti per l'igiene personale, ecc., sostanze che rientrano nella categoria dei cosiddetti “disturbatori endocrini”, che vengono assorbite dall'organismo anche solo attraverso il contatto con l’epidermide e che vengono messi in relazione con l'insorgenza del diabete, disturbi cardiaci, problemi di fertilità, obesità, autismo e alcuni tipi di cancro. Il fatto è che contaminazione ambientale e contaminazione alimentare sono strettamente collegate tra loro, poiché qualsiasi sostanza dispersa nell'ambiente non può esimersi dall'entrare nella catena alimentare. E che dire dei vari polimeri plastici che quotidianamente finiscono in mare. 

Recenti ricerche effettuate dal programma ambientale dell’O.N.U., hanno stimato che in ogni km quadrato di superficie oceanica si trovano fino a 20.000 frammenti di plastica con una media che passa a 400.000 frammenti nelle aree più contaminate, come nelle oramai tristemente note “isole di plastica”. In queste aree in particolare, la percentuale di micro particelle di plastica presenti in acqua è almeno 6 volte superiore a quella dello zooplancton e considerato che morfologicamente le particelle di plastica gli assomigliano molto, meduse, pesci e altri organismi marini se ne cibano, causandone, anche in questo caso, l'introduzione nella catena alimentare. I detriti plastici oceanici sono costituiti principalmente da monofilamenti incrostati di plancton e diatomee e a differenza dei rifiuti galleggianti di origine biologica non sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione ma subiscono una fotodegradazione, ossia si disintegrano in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri di cui sono composti.

Nei mari del mondo si stima che ogni anno a causa dell'ingestione di plastica muoiano qualcosa come 100.000 tra tartarughe e mammiferi marini e circa 1 milione di uccelli marini che vengono sterminati da tappi, ugelli degli spray, spazzolini da denti, ecc..., gli uccelli avvistano questi oggetti dal cielo, si tuffano in picchiata scambiandoli per cibo e li ingeriscono. Inoltre, i frammenti di plastica, agiscono come spugne assorbendo molti inquinanti chimici dispersi in acqua che accumulano in concentrazioni estremamente elevate. Una serie di ricerche effettuate lungo le coste della Scozia hanno dimostrato come una elevata percentuale di scampi destinati al mercato europeo (Nephrops norvegicus) presenta nel proprio apparato digerente filamenti e particelle di plastica. Come se non bastasse, un team di ricercatori del Korea Institute of Ocean Science and Technology, utilizzando una tecnica innovativa, ha recentemente raccolto campioni lungo la costa della Corea del Sud dimostrando come nei microscopici detriti galleggianti in mare, sono presenti anche leganti per vernici e resine di poliestere presenti nella vetroresina: sostanze che vengono utilizzate per realizzare e trattare vari tipi di imbarcazioni. Il gruppo di ricercatori, guidato dal chimico ambientale Won Joon Shim, ha verificato che in media, un litro di acqua marina conteneva 195 micro particelle, una concentrazione da 10 a 100 volte superiore rispetto a quelle raccolte in mare con altri metodi.



Quanto è lungo l'elenco dei crimini che la nostra specie sta infliggendo agli oceani? Secondo recenti stime della F.A.O., della Banca mondiale e della National Geographic Society, analizzate dalla Global Ocean Commission, nei mari di tutto il pianeta esisterebbero già oltre 400 “zone morte” che coprono una superficie pari a 250 mila chilometri quadrati, dove la maggior parte degli organismi marini non riesce più a sopravvivere. Inoltre, il 35% delle foreste di mangrovie e il 20% per cento delle barriere coralline risultano distrutte. Gli oceani coprono il 71% della superficie terrestre e hanno un ruolo fondamentale nella regolazione globale del clima. Assorbono calore, liberano quasi la metà dell’ossigeno che respiriamo e catturano oltre un quarto del CO2 emesso dalle attività umane (una quantità cinque volte superiore a quella delle foreste tropicali). In mare il biossido di carbonio si trasforma in acido carbonico (H2CO3) e le reazioni chimiche che si determinano provocano una riduzione degli ioni di carbonio liberi che sono fondamentali nei processi di compensazione dei carbonati e per la calcificazione dei gusci calcarei e degli scheletri di molte specie marine. Questa carenza ha un impatto sull'ecosistema e porta alla dissoluzione dei gusci calcarei delle conchiglie di molluschi, echinodermi, alghe, coralli e plancton calcareo; in pratica, agisce su tutti gli organismi la cui esistenza è legata alla fissazione del carbonato di calcio. 

L’Unesco ha presentato i risultati del Third Symposium on the Ocean in a High CO2 World, evidenziando che il fenomeno dell’acidificazione degli oceani, che avviene ad un ritmo inedito, è uno degli effetti più preoccupanti del cambiamento climatico e la prima constatazione è stata che gli oceani hanno visto il loro tasso di acidità aumentare del 26% dall'inizio dell’era industriale, con un pH che si è abbassato da 8,25 a 8,14. Ogni giorno, circa 24 milioni di tonnellate di CO2 vengono assorbite dalle acque marine e se le emissioni di questo gas resteranno immutate, il tasso di acidificazione aumenterà del 170% entro questo secolo in rapporto ai livelli anteriori all'era industriale. E’ chiaro che, nella misura in cui si accentua l’acidità, la capacità degli oceani di “trattare” l'anidride carbonica emessa in atmosfera si riduce, diminuendone il ruolo svolto nell'attenuazione del cambiamento climatico. Gli attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10 volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l'ultima grande estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene, avvenuta circa 55 milioni di anni fa.

Ma quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca nell'equilibrio della vita sul pianeta ? Considerato che il 90% di tutte le forme viventi si trova negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del pianeta. Pur nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da verificare e che i "feedback" arrivano spesso in modo lento e apparentemente non chiaro, resta il fatto che ci troviamo in presenza di un cambiamento molto rapido e su larga scala che incide sui limiti del mare nel sostenere la vita sul pianeta. Assorbendo enormi quantità di carbonio e calore dall'atmosfera, gli oceani del mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale, ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del resto, la capacità del mare di assorbire CO2 è comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno effetti globali. Considerato che c'è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas climalteranti.



Inoltre, il riscaldamento globale incrementa il fenomeno conosciuto come “deserto oceanico”. É noto infatti che le acque fredde sono ricche di sostanze nutrienti fondamentali per le catene alimentari marine e che invece gli strati superficiali, generalmente compresi tra una profondità di 30 e 100 metri, risultano più caldi e più stabili. A causa dell'irradiamento solare, la dilatazione dell'acqua che si manifesta al di sopra dei 4 °C provoca una minore densità degli strati superficiali rispetto a quelli sottostanti e ciò costituisce un vincolo per la vita oceanica. Durante la primavera i produttori primari sfruttano al massimo i nutrienti presenti negli strati superficiali via via sempre più caldi, fino a quando questi tendono ad esaurirsi e i detriti precipitano sul fondo. A questo punto, senza più cibo, le forme viventi presenti in superficie si riducono in modo drastico andando a costituire una sorta di “deserto” in mare. Così, mentre nei mari freddi le acque superficiali rimangono al di sotto dei 10 °C e riescono a rimescolarsi con gli strati profondi ricchi di sostanze nutrienti producendo vita, negli oceani caldi questo non avviene. La cattiva notizia è che già oggi, solo il 20% circa degli oceani ha caratteristiche fredde e che, con il progressivo riscaldamento del mare, questa percentuale è destinata a diminuire, “spostandosi” sempre di più verso le aree polari. Poiché in questo periodo storico le emissioni continuano ad aumentare e la temperatura media a salire, lo scenario che abbiamo di fronte appare tutt'altro che rassicurante.





Max Strata è consulente ambientale e saggista

Nella foto, raccolta di alghe nelle pozze di marea, Oceano Atlantico, Portogallo



sabato 18 novembre 2017

Il problema dell'eliminazione dell'Italia dai mondiali di calcio




13 novembre 2017
Maltempo, mancano 60 miliardi di metri cubi d’acqua per la siccità
Mancano almeno 60 miliardi di metri cubi di acqua per effetto di un 2017 straordinariamente siccitoso in cui è caduto in Italia circa 1/3 di pioggia in meno dall’inizio dell’anno. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti in occasione dell’ondata di maltempo con vento, pioggia e neve, sulla base dei dati Ucea relativi ai primi dieci mesi dell’anno. Non solo disagi e danni, l’arrivo della pioggia e della neve è importante per dissetare i campi resi aridi dalla siccità e ripristinare le scorte idriche nei terreni, nelle montagne, negli invasi, nei laghi e nei fiumi a secco. Le precipitazioni pero’ – sottolinea la Coldiretti – per poter essere assorbite dal terreno devono cadere in modo continuo e non violento, mentre gli acquazzoni aggravano i danni provocati dagli allagamenti con frane e smottamenti. Il repentino abbassamento della colonna di mercurio e i violenti temporali confermano i cambiamenti climatici in atto che in Italia – continua la Coldiretti – si manifestano con ripetuti sfasamenti stagionali ed eventi estremi anche con il rapido passaggio dalla siccità all’alluvione, precipitazioni brevi e violente accompagnate da bombe d’acqua con effetti sulle coltivazioni e sulla stabilità idrogeologica del territorio. A causa delle frane e delle alluvioni provocate dai cambiamenti climatici l’agricoltura italiana – conclude la Coldiretti – ha perso piu’ di 14 miliardi di euro nel corso di un decennio, tra produzione agricola nazionale, strutture e infrastrutture rurali.
 
 

martedì 14 novembre 2017

La Mente di fronte alle catastrofi


(Pubblicato anche sul blog "Appello per la Resilienza")

Risultati immagini per verso un'ecologia della mentePer chi conosce il problema dei "limiti dello sviluppo" può sembrare sorprendente rileggere oggi l'ultima parte di "Verso un ecologia della mente" di Gregory Bateson. Questo padre del pensiero sistemico aveva già chiaro il destino che attende la nostra civiltà (se non cambia... ecc, ecc)

Se io sono nel giusto, allora il nostro atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli altri deve venire ristrutturato. Non si tratta di uno scherzo e non so quanto tempo abbiamo prima della fine. (G. Bateson, pag. 503; grassetto mio)

Questo veniva detto nel gennaio 1970, dunque prima che fosse pubblicato il primo rapporto sui Limiti dello sviluppo (1972). Ora, sono passati quasi 50 anni da questi avvertimenti e ci troviamo, noi contemporanei, a vivere proprio "quel" momento che sembrava non arrivare mai. Siamo "on the cusp of collapse" direbbe David Korowicz.

Tuttavia - rilevo - la nostra specie non sembra affatto in grado di reagire di fronte ad un pericolo annunciato, probabilmente il più grave della storia umana. Intendo dire tutti: dallo scienziato al filosofo, dall'operaio all'agricoltore. Come mai dunque? Sebbene la questione sia stata assai discussa (anche su questo blog) qui mi interrogo su altre motivazioni.

La mente "mente" dicono i buddisti. Il pensiero è un'anticipazione della realtà, una sua rappresentazione, dicono gli occidentali.

Il pensiero è una pre-occupazione - sia esso scientifico, filosofico o artistico - viene "prima" del "contatto" vero e proprio con la realtà e nel quale la coscienza si spegne, per così dire. O si pensa o si è tutt'uno con la realtà. Questo non significa che non si debba mai pensare, ma che bisogna comprendere che il pensiero è una simbolizzazione della realtà.

Sfortunatamente siamo malati di troppo pensiero e non siamo quasi mai in contatto col mondo. Siamo "con" i nostri pensieri, ma i pensieri non sono il mondo. La realtà è non-verbale, direbbero ancora una volta i buddisti.

Tutti i cosiddetti "catastrofisti", mi sembra, si trovano d'accordo su un punto: che vi sarà un "tipping point", un punto di svolta dopo del quale accadrà certamente un grosso cambiamento, ma non c'è accordo su che cosa accadrà. Le opinioni variano dagli estremi di un "catastrofismo ottimista" sino all'apocalisse e all'estinzione umana a breve termine (detta NTHE in inglese).

ANTROPOCENTRISMO

Quando si parla di "antropocentrismo" ci si può spingere fino a riferirsi a ciò che accumuna tutti gli uomini di questo pianeta, non solamente una cultura specifica (con le dovute eccezioni). Secondo questa idea siamo tutti affetti da una forma di egocentrismo che ci porta, inconsapevolmente o meno, a ritenerci più importanti degli altri esseri.

"Ogni essere vivente è imperialista" diceva Bertrand Russell. Non solo noi ma tutti gli esseri. Per ogni specie si potrebbe cambiare il suffisso "antropo" e lasciare "centrismo". Sembra inscritto in tutti gli esseri viventi quello di sentirsi al centro dell'universo, ma l'uomo è la forma autocosciente di questo delirio, come già diceva Nietzsche. Non molto tempo è passato da quando pensavamo che Dio avesse creato per noi piante, animali e tutto il resto.

Se mettete Dio all'esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l'idea di essere stati creati a sua immagine e somiglianza, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica (op.cit.,p. 503)
 Risultati immagini per antropocentrismo

LA PARTE E IL TUTTO

Sebbene però la "natura" - termine con cui in modo bizzarro etichettiamo tutto ciò che noi non siamo - abbia una logica nella sua ciclica "distruzione" e creazione (nel senso che le catene alimentari sono crudeli ma "funzionali" all'armonia dell'insieme) noi invece sembriamo agire in maniera del tutto disfunzionale, sia dal punto di vista della nostra specie che dal punto di vista del pianeta. Ci distruggiamo a vicenda e distruggiamo il pianeta - pianeta di cui facciamo parte. Ecco, ciò che intendo dire si riduce a questa affermazione, che va indagata in profondità.

 [...] se un organismo o un'aggregato di organismi stabilisce di agire avendo di mira la propria sopravvivenza allora il suo "progresso" finisce per distruggere l'ambiente [...] in effetti avrà distrutto se stesso. (op.cit., p. 491)

Quando diciamo che noi siamo parte della natura in realtà lo diciamo solo a parole ma non "a fatti". Siamo consapevoli di derivare dalle scimmie? Solo a parole. Di più: siamo consapevoli di derivare dai batteri? No. Il pensiero evolutivo ci ha abituato a questa consapevolezza, ma è qualcosa che abbiamo digerito senza masticarlo veramente. Lo abbiamo accettato come vero e ovvio ma senza pensare davvero alle sue conseguenze.

Non deriviamo però solamente da qualcos'altro, noi siamo quell'altro che pur facciamo fatica a riconoscere. Siamo letteralmente costituiti di parti di mondo, compresa la componente inerte (minerali), in ogni nostra parte.

E' questa la radice di tutti i nostri problemi, un grande ritardo "culturale" se volete, un grandioso disadattamento della specie, una incapacità di accettare la propria origine. E' la hybris dell'homo sapiens sapiens.

Nessuno sa quanto tempo ci resti, nel sistema attuale, prima che si abbatta su di noi qualche disastro, più grave della distruzione di un gruppo di nazioni. Il compito più importante oggi è forse di imparare a pensare nella nuova maniera. (op.cit., p. 503)


venerdì 10 novembre 2017

La Metamorfosi Liquida - Il futuro non è più quello di una volta.


Il convegno "Metamorfosi Liquida" si è tenuto a Firenze il 28 e 29 Ottobre 2017. Un po' diverso dal convegno scientifico "classico", si è parlato un po' di tutto, da varie filosofie orientali alla scienza della sostenibilità, ma l'enfasi è stata sull'ambiente, sulla società sostenibile, e sul futuro. Fra gli oratori c'era anche il modesto sottoscritto (Ugo Bardi) che ha parlato un po' di stoicismo, un po' di caccia alla balena, e un po' di scienza dei sistemi. Insomma, diciamo senz'altro un convegno molto vario!




Qui, Elena Corna commenta sul convegno. Elena è laureata in lettere antiche, insegna nella scuola secondaria, si interessa di tutela dell’ambiente e degli animali e divulgazione della cultura in modalità ludica. E' coordinatrice dell'associazione culturale "La Compagnia del Tao".



Il futuro non è più quello di una volta 

di Elena Corna


E’ naturale che il titolo del convegno, la metamorfosi liquida, faccia pensare immediatamente a Zygmund Bauman e al concetto di società liquida, che vale la pena richiamare citando le parole di Umberto Eco: "Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un latol’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo.”.[1]

Oggi, soleva ripetere Bauman, “il cambiamento è l'unica cosa permanente e l'incertezza è l'unica certezza”.

Non è un’idea nuova; da Democrito che ricordava che “in verità nulla sappiamo, ché la verità è nell'abisso” e Socrate che sapeva di non sapere fino a Bertrand Russell, che ironicamente notava che “i fanatici sono estremamente sicuri di loro stessi mentre le persone sagge sono piene di dubbi”, da Laozi che sapeva bene che ogni proposizione è una limitazione del Dao alle commedie di Pirandello, tutti sappiamo che non vi è alcuna certezza. La scienza ha dovuto continuamente rivoluzionare le proprie acquisizioni[2] e oggi è noto che per il momento la conoscenza umana abbraccia solo il 4 % di ciò che costituisce l’universo. Il resto è materia oscura, energia oscura o qualcosa d’altro, ma comunque qualcosa che sfugge alla comprensione[3].

Il cambiamento poi è la cifra della vita stessa, la cui osservazione capillare è all’origine della scuola yin-yang e della medicina cinese. Il libro di saggezza orientale più famoso, l’Yijing, è chiamato Il classico dei mutamenti, e le Metamorfosi di Ovidio sono uno dei testi più affascinanti della letteratura latina. Le specie si evolvono a causa di mutazioni genetiche, molti animali crescendo fanno la muta o mutano il colore della pelliccia a seconda della stagione, cambiano anche i linguaggi. Dunque è innegabile che siamo immersi da sempre in una rete costante di mutamenti che generalmente vanno in direzione di un maggior adattamento all’ambiente.

L’elemento di novità della fase attuale, quella analizzata da Bauman e altri, è che i cambiamenti appaiono accelerati e “liquidi”, difficili da afferrare e dunque da prevedere, a partire dal cambiamento più globale in assoluto, il cambiamento climatico che sta rimodellando l’aspetto del pianeta e rendendo alcune aree non più abitabili. Per questo, sono ormai milioni i profughi ambientali costretti a spostarsi, per cui le società ospitanti a loro volta devono mutare struttura e adattarsi. Si tratta di milioni di persone.[4] Oggi i numeri sono grandi e i mutamenti sono veloci, anche se si tratta di differenti tipi di mutamento. Negli stati Uniti, una città prospera come Detroit in pochi anni si è trasformata quasi in una città fantasma dopo la bancarotta della Chrysler e della General Motors. In Cina, il piccolo borgo rurale di Shenzhen, che contava 30.000 abitanti, in solo trent’anni è diventata una città di 14 milioni di abitanti. Nel Pacifico, gli oltre 100.000 abitanti di Kiribati dovranno trasferirsi perché l’arcipelago sta finendo sott’acqua.

Anche in Italia la percezione diffusa è di vivere in perenne stato di precariato[5], non solo lavorativo ma anche, di conseguenza, relazionale. Non è più così scontata la prospettiva di trascorrere un congruo numero di anni nella stessa città né di mantenere lo stesso lavoro: dunque perché stringere relazioni stabili e soprattutto, perché comprare casa? E’ cambiato quindi anche il modo di spendere.

Questa è una delle cause del consumismo denunciato da Bauman come ingrediente basilare della modernità liquida, in cui anche gli oggetti accompagnano gli individui per brevissimo tempo, per essere rimpiazzati da altri. “Rottamare” è diventato un termine di gran successo e non si applica solo agli oggetti inanimati. E’ una situazione che può incutere paura e in effetti l’unica industria veramente fiorente è l’industria della paura. E’ indicativo che il documentario statunitense "The ages of consequences", sui cambiamenti climatici, sia affollato da militari e da armi, dall’inizio alla fine; sembra che armarsi il più possibile sia la risposta al cambiamento e l’espressione che ricorre più spesso è “sicurezza”.

Questo perché il cambiamento climatico porta turbamento sociale e quindi viene visto come un problema di sicurezza nazionale. Laozi direbbe che anche le armi meglio concepite sono strumenti nefasti[6] ma è evidente che ora la ricerca della sicurezza funge da salvagente per non affogare nell’incertezza. Le metamorfosi (del territorio, dei sistemi politici, delle società…) sono così minacciose che si cerca di studiarle, di fare delle proiezioni basate sui dati a disposizione per calcolarne le conseguenze e per capire quale di esse potrebbe avere conseguenze catastrofiche e quanto sarebbe il potenziale catastrofico. A questo la rivista Le Scienze ha dedicato un intero numero (La scienza della fine, novembre 2010).

Tuttavia, il futuro sarà sempre meno prevedibile.[7] I progressi della nostra capacità di modellare e prevedere il mondo sono ridotti dall’aumento della sua complessità, il che accresce enormemente il ruolo dell’imprevedibile. [8] L’incertezza resta diffusa e genera paura.

Se la paura è il primo elemento visibile del disagio, il secondo è lo stress generato dallo sforzo continuo che siamo chiamati a sostenere per adattarci velocemente e continuamente a un contesto che cambia ogni giorno, soprattutto nel mondo del lavoro, in cui l’energia di adattamento che viene richiesta è sempre maggiore[9]. Nel mondo del lavoro ma non solo, anche nella vita quotidiana; per esempio, una persona compra una videocamera che registra su mini CD; pochi mesi dopo cerca di acquistare altri mini CD e si sente rispondere “Questa tecnologia non si usa più”. E’ molto facile essere indotti a sentirsi idioti. E’ facile reagire rincorrendo il nuovo, ma l’oggetto nuovo oggi è obsoleto dopodomani. La bulimia di cui parla Eco spiegando Bauman ha anche la conseguenza di aver saturato la terra e il mare di rifiuti, aggravando pesantemente le condizioni degli ecosistemi.[10]

Sensazione di precarietà, paura, stress…Non stupisce che la solidarietà sociale naturale in cui credeva Cicerone [11] abbia lasciato il posto a un’interazione sociale dominata dalla diffidenza e dall’antagonismo; a giudicare dall’aumento vertiginoso delle cause legali, si direbbe che una delle modalità più frequenti di interazione sia quella tramite avvocato[12].

Forse, questa miscela di incertezza, paura e sforzo di adattamento continuo potrebbe essere anche una delle cause per l’aumento dei suicidi, che sono la prima causa di morte fra i giovani in Giappone[13] e la seconda causa di morte fra i giovani negli USA[14] e anche in Italia[15], se le notizie divulgate dalla stampa sono corrette.

Si ignora quali cambiamenti attendano in questa fase l’essere umano, chiamato a gestire una transizione delicata. Scrive Fritjof Capra: Una volta compresi i processi e i pattern delle relazioni che permettono agli ecosistemi di sostenere la vita, capiremo anche i diversi modi in cui la civiltà umana, specialmente a partire dalla rivoluzione industriale, ha ignorato questi pattern e ha interferito con essi.

Oggi ciò che risulta evidente è che i principali problemi della nostra epoca- energia, ambiente, cambiamento climatico,, sicurezza alimentare, sicurezza finanziaria- non possono essere compresi separatamente. Sono problemi sistemici, il che significa che sono tutti interconnessi e interdipendenti.[16] Anche per questo le previsioni sono ardue. L’essere umano è allo stesso tempo vittima e causa del disagio, nonché dell’estremo malessere delle altre specie; non si conosce nemmeno il numero di specie che si estingue ogni anno, ma la distruzione degli habitat, il commercio illegale, il bracconaggio, l’inquinamento e i cambiamenti climatici mettono seriamente a rischio i viventi non umani, che pur sono indispensabili alla nostra stessa sopravvivenza; è emblematico il caso del collasso degli alveari, grave per le api in primo luogo e per noi in secondo luogo, visto che la maggior parte delle risorse alimentari dipende dal lavoro di impollinazione delle api.[17]

E’ sotto gli occhi di tutti che non siamo ancora usciti, come civiltà occidentale, dall’errore antropocentrico che porta a pensare l’essere umano come separato e superiore alle altre specie e abilitato a sfruttarle indiscriminatamente, opinione che è un portato delle tradizioni delle religioni rivelate[18], nonostante voci autorevoli [19] (oltre che il buon senso) si affannino a spiegare che la connessione con altri viventi (animali e vegetali) sia fondamentale per il benessere dell’essere umano.

Forse il non pensarsi più separato potrebbe essere il primo faro in grado di guidare l’essere umano in transizione. La mentalità pagana non vedeva soluzione di continuità fra gli esseri e da questa mentalità sono nate le Metamorfosi di Ovidio, in cui i protagonisti passano da una forma umana ad una forma animale o vegetale o divina in un continuo mutare di prospettiva. E’ interessante che la possibilità di cambiare forma sia in Ovidio una tecnica di sopravvivenza: Dafne, stremata dal continuo fuggire (era inseguita da Apollo), non soccombe ma sopravvive come pianta di lauro e la figlia di Erisictone sopravvive all’avidità del padre (che la vendeva al mercato) trasmutandosi ogni volte in un animale diverso. Cassiopea, Andromeda, Perseo ed altri invece vengono tramutati in costellazioni, perché omnia mutantur, nihil interit[20].

Ciò che è da sottolineare è che le metamorfosi rivelano … una certa credenza nell’unità fondamentale dell’essere, di cui le apparenze sensibili hanno solo un valore illusorio o passeggero…[21]

L’unità fondamentale dell’essere è esattamente il principio cardine del daoismo:

Gli esseri innumerevoli hanno origine dal dao e io li vedo ritornarci. Ritornare alla propria radice significa entrare nello stato di riposo. Da questo riposo essi escono per un nuovo destino e così di seguito, senza fine. Riconoscere la legge di questa continuità ininterrotta, è questa la saggezza.[22]

Per questo la Compagnia del Tao ha ritenuto importante una riflessione su questa fase di mutamento rapido e ha organizzato il convegno Metamorfosi liquida, che si avvarrà (e non potrebbe essere altrimenti) del contributo di esperti di diverse discipline, proprio perché tutto è interconnesso e il fenomeno coinvolge tutti i viventi.



[1] Umberto Eco, La società liquida, rubrica La bustina di Minerva, L’Espresso, 29 maggio 2015. L’articolo fu scritto in occasione dell’uscita del libro di Bauman Stato di crisi (Einaudi 2015)

[2] La storia dei paradigmi scientifici è trattata in modo chiaro e preciso da Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi, Vita e natura, una visone sistemica, Aboca 2014, p.19 sgg.

[3] Richard Panek, Il 4% dell’universo, ed. Codice 2012

[4] Vedi Marina Forti, Questo sarà il secolo dei profughi ambientali, Internazionale.it, 6 ottobre 2016

[5] Per una buona analisi si rimanda all’articolo di Elisa Magrì, Da lavoratore a precario: come cambia la percezione del presente, 6 maggio 2011, www.ilcambiamento.it

[6] Daodejing XXXI

[7] Sulla fallacia delle tecniche di previsione si veda Nassim Nicolas Taleb, Il cigno nero, Il Saggiatore, 2007. L’autore, economista, parte da una critica della curva a campana, dimostrando che “i metodi di inferenza con curva a campana non dicono quasi nulla perché la curva a campana ignora le grandi deviazioni, non riesce a gestirle, eppure ci fa credere di aver domato l’incertezza” (p.18), ma amplia il discorso includendo le acquisizioni delle neuroscienze e delle scienze sociali. Il passato presenta molti esempi di previsioni errate relative alle guerre (p.163), che hanno un effetto sulla finanza. Ma “le istituzioni finanziarie si sono fuse in poche banche di dimensioni molto grandi, le quali sono quasi tutte collegate fra loro. La maggiore concentrazione sembra avere l’effetto di rendere meno probabili le crisi finanziarie, ma quando queste si verificano assumono una scala più globale e colpiscono in modo più duro. Avremo meno crisi, ma saranno crisi più gravi. Più raro sarà l’evento e meno riusciremo a calcolarne la probabilità.” (p.238-239). Anche l’impatto sociale è assai poco prevedibile: ”Legioni di psicologi empirici della scuola delle euristiche e dei bias hanno dimostrato che il modello del comportamento razionale in caso di incertezza non solo è grossolanamente impreciso ma è anche del tutto sbagliato come descrizione della realtà”. (p. 199)

[8] Nassim Nicolas Taleb, op.cit. p. 152. E’ qui che Taleb riporta la frase utilizzata per il titolo Il futuro non è più quello di una volta.

[9] L’espressione energia di adattamento è del dott. Hans Selye (The stress of life, 1956), il primo ad aver applicato il concetto di stress agli esseri viventi. Vedi Alexander S. Haslam, Psicologia delle organizzazioni, ed. Maggioli 2015, p. 312

[10] Su questo tema verte l’inquietante documentario Trashed, del 2012, di Candida Brady e raccontato da Jeremy Irons.

[11] Cicerone, De Officiis, III, 23:” neque vero hoc solum natura, id est iure gentium, sed etiam legibus populorum, quibus in singulis civitatibus res publica continetur, eodem modo constitutum est, ut non liceat sui commodi causa nocere alteri. Hoc enim spectant leges, hoc volunt, incolumem esse civium coniunctionem. Atque hoc multo magis efficit ipsa naturae ratio, quae est lex divina et humana…”

[12] Nel 2006, ad esempio, ci sono state 4.809 nuove cause ogni 100mila abitanti in Italia (European Commission for the Efficiency of Justice, Councile of Europe )

[13] Cfr.Pio D’Emilia, Giappone, suicidi, prima causa di morte fra under 24, Il fattoquotidiano.it, 28 maggio 2015

[14] https://news.vice.com/it/article/numero-suicidi-stati-uniti. Il tasso è salito da 10.5 suicidi ogni 100.000 persone nel 1999, ai 14 nel 2014 – una crescita pari al 24 per cento.

[15] Cfr. Alessandro Malpelo, Allarme suicidio tra gli adolescenti, seconda causa di morte in Italia, Ilquotidiano.net, 10 settembre 2016

[16] F.Capra, op.cit., p. 461

[17] Il film-documentari di Markus Imhoff, More than honey (tradotto in italiano come Un mondo in pericolo), del 2012, illustra molto bene la situazione e mostra fra l’altro come in Cina già si proceda a impollinare a mano, essendo venute a mancare le api.

[18] Su questo tema si veda Gino Ditadi, Le grandi religioni e gli animali, in Zooantropologia a cura di Roberto Marchesini, ed. RED 1999, p.153 sgg, e Guido Dalla Casa, L’errore antropocentrico, online.

[19] Nalini Nadkarni, Fra la terra e il cielo, ed. Elliot 2010: Stefano Mancuso, Verde brillante, Giunti 2013;; Roberto Marchesini, Il rapporto uomo-animale nella prospettiva zooantropologica, in Zooantropologia, cit., p. 28 sgg.

[20] Tutte le cose cambiano, niente muore. Ovidio, Metamorfosi, XV, 165. Chi parla qui è Pitagora, che fra l’altro pronuncia un lungo e appassionato discorso contro il nutrirsi di carne (vv.75-142), che definisce scelus.

[21] Chevalier e Geerbrant, citazione tratta da Gianfranco Romagnoli, La metamorfosi: vitalità di un concetto, relazione tenuta al convegno La metamorfosi, archetipo e mito, Recanati, 24 ottobre 2011

[22] Laozi, Daodejing, XVI

venerdì 3 novembre 2017

Effetto "McBeth”


di Jacopo Simonetta

Preludio



Può la crescita economica rendere più poveri anziché più ricchi? La risposta è “SI”.


Il modello di base è quello della “crescita antieconomica” di H. Daly che spiega tanta parte del nostro presente e del nostro futuro. Rimandando al link per i dettagli, possiamo dire che per la fatidica dinamica dei ritorni decrescenti, superato un limite non chiaramente prevedibile, il cumulo dei costi indiretti supera fatalmente quello dei vantaggi diretti. Da questo punto in poi, la crescita economica può anche continuare, ma rende la gente sempre più povera, anziché sempre più ricca. Ma perché mai uno dovrebbe continuare ad investire ed a lavorare per stare peggio?

Ci possono essere diverse ragioni. Per esempio, può non essere chiaro se il fatale limite sia stato oltrepassato o meno; oppure ci possono essere poche persone che guadagnano molto e tante che collettivamente perdono di più, ma individualmente perdono poco. Ovviamente, quelli che guadagnano si organizzano per difendere i loro privilegi, mentre coloro che ci rimettono di solito neanche capiscono in che modo gli spariscono i soldi. Esiste però anche un altro meccanismo molto più insidioso: una vera trappola da cui è spesso impossibile sfuggire, anche quando ci si rende conto di cosa stia succedendo.

La trappola

“Oramai sono così sprofondato nel sangue che fermarmi e tornare indietro sarebbe altrettanto faticoso che andare avanti”.   Questa celebre battuta della tragedia shakespeariana esemplifica bene una trappola in cui tipicamente si cade quando si investe nello sfruttamento di un sistema senza tenere sufficientemente conto del suo funzionamento e della sua resilienza.   Cerchiamo di capirci con qualche esempio pratico.

Un caso da manuale è quello dell’estinzione dei banchi di pesce e, conseguentemente, delle imprese di pesca con le relative filiere fino, eventualmente, alle banche creditrici. La trappola scatta quando, a fronte di una riduzione del pescato, le imprese rispondono investendo in mezzi più potenti che depauperano ulteriormente la risorsa e così via in una tipica retroazione positiva (rinforzante). In assenza di fattori limitanti esterni efficaci (limiti di legge, limiti del credito, ecc.), il sistema giungerà necessariamente ad un punto in cui pescare diventerà anti-economico. Ma se saranno stati fatti investimenti troppo grandi non ancora ammortizzati e/o debiti non ancora ripagati, i pescatori saranno costretti a continuare a pescare sempre di più, anche in perdita, anche se si rendono conto che stanno distruggendo la loro risorsa.  Così come le banche saranno costrette a rinnovare loro i crediti per guadagnare tempo, sperando in un miracolo.

Un meccanismo analogo sta alla base del consumo di insostituibile suolo per continuare a costruire case, malgrado le imprese costruttrici siano sovraccariche di appartamenti e villette invendute.   Se non vendono, perché continuano a costruire?  Perché se smettessero le banche non rinnoverebbero loro dei crediti che non possono pagare.  Così ognuno continua, sperando che altri schiattino prima di lui, liberando spazi di mercato che potrebbero salvarlo.  Anche le banche creditrici continuano a sostenerli, sapendo che dalla liquidazione di quelle imprese non recupererebbero mai quanto loro dovuto.


Saliamo di scala. 

Oramai da anni, per molti campi petroliferi il costo di estrazione e raffinazione supera il prezzo a cui il petrolio può essere venduto; un meccanismo che sta mettendo più o meno in crisi imprese e petrocrazie .   Eppure tutti questi soggetti, anziché accordarsi per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, si affannano a pompare a più non posso.   Follia collettiva?   Penso di no.  Nel periodo dei prezzi alti ed in previsione di ulteriori aumenti, le imprese hanno fatto degli investimenti miliardari ed avviato progetti di estrazione in condizioni estreme. Tutti costi che non sono ancora stati ammortizzati; ciò significa che se ora abbandonassero i progetti dovrebbero mettere a bilancio perdite enormi, perdere il credito e probabilmente fare bancarotta.  Inoltre, progetti particolarmente impegnativi sul piano tecnico e finanziario, se abbandonati, difficilmente potranno essere ripresi.   Spesso si lavora quindi in perdita, sperando in una ripresa dell’economia globale, oppure nel fallimento dei concorrenti.

Per quanto riguarda le petrocrazie il quadro è analogo, con l’aggravante che, più o meno tutti questi paesi, hanno approfittato del periodo di prezzi molto alti per avviare programmi di spesa che non possono più sostenere, ma che è pericoloso interrompere. Il Venezuela e l‘Arabia Saudita sono casi emblematici.

Qualcosa di funzionalmente analogo avviene anche in politica.  Perfino le dittature, a maggior ragione le democrazie, per durare a lungo hanno bisogno di mostrare qualche successo all’opinione pubblica.   Finquando le cose vanno abbastanza bene non ci sono quindi grossi problemi, ma quando le difficoltà quotidiane cominciano a stringere la cintura di troppi cittadini troppo a lungo, occorre ridirezionare il malcontento. Per esempio su di un nemico esterno, oppure su di una minoranza interna od altro, secondo il contesto.   Ma quando leader e partiti cominciano a cercare il sostegno delle frange più oltranziste dell’opinione pubblica (integralisti religiosi, nazionalisti, ecc.), rischiano fortemente di trovarsi poi intrappolati in situazioni in cui o fanno qualcosa che sanno essere sbagliato, o perdono il potere e, magari, la vita.  

La recente vicenda della “ brexit” è emblematica in questo senso. Nato nella testa di David Cameron non per essere fatto, ma solo come trovata propagandistica, il referendum ha finito per essere votato ed approvato.  Questo ha proiettato l’intera classe dirigente inglese nel panico perché non era quello che contavano accadesse, al punto che ad oggi, oltre un anno più tardi, il governo ed il parlamento non sono ancora riusciti a mettere insieme una strategia.   Anzi, neppure un elenco completo delle cose da fare.  Certo, avrebbero potuto rimangiarsi la “papera” e le occasioni non sono mancate, ma per coglierle avrebbero dovuto ammettere di aver deliberatamente mentito per ingannare gli elettori.   Un fatto che li avrebbe cancellati dalla scena politica e che, perciò, nessuno ha avuto il coraggio di fare. 

In questo periodo sono molti i leader che si stanno cacciando in tipiche “trappole McBeth”: da Netanyau a Kim Jong Un, Putin  e Trump, ma forse l'esempio più di attualità ce lo fornisce il duo Rajoy-Puidgemont.   Entrambi hanno fatto di tutto per infilarsi in una situazione in cui non hanno più margini di manovra.  Il guaio è che, comunque vada, i catalani possono solo perdere una parte non sappiamo quanto consistente del loro tenore di vita.  Ma anche gli altri spagnoli e tutti gli europei ne avranno un danno.

 In cima alla scala.

Forse la più stretta analogia con la celebre tragedia si trova però alla massima scala: quella globale.   Negli anni ’70 un certo numero di streghe e di stregoni esperti in dinamica dei sistemi, ecologia e termodinamica avevano ampiamente avvertito del fatto che l’umanità si trovava ad un bivio: o accettare dei limiti, o distruggere la civiltà e buona parte del Pianeta con essa.  Altri stregoni, più pratici di psicologia che di scienza, ci hanno però detto che il nostro regno sarebbe durato per sempre e, collettivamente, abbiamo scelto di credergli.   Ora che dagli spalti di Dunsidane si vedono le prime frasche della foresta di Birnam in marcia, qualcuno comincia a rendersi conto dell’errore commesso. Ma per tornare indietro sarebbe oramai indispensabile prendere provvedimenti talmente drastici da provocare un disastro subito.   Per esempio, 70 anni fa per mantenere la popolazione umana entro limiti sostenibili, sarebbe stato sufficiente ridurre la natalità; oggi sarebbe necessario anche ridurre l’aspettativa di vita dei vecchi. Chi potrebbe ragionevolmente proporre una cosa simile?   

Parimenti, buona parte delle più devastanti retroazioni climatiche pronosticate si stanno manifestando con netto anticipo: dall’esalazione di metano dal permafrost e dai fondali marini, alla riduzione dell’albedo artica, alla ridotta attività fotosintetica, eccetera.  Ciò significa che, se davvero volessimo contenere l’aumento di temperatura media entro i 2 C° (che sono già molto dannosi), dovremmo tagliare brutalmente la produzione agricola ed industriale e farlo subito. Cioè condannare miliardi di persone ad una miseria senza precedenti. 


In sintesi.

Insomma, l’”effetto McBeth” è una trappola che si chiude gradualmente, man mano che qualcuno (individuo, azienda, classe sociale, nazione, umanità) mantiene una strategia che in passato ha dato buoni risultati anche quando questa comincia a non funzionare più.  Ad ogni passo innanzi il prezzo da pagare per procedere aumenta, ma aumenta anche il prezzo da pagare per tornare indietro. 

C’è una speranza? Secondo me si.  Per quanto le nostre conoscenze scientifiche siano senza precedenti, sappiamo infatti che i sistemi reali sono comunque più complessi di ogni possibile modello.  Esiste quindi la concreta possibilità che in futuro avvenga qualcosa di imprevisto che cambi le carte in tavola.  Ancor più importante è il fatto che, anche a fronte di un collasso globale, non tutte le regioni della Terra avranno lo stesso, identico destino. Man mano che il meta-sistema globale andrà in pezzi, i sub-sistemi che ne nasceranno seguiranno infatti traiettorie diverse.  Talvolta molto simili, talaltra divergenti e non c’è modo oggi di prevedere quali saranno i fattori chiave che faranno la differenza. Perciò sono convinto che l’unica cosa sensata che ci resta da fare sia cercare ti tenere la nostra barca europea pari il più a lungo possibile e, intanto, cercare di procurarsi un qualche tipo di cintura di salvataggio.  Il Titanic sta affondando, ma non tutte la cabine andranno sotto contemporaneamente e non tutti affogheremo.   Su questo possiamo contare, cerchiamo perlomeno di non buttarci in mare da soli.


martedì 31 ottobre 2017

Scienziati derelitti? E' proprio vero che quando non hai più argomenti, non ti restano che gli insulti.

La saggezza convenzionale dice che non ci si dovrebbe mettere in polemica con certa gente; in primo luogo non serve e poi gli dai una visibilità che non si meritano. Ma farò un'eccezione per questo post di Massimo Lupicino su "Climatemonitor," che riproduco nella sua interezza più sotto. Non è una cosa bella, ma è un buon esempio di come ci si può ridurre quando non hai più argomenti e non ti restano che gli insulti. O, forse, è semplicemente il caldo eccessivo per la stagione che da alla testa.

Non faccio ulteriori commenti - mi sembra che non ce ne sia bisogno - e lascio il giudizio ai lettori (UB).

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Vi ho sbirciati in posti che mi ero ripromesso di non frequentare, come fa un guardone consapevole della sua debolezza e della somma inutilità del gesto. E vi ho visti.
Vi ho visti rabbiosi, lividi, stupefatti e mortalmente offesi dalla sola idea che qualcuno la possa pensare diversamente da voi.
Vi ho visti pavoneggiarvi nel citare a sproposito altisonanti leggi della fisica, ed essere spernacchiati nel vostro stesso campo da forumisti di passaggio, radiati con effetto immediato dalla comunità, immagino per lesa maestà climatista.
Vi ho visti inveire contro chi si è permesso di raccontare altre storie rispetto a quelle che più vi piacciono. Storie comunque referenziate e argomentate, a differenza di quelle che amate leggere e sentire ripetere dalla gran parte dei media.
Vi ho visti insultare persone per nome e cognome, talvolta vostri colleghi ben più noti e titolati di voi, spargendo escrementi nel ventilatore, insinuando in modo volgare e basso.
Vi ho visti definire Christy un dilettante, una macchietta, un non-scienziato. Dall’alto delle vostre cattedre virtuali fatte di sproloqui e di invettive su siti più o meno desolati della provincia dell’Impero Climatista. E che cosa sarà mai l’onorificenza per “Eccezionale merito Scientifico” conferita dalla vostra (altrimenti) amata NASA allo stesso Christy, al cospetto della vostra manciata di “like” sui social network?
Vi ho visti irridere rispettati e stimati scienziati italiani del clima, che ai benpensanti come voi piace chiamare in altri contesti “cervelli in rientro”. Liquidandoli come “astrologi”, negando loro la dignità stessa di scienziato o ricercatore. Titoli che invece vengono generosamente riconosciuti a venditori di olio di serpente che impazzano sui media ma che si comportano come chi la scienza non l’ha mai frequentata in vita sua, nemmeno su Second Life.
Vi ho visti diffidare i pochi forumisti che vi leggevano dal frequentare siti pericolosi, accusati di diffondere fake news. Come si faceva molti anni addietro con quei libri sconvenienti che poi gli stessi censori andavano a leggersi di nascosto, abbandonandosi a pensieri impuri.
Vi ho visti, non mi siete piaciuti, ma sono contento che esistiate. Perché “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Lo dice l’Articolo 21 della Costituzione italiana. E non c’è narrativa pelosa sulle fake news o sull’hate speech che tenga, a fronte di questo diritto. Specie quando la narrativa in questione sembra nata dall’esigenza di chiudere la bocca a qualcuno, magari per lasciare qualcun altro libero di inveire ed insultare a difesa della causa “giusta”.
Vi ho visti, non mi siete piaciuti, ma vi voglio bene. Perché siete dei derelitti, esattamente come il sottoscritto, nel momento in cui andate a sbirciare in casa altrui per poi parlarne male in casa propria, e diffidare altri dal fare la stessa cosa. E quindi, a mo’ di ramoscello d’olivo, vi dedico anche una canzone (una cover in realtà) che vi piacerà, perché è seria come le vostre cause e compunta come le vostre sembianze quando ci annunciate come intendete salvare il mondo. A pensarci bene sembra scritta proprio per voi, anzi, per noi: You’re my Ramshackle, and I’ll love you clean” recita il ritornello, che mi piace tradurre: “Sei il mio derelitto, e ti vorrò bene, se ti dai una ripulita” (in calce il testo completo, con traduzione 😉 )
Allora, ce la diamo, questa ripulita?

venerdì 27 ottobre 2017

L'ottimismo sul clima è stato un disastro. Ci serve un nuovo linguaggio – disperatamente

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Di Ellie Mae O'Hagan

Il meteo estremo degli ultimi mesi cambia le carte in tavola: di sicuro adesso il mondo è pronto per parlare di cambiamento climatico come una catastrofe da collasso della civiltà



 Una casa alluvionata a Houston. “Grandi aree delle superpotenze globali dominanti è stata decimata da due tempeste che fanno impallidire Katrina in meno di un mese”. Foto: David J Phillip/AP

Nel 1988, quando lo scienziato James Hansen ha detto ad un comitato del senato che era “tempo di smettere parlare a vanvera e dire che ci sono prove molto chiare del fatto che l'effetto serra è già qui”, coloro che lo hanno preso sul serio pensavano che se solo avessero insistito nell'enfatizzare che questo fatto terribile ci avrebbe alla fine distrutto, si sarebbe agito. Invece è avvenuto il contrario: di fronte alla terribile realtà del cambiamento climatico, la maggior parte della gente tendeva a rifugiarsi in una visione panglossiana del futuro, o semplicemente non voleva ascoltare.

E' stato fatto molto lavoro da allora per capire perché il cambiamento climatico sia cosi unicamente paralizzante, principalmente da George Marshall, autore del libro “Non pensarci nemmeno”. Marshall descrive il cambiamento climatico come “il crimine perfetto e non rilevabile al quale tutti contribuiscono ma per il quale nessuno ha un movente”. Il cambiamento climatico è sia troppo vicino sia troppo lontano perché noi riusciamo ad interiorizzarlo: troppo vicino perché lo peggioriamo con le azioni di ogni minuto delle nostre vite quotidiane; troppo lontano perché fino ad ora è stata una cosa che colpisce stranieri in paesi stranieri, o versioni future di noi stessi che possiamo concepire solo in modo effimero.

E' anche troppo enorme. La verità è che se non agiamo ora per il clima, le scarsità alimentari, le migrazioni di massa e l'instabilità politica che causerà potrebbero vedere il collasso della civiltà nell'arco delle nostre vite. Chi di noi può sostenere questa consapevolezza?

Non sorprende quindi che qualche anno fa gli attivisti del clima siano passati ad un messaggio di ottimismo. Hanno dato retta a studi che mostravano che l'ottimismo era più galvanizzante della disperazione ed hanno iniziato a parlare di storie di speranza, emancipazione e successo. Hanno aspettato che si verificasse qualche evento meteorologico estremo per far sì che gli ultimi pezzi del puzzle andassero al loro posto. Forse l'alluvione di New Orleans sarebbe stata sufficiente; forse alcune delle persone bianche e ricche che sono state strapazzate dall'uragano Sandy avrebbero usato il loro privilegio per richiedere azione. Forse Harvey o Irma – ed ora Maria – avrebbero provocato la fuga dal nostro stordimento. Non è accaduto.

Piuttosto, penso che quello che ha fatto un pensiero di ottimismo sia creare un enorme canyon fra la realtà del cambiamento climatico e la percezione che ne ha la maggior parte della gente. Un messaggio ottimista ha portato alla compiacenza - “la gente dice che è fattibile, quindi probabilmente andrà tutto bene” - e sostenere le storie di successo ha convinto le persone che l'azione patetica e logora intrapresa dai governi sia finora sufficiente. Ho perso il conto del numero enorme di persone consapevoli e politicamente impegnate che ho incontrato che non hanno idea di quanto ci sia in gioco.

Potrebbe essere che se il momento di un movimento di massa non è adesso, non ce ne sarà nessuno. Il fatto è che nessuno sa come risolvere l'enigma come persuadere l'opinione pubblica perché chieda azione per il clima. Io non ho di sicuro le risposte. Ma penso che dobbiamo contemplare l'idea che qualcosa stia andando disastrosamente male – che forse è tempo di tornare sui nostri passi e ripensare il modo in cui parliamo del cambiamento climatico.

Sono successe due cose significative da quella audizione del comitato del Senato del 1988: la prima è l'Accordo di Parigi del 2015 per cercare di limitare il riscaldamento ad 1,5°C – una ricerca uscita questa settimana mostra che questo è ancora possibile. La seconda è che grandi aree delle superpotenze globali dominanti è stata decimata da due tempeste che fanno impallidire Katrina in meno di un mese. Le circostanze sono cambiate negli ultimi 30 anni: il cambiamento climatico è un dato di fatto ora ed abbiamo un obbiettivo specifico da perseguire, per limitare il danno che causerà.


”Dobbiamo mettere in crisi il silenzio pervasivo sul cambiamento climatico” George Marshall, l'autore di “non pensarci nemmeno”, parla ad un evento organizzato da The Guardian. 

Una nuova campagna potrebbe concentrarsi sulla necessità che i governi raggiungano l'obbiettivo dei 1,5°C, enfatizzando quanto sarebbero terribili le conseguenze se non lo facciamo. La gente non ha più bisogno di immaginare come sia il cambiamento climatico: possono vederlo nell'acqua del mare che ha avvolto le isole dei Caraibi, nelle case sommerse di Houston, nei bollettini di coloro che non sono riusciti a fuggire e si sono preparati a perdere tutto. In Gran Bretagna abbiamo visto l'acqua dell'alluvione inondare interi paesi; un pub che è diventato una via di transito per un fiume gonfio. E' così che si presenta una catastrofe alla porta di casa e forse è tempo che colleghiamo queste immagini al cambiamento climatico con tanto piglio quanto quello con cui l'industria dei fossili lo nega.

Potrebbe funzionare il linguaggio dell'emergenza? Non è mai stato provato con tutte le prove meteorologiche che abbiamo oggi e non abbiamo mai avuto un obbiettivo più chiaro ed unanime come quello concordato a Parigi. La sola cosa che so è che gli eventi degli ultimi mesi hanno cambiato i giochi e questo è il momento di cominciare a dibattere un modo nuovo di parlare del cambiamento climatico. Potrebbe essere che se non è questo il momento di un movimento di massa, non ce ne sarà mai uno.

• Ellie Mae O’Hagan è redattrice presso openDemocracy  ed è una giornalista freelance